“Persona e Verità”

Per Rassegna Stampa 20 dicembre 2012
prosopon

Aldo Ciappi
(Scienza e Vita Pisa Livorno)

1. Origine della parola “persona”. Affermazione del suo significato col cristianesimo.

“Persona” è un vocabolo di origini piuttosto oscure; si ritiene per lo più che sia mutuato dal greco “prosopon” che indica, nella rappresentazione teatrale, la maschera indossata dagli attori per dar voce al o ai protagonisti della scena (personaggi).

Nelle discussioni filosofiche, esso perderà questa connotazione “teatrale”e verrà affiancato e poi sostituito dal termine “hipostasis” che in latino si traduce con “substantia

Una prima definizione di ”persona” come tratto distintivo che accomuna gli essere umani si ha già con i filosofi stoici (Panezio, 185-109 a.C.), ma è col cristianesimo che essa si afferma compiutamente sin dai primi scritti di S. Paolo, ripreso dalla Patristica Orientale, da S. Giustino (100-162 o 168), da Tertulliano (155-230), ecc..

E’ anche ricorrendo alla nozione di “persona” che, agganciandosi alla Tradizione Apostolica, il primo Concilio Ecumenico di Nicea (325), condannava come eresia l’arianesimo – che prendeva il nome dal monaco Ario (256-336), negatore della divinità di Cristo – giungendo a definire il mistero della SS. Trinità come unica Sostanza Divina che si manifesta in 3 Persone uguali e distinte, Padre, Figlio e Spirito Santo, inscindibilmente mosse da un’intima relazione di amore che dà l’essere ad ogni cosa.

Il tema sarà poi approfondito dai grandi dottori della Chiesa, in particolare da S. Agostino (354-430), nel De Trinitate, e da S. Tommaso d’Aquino (1225-1274), nella Summa Theologiae.

2. Il problema della conoscenza e della verità sull’uomo.

2.1 – L’uomo, creatura intelligente unità di corpo e anima.

Corrisponde all’evidenza che l’uomo è l’unico essere vivente razionale, intelligente e cosciente, in grado cioè di conoscere la realtà attorno a sé e dentro di sé, e di dirigere la propria azione (volontà) verso un fine che egli riconosce e assume come buono.

Si deve a Severino Boezio (480?-526) la prima compiuta definizione di “persona” come “naturae rationalis  individua sustantia” (sostanza individuale di natura razionale), ripresa poi e sviluppata da S. Tommaso per il quale l’essere umano è “unità sostanziale ed inscindibile dell’ io, costituito dal corpo e dall’anima” (intelletto, memoria e volontà).

Nella storia del pensiero filosofico spesso le dottrine hanno sottolineato il primo aspetto a discapito dell’altro o viceversa.

Ad esempio, in Platone (428/7-348/7) si afferma la natura immortale dell’anima in quanto spirituale ma il corpo è considerato più come un peso, un freno per l’uomo che anela al trascendente.

All’opposto, Aristotele sottolinea, sì, l’unità dell’uomo (in cui l’anima è “forma del corpo”) ma resta incerta la sua dottrina sull’immortalità dell’anima.

Invece, in S. Tommaso, che, peraltro, fa propria la suddetta definizione aristotelica, questa unitarietà tra corpo e spirito si mantiene.

Secondo il Doctor Angelicus la prima conoscenza che l’uomo sperimenta non è quella del suo essere bensì quella dell’esistenza di qualcosa fuori di sé (non “cogito ergo sum”, secondo la costruzione dualistica di Cartesio, bensì “scio aliquid esse”) che egli chiama “ente” .

Questa nozione di “ente” comprende la varietà dei corpi che si presentano continuamente alla nostra osservazione ed anche noi stessi, allo stesso tempo sentiti e pensati come esseri corporei.

Io che mi sento come corpo (quando ho caldo, freddo, sono malato, ecc.) ed io che penso su me stesso e di me stesso, sono un ente profondamente ed inscindibilmente unitario.

L’esperienza personale ci attesta la corrispondenza di tale definizione alla realtà unitaria dell’io e ci induce, pertanto, a riconoscerla come vera.

Il principio dell’attività intellettiva (che chiamiamo “anima”) “è la forma sostanziale dell’uomo in quanto essere corporeo”.

