di Stefano Magni
Auschwitz come la Cambogia di Pol Pot, l’importante è condannare i totalitarismi. A dirlo è lo stesso Walter Veltroni, leader del Partito Democratico, erede diretto della tradizione del PCI. Dunque questa è forse la volta buona che il messaggio anti-totalitario passi senza essere tacciato di “grezzo comparativismo” o di “criminale revisionismo storico”.
Certo viene da chiedersi: poteva pensarci prima? Riconoscere la brutalità dei regimi comunisti oggi è un dovere storico, ma non si può fare più nulla per il milione e mezzo di vietnamiti, per i due milioni e mezzo di cambogiani e le decine di milioni di russi ed europei orientali (60 milioni solo nell’ex Urss) assassinati dai loro stessi regimi. Nel 1975, si poteva ancora fare qualcosa.
Si potevano far conoscere gli orrori del Sud-Est asiatico conquistato dai comunisti manu militari, si poteva agire direttamente per ospitare i rifugiati politici dell’Est europeo, si poteva premere sul governo per un’azione comune con gli Stati Uniti, per lanciare un messaggio chiaro all’Unione Sovietica e non permetterle di annettere tutta l’Asia sud-orientale.
In parole povere: un vero democratico, negli anni ‘70, avrebbe dovuto essere in prima linea nella lotta contro le dittature comuniste, oltre che contro le dittature di destra. Ma cosa scriveva e pensava Veltroni mentre, sotto gli occhi di tutto il mondo, i Nord Vietnamiti conquistavano militarmente Saigon e i Khmer Rossi (che fino a quel momento erano stati appoggiati dal Vietnam del Nord), un mese dopo, prendevano Phnom Penh?
Veltroni, che ora dichiara di non essere mai stato comunista, nel maggio del 1975 , su “Roma Giovane” (il mensile della FGCI), scriveva che: “I compagni vietnamiti ci hanno detto: ‘La nostra lotta è giusta, uniti vinceremo’. Ed hanno sconfitto la grande potenza americana e sono entrati a Saigon dove lavorano per costruire un Vietnam pacifico e indipendente”.
E poi andava avanti nell’apologia del regime stalinista vietnamita (responsabile di 1 milione e mezzo di morti, prima, durante e dopo la Guerra del Vietnam), scrivendo che: “I soldati del GRP hanno scritto le parole che Ho Ci Min pronunciò nel ´68 prima dell´offensiva del TET: ‘Questa primavera sarà migliore di ogni altra; la notizia delle vittorie riempie di gioia tutto il paese, Nord e Sud, gareggiando in coraggio sconfiggono lo Yankee. Avanti, la vittoria è nelle nostre mani’.
L’Indocina, l´Africa, l´America latina, la Cina, Cuba Socialista, il Portogallo, la Grecia, i paesi socialisti dell´Est europeo, tutto il mondo si colloca sulla strada della libertà e del progresso. Libertà, progresso, giustizia sociale, valori che si affermano in dimensioni sempre più ampie tra i giovani e che vanno tutte nella direzione del socialismo. Esso, lo sappiamo, non è dietro l´angolo. Coscienti di questo nel chiedere ai giovani il voto al PCI sentiamo di dover proporre qualcosa di più: un impegno coerente di coscienza e di lotta. Questa è la linea che prospettiamo ma non ne esistono, ne siamo convinti, altre”.
In questi scritti non c’era alcun dubbio sull’immacolata concezione dei regimi comunisti, né c’era alcuna ammissione dei loro crimini. Anzi, nello stesso articolo, “I giovani, la libertà, il socialismo”, il giovane Veltroni rispondeva, a chi gli ricordava la natura criminale di quei regimi, che: “Ogni volta che tra i partiti politici si parla di socialismo alcuni di essi, in primo luogo la DC, partono in voli pindarici descrivendo a tinte fosche, come in un libro di Carolina Invernizio (romanziera gotica di fine ‘800, ndr), il carattere dittatoriale e le soppressioni della libertà che a parere loro (sic!) vigerebbero nei paesi socialisti. Non abbiamo mai esitato a far sentire alta la nostra voce quando abbiamo ritenuto che in questo o quel paese un intervento esterno comprimesse la libertà di quel popolo, così come non abbiamo mai mancato di sviluppare un dibattito serrato sulle questioni della democrazia socialista. Ma sempre in questi dibattiti si è affermato il carattere franco e aperto che caratterizza le discussioni tra partiti fratelli (quelli dell’Urss e dei paesi del Patto di Varsavia, ndr)”.
