di Giorgio Israel
L’affermazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno secondo cui le leggi razziali fasciste furono il “male assoluto” ma il fascismo fu un fenomeno complesso, non ha nulla di scandaloso ma è viziata per due motivi. Non è scandalosa perché sostenere che il fascismo fu un fenomeno variegato che, per vari aspetti, si colloca in una zona grigia rispetto all’orrore senza attenuanti del nazismo, è la tesi di molti storici rispettabili e certamente non filofascisti, a cominciare da Renzo De Felice.
Poi si apre un’analisi storiografica comparativa tra nazismo, fascismo italiano, franchismo, vari regimi comunisti, ecc. ed è indubbio che, sotto questo profilo, il fascismo si presta a valutazioni più complesse e sfumate del nazismo. L’affermazione di Alemanno sarebbe stata quindi ineccepibile se si fosse accompagnata alla pregiudiziale posta da Fini, la quale, a sua volta, si è accompagnata all’osservazione che non tutti coloro che combattevano dalla parte giusta avevano intenzioni trasparenti e corrette per quanto riguarda la democrazia.
Difatti, non è vietato esprimere giudizi se si è “post” – postfascista o postcomunista – a condizione che si sia molto netti e chiari sulla questione della libertà e della democrazia. Molti di coloro che combatterono sul fronte antifascista non erano affatto limpidi in merito e avevano un progetto che con la democrazia liberale aveva poco a che fare.
Perciò, la chiarezza che è stata richiesta ad Alemanno va pretesa anche da chi si è stracciato le vesti di fronte alla sua affermazione e, pur proclamando di essersi distaccato in modo definitivo dal proprio passato comunista, continua a rifiutarsi di condannare il carattere liberticida del comunismo e a cavillare sul fatto che i comunisti sarebbero stati sempre sul fronte della democrazia in quanto antifascisti. Questo è inaccettabile.
Se si chiede a giusto titolo di dire che il fascismo è stato dalla “parte sbagliata”, è inammissibile che non si riservi lo stesso giudizio a un regime che ha basato il proprio potere sul crimine di Stato, sul Gulag, sul lavoro forzato, sulla collettivizzazione delle campagne imposta mediante la deportazione e lo sterminio di milioni di persone, sull’omicidio sistematico degli oppositori politici.
In un’ottantina di anni di storia gran parte degli italiani (di noi…) sono stati sul fronte dei totalitarismi di destra e di sinistra, sono stati fascisti o comunisti. Quando si parla di stabilire un minimo comun denominatore politico (non una “memoria condivisa”, che è un’emerita baggianata) non s’intende parlare di abiure e ceneri sul capo: s’intende condividere il giudizio che queste esperienze politiche sono state contrarie ai princìpi di democrazia e libertà su cui vogliamo che la nostra società continui a fondarsi.
Se questo giudizio viene accolto in modo ambiguo, con due pesi e due misure, chiedendo che si stabilisca che il fascismo era la parte sbagliata e poi rifiutandosi di farlo nel caso del comunismo, non ci siamo proprio. L’antifascismo può essere un valore condiviso a condizione che se ne dichiari la totale contraddittorietà con il totalitarismo comunista.