di Giacomo Samek Lodovici
Il progetto di Milingo di costituire una Chiesa scismatica di preti sposati e le dichiarazioni del cardinal Hummes (peraltro poi successivamente precisate), sono un’opportunità per ricordare con quali argomenti la Chiesa cattolica sostenga la scelta celibataria, che pur non è dogmatica.
Gesù ha fatto tale proposta ai suoi discepoli: nei Vangeli infatti ci sono passi che parlano di una rottura con i rapporti familiari e che concernono la sequela celibataria di Cristo: «Chi non odia suo padre e sua madre non può essere mio discepolo; chi non odia suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26); «non c’è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli o campi per il regno di Dio che non riceverà il centuplo quaggiù e la vita eterna» (Lc 18, 29 e paralleli); molto importante è poi quanto dice Gesù in Mt 19, 12: «vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno». Gesù parla di sé e di uomini che, liberamente, hanno scelto il celibato come totale servizio di Dio.
2) Il celibato è una scelta d’amore esclusivo per Gesù, da cui promana l’amore per tutti coloro che Egli ama. È una scelta esclusiva come la scelta di un coniuge, a cui si deve dedicare la propria vita, e da cui promana l’amore per le persone amate dal coniuge. Secondo S. Paolo «chi non è sposato si preoccupa […] come possa piacere al Signore» (1 Cor 7, 32). «Piacere al Signore» vuol dire amarLo: infatti l’uomo cerca di piacere alla persona amata. Il «piacere a Dio» del sacerdote, così, ha il carattere della relazione interpersonale degli sposi.
3) Dai passi di S. Paolo si comprende anche che, mediante il celibato, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo possono essere più integrali. Mentre chi non è sposato si preoccupa di come piacere a Dio, l’uomo sposato deve preoccuparsi anche di come accontentare la moglie. Paolo osserva che l’uomo legato col vincolo matrimoniale «si trova diviso» (1 Cor 7, 34) a causa dei suoi doveri familiari (1 Cor 7, 34). Da questa constatazione sembra quindi risultare che la persona non sposata può dedicarsi completamente a Dio.
Il cardinal Castrillon Hoyos ha inoltre sottolineato la connessione tra l’Eucaristia e lo stato del sacerdote, il quale può «trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire assumere una “forma eucaristica”. L’Eucaristia, infatti, costituisce il momento culminante nel quale Cristo, nel suo Corpo donato e nel suo Sangue versato per la nostra salvezza, svela il mistero della sua identità ed indica il senso del ministero sacerdotale». Il sacerdote che amministra l’Eucaristia, che è dono perfetto, deve essere egli stesso dono totale.
Anche chi si sposa è chiamato a seguire Gesù in modo radicale, mettendolo al centro di tutte le sue attività e del matrimonio. Ma, obiettivamente, la sua disponibilità non sarà dello stesso tipo di quella del sacerdote, che può esercitare la sua piena dedizione (a Dio e a vantaggio di tutte le anime) in maniera concretamente più ampia. Questo non toglie la possibilità che (come si vede spesso negli USA) ci siano degli sposati che si dedicano alla causa del regno di Dio con maggiore passione e dedizione dei non sposati. Ma, di per sé, è più facile che avvenga il contrario.
4) Il legame degli apostoli con Gesù era concretamente vissuto nella forma di una piccola comunità fraterna ed amicale unita intorno a Lui. C. Cochini, nella sua opera di ricerca storica, dimostra che i Padri della Chiesa ritengono unanimemente che quegli apostoli che erano stati sposati, hanno poi interrotto la vita coniugale e praticato il celibato. Gli apostoli furono invitati a lasciare tutto, per divenire «pescatori di uomini».
La rinuncia ai legami familiari porta cioè a convivere e ad intrattenere una rete di relazioni profonde e costanti con altri discepoli di Gesù. Infatti, la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira esplicitamente ad assumere altre relazioni interpersonali: quella con lo stesso Gesù; di seguito quelle coi compagni della comunità sacerdotale, e, poi, con tutti gli uomini.