Sarà utile, oggi, piangere sul latte versato? Sì, sempre che si ammetta che di latte ne è stato versato parecchio. Praticamente nessun comunista, a parte Massimo Caprara e pochissimi altri, ha pronunciato le due parole magiche “ho sbagliato”. Ma forse i tempi sono ancora poco maturi, anche se sono passati ben diciotto anni dal collasso del sistema comunista europeo.
Infatti sono bastate le parole di Veltroni per far scattare la reazione di Marco Rizzo, del Partito dei Comunisti Italiani: “Sul comunismo, o ignora la storia, o è intellettualmente disonesto: quelle dittature (Hitler e Pol Pot, ndr) sono state battute dagli eserciti di due Stati comunisti, l’Armata Rossa e l’Esercito Popolare Vietnamita”. Forse Rizzo vuole ricordare a Veltroni che cosa scriveva sui comunisti vietnamiti solo un trentennio fa.
Ma qui si passa dalla farsa alla tragedia, perché rivendicare l’eredità della “liberazione” comunista dell’Europa orientale e della Cambogia, vuol dire anche ereditare la responsabilità del bagno di sangue che ne è seguito. In Cambogia, il Vietnam comunista (e filo-sovietico) sconfisse rapidamente il regime comunista (ma filo-cinese) di Pol Pot nel 1979, instaurò un regime fantoccio guidato da Samrin (un Khmer Rosso convinto, rivale personale della cerchia di Pol Pot) che non ripristinò affatto le libertà perdute dai cambogiani, ma completò il genocidio, facendo altri 230.000 morti in poco meno di un decennio.
Ci vuole ancora più coraggio a rivendicare la “liberazione” dell’Europa orientale da parte dell’Armata Rossa. Scacciato il nazismo, i Sovietici instaurarono, una dopo l’altra, le dittature che avrebbero sottomesso mezza Europa fino al 1989.
Il processo di trasformazione dell’Europa orientale fu sanguinosissimo: 1 milione e mezzo di cittadini di origine tedesca fu ucciso nel corso delle espulsioni massicce da Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia. I partigiani polacchi vennero sistematicamente internati nei campi di concentramento gestiti direttamente dall’NKVD (l’antenato del KGB) e potevano scegliere fra l’arruolamento delle formazioni filo-comuniste del generale Berling, costituitesi su ordine di Mosca, o la deportazione.
Le cifre della deportazione sono ignote: si conosce il numero di coloro che giunsero vivi nei gulag sovietici, ma non delle migliaia (decine di migliaia?) che perirono durante il viaggio. Si va da una stima minima di 20.000 a un massimo di 55.000 deportati.
A questi vanno aggiunti altri 25.000-30.000 cittadini polacchi di etnia tedesca, molti dei quali non erano nemmeno collaborazionisti: basti pensare che almeno la metà di questi erano minorenni. Anche nella piccola porzione di Cecoslovacchia, “liberata” dai Sovietici durante la guerra, finirono nei gulag 40.000 persone, per motivi che variavano dall’accusa di collaborazionismo al semplice fatto di essere giudicati “borghesi”.
Passando a quelle che erano considerate nazioni nemiche dall’Unione Sovietica, perché erano alleate con la Germania nazista, l’occupazione dell’Armata Rossa costò moltissimo in rapporto alla popolazione. In Ungheria scomparvero 600.000 abitanti, su una popolazione che allora contava 9 milioni di anime e la cifra, come nel caso delle deportazioni dalla Polonia, non tiene conto di coloro (forse la maggioranza) che perirono durante il viaggio verso i gulag.
In Bulgaria, Paese che non aveva partecipato direttamente alla guerra e non aveva inviato truppe contro l’Unione Sovietica, si scatenò quella che viene ricordata dai testimoni col nome di “epurazione selvaggia”: circa 40.000 “nemici di classe” (sacerdoti, giudici, industriali, giornalisti, politici non comunisti) trucidati in pochi mesi dall’Armata Rossa. Una bella eredità di cui vantarsi, non c’è che dire.
(A.C. Valdera)