il Giornale sabato 2 ottobre 1999
Marcello Veneziani
Il primo ottobre del 1949 il comunismo diventava miliardario. Non in senso capitalistico ma nel senso comunistico della parola, riferita alle masse umane incluse nel suo cono di potere. Con la conquista del potere di Mao il comunismo assumeva infatti quella grandezza planetaria e imperiale che lo rendeva il regime più popoloso del mondo.
Mezzo secolo è passato da quella rivoluzione che riuscì a far impallidire per efferatezza e distruzione perfino l’opera di Lenin e di Stalin messi insieme. Vent’anni dopo, nel 1969, un altro sanguinoso bilancio sotto il nome aureo di Rivoluzione culturale fu portato a compimento dal regime cinese. E dieci anni fa, nel 1989, piazza Tienanmen fu l’ultimo spettacolare colpo di coda della repressione cinese.
Non vi racconterò in queste righe la storia degli orrori del comunismo. Altri lo hanno fatto meglio di me e non certo nei limiti di un articolo. Aria fritta, tragicamente fritta. Non vi racconterò nemmeno la storia del maoismo alla pummarola, vale a dire dell’italomaoismo, i tanti cinesi della stampa e dell’università nostrana, odierni ministri e insospettabili pentiti che rincretinirono per la Cina di Mao e giunsero a trovare splendore nella miseria cinese, aria di libertà nei massacri e filosofia profonda nella demenza naive dei pensierini di Mao. Sarebbe un elenco penoso, imbarazzante e un po’ da questurini della cultura, benché sia giusto non dimenticare.
No, non è di questo che voglio parlare a proposito di un anniversario gigantesco come quello della rivoluzione comunista cinese. Ma di un altro delitto trascurato nella contabilità degli orrori del comunismo. Un delitto senza sangue, anzi direi anemico, le cui vittime sono ancora in vita, sono tra noi, forse noi compresi; un morbo che si trasmette alle più giovani generazioni. A cosa alludo? Dopo il comunismo è difficile avere idee politiche, passioni civili, voglia di giustizia sociale, attese di cambiamenti.
Il comunismo ha avvelenato nel mondo i pozzi della speranza. Con la sua ideologia ha ucciso anche il profumo delle idee e nel suo gorgo finale ha trascinato anche la possibilità di coltivare delle idee e non solo degli obbiettivi o degli interessi; con i detriti lasciati dal suo furore ha reso proibitive le passioni civili e peccaminose le attese di cambiamenti.
Con il suo socialismo reale ha reso irreale la voglia di giustizia sociale. E anche oggi, quando mi capita di sostenere l’idea di una democrazia comunitaria, mi sento a volte obiettare che comunità evoca comunismo. Ma no, ragazzi, vi sbagliate, provo a replicare: la comunità sta al comunismo come i polmoni alla polmonite. C’è qualche differenza tra un organo e la sua patologia, mi pare. Ma è difficile distinguere, si alzano i ponti levatoi, le scottature restano. Perché il comunismo ha fatto terra bruciata di ogni legame sociale.
Pensate quante generazioni stanno scontando gli eccessi della generazione di filocinesi, sessantottardi e compagnie varie; quanti decenni di gomma e di nulla dobbiamo sorbirci per scontare gli anni di piombo e di stella rossa? Quanta idiozia tecnoqualunquista dobbiamo ancora sopportare in isconto dell’idiozia rivoluzionaria dei guerriglieri comunisti? Non sottovalutate quest’ultimo delitto del comunismo rispetto a quelli cruenti che conosciamo. Perché è un delitto che brucia l’anima, la rende un brutto straccio e dissecca i serbatoi di speranza che ogni epoca deve tenere aperti. Non si vive di speranze, lo sappiamo bene; ma non si vive bene senza.
Quando leggo oggi Reset, la rivista della nuova sinistra che s’interroga sull’anima perduta della politica, io pongo l’elementare obiezione: ma a chi dobbiamo attribuire quella perdita se non alla forbice atroce tra utopia e cinismo in cui il comunismo più di ogni altro agente, ha fatto a pezzi l’umanità e i suoi progetti? È facile dar la colpa al capitalismo che tutto ha essiccato e mercificato: in realtà ha riempito un vuoto. Quando in una città bombardate il duomo e il caffè perché là si ritrovano gli sporchi borghesi, la scuola e l’università perché allevano i nuovi borghesi, le città sfasciate ripartono dal mercato, dove si soddisfano i bisogni primari.
Anzi, diciamo la verità: avendo ridotto tutto il resto a sovrastruttura del capitale, a pelo superfluo del denaro, il comunismo ci ha consegnato nudi e crudi alla servitù del mercato, come l’unica struttura vera che serve a garantire i bisogni primari dell’uomo. Non è colpa del mercato se non ci sono più i valori: il mercato vende merci, non è un atelier di anime, non rimpiazza monaci e artisti. Avendo poi fatto tabula rasa delle idee e dei valori spirituali, il comunismo ha spinto gli uomini a riconoscersi solo attraverso lo status biologico: andrebbe infatti spiegato perché la tentazione etno-razzista e il peggior nazionalismo fioriscano sui cocci infranti dei Paesi comunisti (ex Jugoslavia inclusa).
Insomma credo che il processo al comunismo sia ancora incompiuto per quest’assenza di un importante capo d’accusa. Anche in questo caso i superpentiti sono poco attendibili. Il comunismo ha azzerato la politica, le idee, le passioni, ed è stato un formidabile traghetto verso il nichilismo. Ha ucciso Platone, usandolo peggio dei tiranni di Siracusa, perché gli ha affidato il compito di fare il guardiano del gulag. Lo ha ridotto ad un Platone d’esecuzione.
Dunque, il comunismo non ha peccato solo contro la vita degli uomini ma anche contro la loro anima e le loro idee. Ha insanguinato la terra ma ha anche oscurato il cielo.