L’essere eunuchi non significa rinunciare ad una relazione umana profonda: oltre alla relazione centrale con Gesù, uomo Lui stesso descritto in relazione fra gli uomini, c’è dunque la fraternità con gli altri «celibi per il regno»: si tratta della nuova famiglia di Gesù.
Insomma, parlando del celibato sacerdotale bisogna evitare di intenderlo come una rinuncia all’amore: è la scelta di amare Gesù, gli altri sacerdoti e il proprio gregge.
Quanto detto, però, indica che il celibato non è una rinuncia ai legami familiari che equivalga ad un loro disprezzo a favore di una relazione solo con Dio, non è una condanna delle relazioni umane. Anzi, Gesù ha puntato fin dall’inizio alla costituzione di una comunità di discepoli, vincolati intimamente da una relazione interpersonale profonda e specifica, denominandoli Egli stesso in base alla realtà di tale relazione: «non vi ho chiamati servi ma amici» e “non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13-16).
Gli Atti degli Apostoli ci presentano un modo di vivere ricco di relazioni umane: gli apostoli si muovevano in gruppi o in coppie di discepoli, stabilendo una serie di legami contraddistinti da amicizia e familiarità.
Quanto poi a coloro che si sposano, basta ricordare di nuovo S. Paolo: «Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7, 7). Quindi, anche coloro che scelgono il matrimonio ricevono da Dio un «dono», il «proprio dono», cioè la grazia propria di questo modo di vivere.
Contrariamente a quanto spesso si dice, la scelta celibataria della Chiesa risale addirittura agli apostoli. A. Stickler ha ampiamente dimostrato che fin dall’inizio i sacerdoti erano uomini non sposati, oppure uomini sposati che ricevevano l’ordine sacro e che, da quel momento, col consenso della moglie (che doveva essere mantenuta a spese della Chiesa), si impegnavano alla continenza, a non usare del matrimonio.
Chi fa risalire questa scelta al Sinodo di Elvira, del primo decennio del IV secolo, non si avvede che questo consesso non introdusse un nuovo obbligo, ma reagì contro la sua trasgressione, comminando una sanzione.
Il testo di san Paolo: “bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta […] Sappia dirigere bene la propria casa e abbia figli sottomessi” (1 Tm, 3, 2-4), non va interpretato come una prova contro la continenza celibataria, bensì come una prova a suo favore: già nel 386 papa Siricio, spiegava che san Paolo qui dice che colui che è diventato vedovo, se sente la necessità di risposarsi, fa sorgere seri dubbi sulla propria capacità di vivere la castità.
È vero che presso certi riti orientali ci sono sacerdoti sposati; ma ciò non fa crescere le vocazioni. Infatti, sia presso gli anglicani e protestanti, sia presso gli ortodossi e gli orientali, l’immagine del pastore sposato o del prete sposato, anziché favorire, sembra rallentare le vocazioni ed in certo senso anche la loro attrattiva vocazionale; anche presso gli orientali l’immagine del prete celibe è spesso più attraente.
Ad ogni modo, anche in Oriente i vescovi sono tenuti al celibato, il che indica che c’è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale: infatti, quando un sacerdote riceve l’ordinazione partecipa del sacerdozio del vescovo.
Del resto, Stickler ha dissipato un’erronea convinzione ancor più diffusa, spiegando che la norma sul celibato o sulla continenza vigeva fin dai tempi apostolici anche nella Chiesa d’Oriente. Solo nel 691, al Concilio Trullano, ci fu il cedimento della Chiesa d’Oriente, per l’interferenza degli imperatori di Bisanzio, che si ingerivano nelle questioni ecclesiastiche.
D’altra parte, non esiste a tutt’oggi un matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di matrimonio di preti in Oriente, non ci riferisce a preti che si sposano, ma a uomini sposati che sono ordinati preti: in Oriente come in Occidente non è mai permesso a un prete di sposarsi. E anche in Oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi.