Occorre considerare e giudicare i risultati delle scienze sperimentali all’interno dei principi dell’antropologia. Una necessità imposta dalle patologie di una scienza che rifiuta il suo ruolo di puro strumento conoscitivo e ama presentarsi sempre più come datrice di senso per la vita umana e generatrice di etica
di Giandomenico Mucci s.i.
Remo Bodei ha ricordato un fortunato romanzo del 1932, Il mondo nuovo, nel quale l’autore, Aldous Huxley, descriveva una società formata da esseri umani programmati in base ai ruoli che dovranno svolgere, fabbricati dentro provette e macchine e soddisfatti della loro condizione grazie a una droga. Ciò che una volta era fantascienza ha acquistato oggi una certa plausibilità mediante le biotecnologie e gli psicofarmaci.
È possibile, in prospettiva, avere bambini su misura (designed babies), animali transgenici o donati e stati di coscienza modificati o alterati da droghe. Dieci anni or sono, un filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, sostenne la necessità di programmare gli uomini con l’uso di tecniche «zoopolitiche» di selezione prenatale e di modificazione del patrimonio genetico. La nascita degli uomini non va lasciata al caso. Bisogna invece tecnologicamente migliorarla. E il modo migliore consisterebbe nell’assimilare la nascita e il governo degli uomini all’allevamento degli animali. Contro questa «eugenetica positiva» presero posizione l’Habermas e l’allora card. Ratzinger con motivazioni diverse (2).
E possibile oggi condizionare psicofisicamente milioni di uomini? Gli osservatori più prudenti ritengono che si tratti di una prospettiva ancora prematura tecnicamente e, nelle società democratiche, priva del necessario appoggio o controllo politico. Tuttavia, è un fatto la «società sedata». Lo prova non soltanto la manipolazione mediatica e politica, ma anche, e forse soprattutto, la diffusione dei farmaci psicotropi che, soltanto negli Stati Uniti, sono consumati dal 10% della popolazione equivalente a 28 milioni di persone.
Questi prodotti, appartenenti alla famiglia del Prozac o dello Zoloft, incidono sui neurotrasmettitori, calmano l’ansia e favoriscono uno stato temporaneo di serenità e di euforia. Il Ritalin, studiato inizialmente per tenere a freno i bambini ipercinetici e incapaci di concentrazione, è usato, di fatto, anche per stabilizzare l’umore e il comportamento degli adulti.
Potrebbero questi farmaci, in versione potenziata, diventare armi di controllo sociale, come la droga di Huxley o i farmaci somministrati ai dissidenti politici nei manicomi sovietici? La massificazione violenta e livellatrice degli individui, in auge nei regimi totalitari del Novecento, sarà sostituita da una sorta di benessere artificiale tendente a fare degli uomini delle monadi chiuse in se stesse? Come dicevamo, una risposta certa a queste domande è oggi per molti versi prematura.
Non è però prematura una serie di considerazioni. È vero, come nota il Bodei, che non siamo ancora in grado di valutare e assorbire i grandi mutamenti introdotti dalle biotecnologie e dalla farmacologia. Né possiamo misurare e prevedere compiutamente il senso della trasformazione dallo stadio dell’umano a quello delpost human, cioè del passaggio dai corpi organici agli esseri fatti di carne e metallo, di silicio e di plastica, di parti umane e animali che i trapianti possono trasferire da un individuo all’altro.
Ma possiamo già riflettere su una realtà evidente per tutti. Le biotecnologie mettono in discussione convincimenti, abitudini e idee che duravano da millenni e obbligano a riformulare molti dei parametri della vita quotidiana, dalle relazioni affettive di parentela al ruolo della sessualità, dalle norme etiche e giuridiche riguardanti i diritti dei singoli e delle famiglie al sistema dei sentimenti che accompagnano i momenti solenni dell’esistenza dell’uomo: il concepimento, la nascita, la paternità e la maternità, la morte. Ci si sente coinvolti nella rischiosa libertà determinata dall’egemonia della scienza e dal naturalismo scientistico che ad essa segue.
Primo: la scienza dell’uomo
I rischi ai quali abbiamo accennato non devono significare rigetto o sfiducia o ingratitudine nell’opera della scienza. Segnalano piuttosto la deriva a cui può condurre il positivismo scientistico, ossia la razionalità di una scienza che si fa neutrale rispetto ai valori (3). Uno dei gravi problemi di oggi è la pretesa di onnipotenza della scienza che, giocando sulle speranze che accende, aspira a costruire e fornire il senso della vita. Hans Magnus Enzensberger ha osservato che essa presenta più dilemmi che soluzioni e, nel suo ambito, sono proprio le scienze più giovani, come la biologia, a mostrare quel tipico vizio dell’adolescenza e della giovinezza che è la mania di grandezza (4).
Sui limiti della scienza il Magistero di Benedetto XVI è particolarmente luminoso. Dopo aver reso omaggio ai «prodigiosi progressi» conseguiti dalle scienze sperimentali, il Papa mette in guardia dalla «tentazione di voler circoscrivere completamente l’identità dell’essere umano e di chiuderlo nel sapere» scientifico. Poiché «l’uomo va sempre al di là di quello che di lui si vede o si percepisce attraverso l’esperienza», è necessario affiancare alla ricerca scientifica la ricerca antropologica e teologica.
Questa mostra che «l’uomo non è il frutto del caso e neppure di un insieme di convergenze, di determinismi o di interazioni psicochimiche», ma è invece «un essere che gode di una libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la trascende e che è il segno del mistero di alterità che lo abita». Perciò è necessario educare le coscienze «affinchè la scienza non divenga il criterio del bene». Essa «non è in grado di elaborare princìpi etici: può solo accoglierli in sé e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie» (5).
È stato detto con arguzia che, nella pratica, non è la scienza a creare problemi. Sono gli scienziati che fanno della scienza l’unica forma valida di conoscenza, traendo da essa ciò che essa non può dire sulla domanda di senso, competente com’è soltanto nel campo conoscitivo delle scienze empiriche, ossia in un campo di conoscenza parziale che deve integrarsi con quelle forme di conoscenza offerte dalla filosofia e dalla teologia. Ma non è sfuggito a Benedetto XVI quel nodo critico che nasce quando la ricerca scientifica si interseca con la tecnica che la utilizza, applicandola a risultati concreti.
Allora «il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un’intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l’uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico» (6). A questo punto, si potrebbe avviare la discussione sul rapporto genetico tra il progresso scientifico e il relativismo nei confronti dei problemi fondamentali dell’esistenza umana. «L’eccezionale progresso della scienza, di cui noi usufruiamo, ha portato alla rinuncia alla verità, che all’umanità sembra essere inaccessibile nella profondità del suo interrogativo». È il giudizio dell’allora card. Ratzinger contenuto in un suo discorso all’Università di Chieti il 28 gennaio 1989 (7).
La deformazione del sapere scientifico
Quando si sostiene che soltanto la scienza può far raggiungere all’uomo la verità, permettendogli di realizzare appieno il suo essere, si fa del sapere scientifico il fine ultimo dell’essere: e lo si deforma nella sua natura di semplice strumento conoscitivo del cosmo e dell’uomo. Una tale deformazione comporta la negazione, che attraversa tutta la modernità, di quegli orizzonti insopprimibili nell’esperienza umana che avviano oltre la pura materialità, verso la consapevolezza che esiste una realtà non contraria alla scienza ma più grande del sapere scientifico: una realtà che è dato all’uomo di intravedere nella tensione a una verità perfetta, alla bellezza, all’amore, al sacrificio di sé per amore.
«L’uomo, questo è il punto che il pensiero illuminista non ha mai voluto affrontare, percepisce sin dall’inizio che la sua mente aspira a qualcosa di più, a conoscere, almeno a intuire, l’infinito e l’invisibile. Immanuel Kant pone precisi limiti alla conoscenza umana, ma aggiunge che senza l’intuizione e la fede in Dio la vita dell’uomo perde senso, diviene piatta e statica. Ma il razionalismo scientista preferisce chiudere in un cassetto questa parte di Kant» (8). L’attività della scienza, quando non esonda dal suo ambito di ricerca, costituisce una preziosa opera di ampliamento delle conoscenze umane.
E quel suo ambito dovrebbe essere sempre tenuto ben distinto dalla tradizione religiosa. Purtroppo, «di tanto in tanto, qualche cattivo scienziato, in cerca di facile popolarità, si mette a pontificare, in nome della scienza, su questioni religiose. Ma quel cattivo scienziato è giustamente considerato un ciarlatano dagli scienziati seri» (9).
In proposito, è sempre auspicabile che da tutti si lavori per l’unità del sapere, per l’unità della comprensione dei contributi delle varie discipline e delle loro relazioni reciproche. Altrimenti, cioè settorializzare assolutizzando, si darebbe ragione a un illustre pensatore contemporaneo: «II generalista superficiale è il prodotto di un’educazione incompleta tanto quanto lo specialista dalle vedute ristrette» (10).
Dicevamo della deformazione che subisce la scienza quando, da strumento conoscitivo qual è, la si eleva a fine della vita umana. Un eminente storico, già negli anni Trenta del secolo scorso, parlava in questo caso di profanazione della scienza. Non aveva ancora conosciuto gli orrori del Terzo Reich, dai quali sarebbe poi stato personalmente travolto, ma aveva capito in anticipo l’apporto che una scienza moralmente disimpegnata avrebbe dato a quel regime criminale. Non era un pacifista radicale e neppure un par-tigiano del disarmo assoluto. Temeva però il giorno in cui il dominio dell’uomo sulla natura mediante la scienza si sarebbe trasformato in frustrazione della natura e nella sua potenziale distruzione.
Parlava sia dell’aborto sia dei mezzi di distruzione chimici e balistici usati nel combattimento aereo e sottomarino. «Il limite, oltre il quale quest’applicazione delle verità scientifiche diventa abuso, dipende dalla nostra concezione morale, ed essa a sua volta è fissata essenzialmente da un punto di vista religioso» (11).
Affermava così il primato dell’antropologia sulla scienza. E la sua mente lungimirante gli dettava una pagina che, dopo ottanta anni, o quasi, non è ancora passata di moda: «La formula “sapere è potere”, grido di gioia dell’età demoliberale, comincia ad acquistare un lugubre suono.
La scienza, ove non sia retta da un principio superiore, cede senza resistenza i suoi segreti alla tecnica smisuratamente cresciuta e animata da spirito commerciale; a sua volta la tecnica, meno ancora della scienza frenata da un superiore principio atto a promuovere la civiltà, coi mezzi che la scienza le offre, crea tutti gli strumenti che l’organismo inteso a potenza le richiede. Ogni nuova scoperta scientifica apre nuovi orizzonti; ma la società nella sua odierna struttura non può ancora accogliere tutto ciò che la tecnica può offrirle» (12). Huizinga scriveva negli stessi anni che videro la pubblicazione del romanzo di Huxley.
Anche alla scienza, alla sua necessità di essere retta da un principio superiore, possono riferirsi le riflessioni di Benedetto XVI contenute nel suo Discorso a Londra, nella Westminster Hall del Palazzo del Parlamento, lo scorso 17 settembre: «Se i princìpi morali che sostengono il processo democratico non si fondano su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza.
Qui si trova la reale sfida per la democrazia». Le soluzioni pragmatiche ai problemi etici e sociali, prive come sono di un solido fondamento etico, sono sempre inadeguate. Anche nel campo della scienza e delle sue applicazioni, la religione svolge un ruolo che il Papa definisce «correttivo», consistente nella sua innata capacità «di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi» (13).
Note
1) Cfr J. HABERMAS, Tra scienza e fede, Roma – Bari, Laterza, 2006, 19-50; S. MAFFETTONE, «Habermas tra fede e Lumi», in Il Sole – 24 Ore, 3 dicembre 2006, 35.
2) Cfr R. BODEI, «La libertà biotech», ivi, 17 ottobre 2004, 29; A. TORNIELLI, «”Dio si opporrà allo scempio della clonazione”», in il Giornale, 14 dicembre 2000, 15. © La Civiltà Cattolica 2010 IV 353-358 quaderno 3850 (20 novembre 2010)
3) Cfr P. BECCHI, «Nuove maschere del superuomo», in Oss. Rom., 30 maggio 2010,5.
4) Cfr P. SPRINGHETTI, «Cari scienziati, non siete guru», in Avvenire, 12 luglio 2007,29.
5) Cfr Oss. Rom., 28-29 gennaio 2008, 8; Avvenire, 17 ottobre 2008, 31.
6) Cfr F. FACCHINI, «La vera scienza non è mai astiosa», ivi, 8 novembre 2006, 28.
7) Cfr le pagine di cronaca abruzzese in Avvenire, 1 maggio 2005.
8) C. CARDIA, «La tristezza degli scientisti», ivi, 26 febbraio 2010, 28.
9) A. panebianco, «Neodogmatici. Quando gli scienziati non ammettono errori», in Corriere della Sera, 6 giugno 2010, 28.
10) A. MAClNTYRE, «Fede, ragione e scienza. La lezione di Newman», in Vita e Pensiero 93 (2010) 22. Cfr le equilibrate opinioni di uno scienziato che fu Premio Nobel per la Fisica nel 1932: W. HEISENBERG, Natura e fisica moderna, Milano, Garzanti, 1957, 43 s; 52.
11) J. HUIZINGA, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1978, 59.
12) Ivi, 58.
13) Cfr Oss. Rom., 19 settembre 2010, 4-5.