Se così è, come conferma l’esperienza che ciascuno fa dentro di sé, l’anima non è disunita al corpo, è atto stesso del corpo come l’albero non sarebbe albero se non avesse la forma sostanziale che lo fa essere tale (un ciliegio, un pero…).

Corollario di questa affermazione è l’ unicità dell’anima intellettiva in virtù della quale l’uomo vive, sente e conosce (funzione vegetativa, sensitiva ed intellettiva) allo stesso modo e nello stesso tempo.

L’anima intellettiva è anche l’unica forma dell’uomo; “ciò per cui il corpo umano è corpo, è quel corpo ed è la stessa anima intellettiva”.

Ma – ci si domanda – l’anima è immanente al corpo? Non è altro che l’ espressione del corpo? oppure sussiste per sé, trascende il corpo e, dunque, è spirituale (e quindi, immortale)?

2.2 – Processo conoscitivo del reale.

Per poter rispondere a tali domande S. Tommaso individua tre attività proprie dell’intelletto (o anima):

– la conoscenza per universali, del tutto svincolata dalle condizioni spazio-temporali del singolo oggetto da cui consegue la capacità contemplativa, astrattiva e creativa tipica dell’uomo e solo di esso. Questa è l’attività da cui discende l’indeterminatezza delle azioni umane, ovvero la capacità di dirigere liberamente le proprie azioni in più direzioni.

– l’autocoscienza, o riflessione: se il cervello fosse semplicemente l’organo corporeo che secerne il pensiero, l’ uomo, di cui il cervello è parte inscindibile, non potrebbe pensare se stesso; avrebbe bisogno di un altro organo che pensa di pensare col cervello.
Ma questo non corrisponde al vero, per cui l’anima intellettiva non può essere prodotta dal cervello.

Questa attività consente all’uomo di conoscersi, giudicarsi, dominarsi.

la capacità di conoscere tutti i corpi; tutto ciò che circonda l’uomo può essere da questi avvicinato e conosciuto sotto ogni aspetto; egli può pensare e rappresentarsi anche cose che non vede ma la cui presenza intuisce e deduce, o addirittura inventarsi cose che non esistono..

Tutto ciò induce a concludere che nell’uomo sussistono attività che non sono una mera produzione del suo corpo ma hanno una natura che lo trascende, e che, pur essendo in qualche misura dipendenti dal corpo, come nella conoscenza sensitiva, non si esauriscono in esso ma si servono di esso per arrivare alla conoscenza intellettiva, cioè all’astrazione e alla formazione di concetti.

L’anima, dunque, secondo S. Tommaso, ha natura spirituale, è “infusa” nel corpo con il quale forma un’unità ma da esso resta distinta; essa ha natura di “forma sussistente” e come tale “trascendente quel corpo che pure va a costituire” (cfr. Vanni Rovighi, Lezioni, III, ed. La Scuola, p. 179 e ss.).

2.3 – Verità: adeguamento dell’intelletto al reale

Dalla constatazione che la propria razionalità consente all’uomo la conoscenza delle cose, l’astrazione dal particolare al generale e la riflessione per concetti universali, possiamo giungere all’affermazione che esiste una “verità (intesa come intelligibilità) intrinseca alle cose come il loro stesso essere”, le quali cose sono, per loro natura,  “ordinate all’intelletto conoscente”.

Vi è una “reciproca relazionalità di essere e intelletto finito” che esiste “già prima di ogni attuale realizzazione conoscitiva” (Joseph Pieper; Verità delle cose, ed. Massimo, pp. 84-85).

La verità è pertanto una “proprietà trascendentale delle cose”, cioè una “proprietà estesa a tutte le specificazioni e articolazioni dell’esistente” (J. Pieper, op. cit. p. 101).

L’anima spirituale dell’uomo, che gli imprime la forma del proprio essere corporeo, è quella realtà “senza la quale non si potrebbe parlare della verità come di una proprietà che compete a tutte le cose esistenti” (op. cit. pp. 102-103).

“La concordanza dell’ente con l’intelletto conoscente (o anima) è espressa con il concetto di “vero” (op. cit., p. 102)

E’ nota la definizione di S. Tommaso: “veritas est adaequatio intellectus ad rem”, l’intelletto riconosce la cosa così come essa è e vi si conforma, non la crea.

Ma l’anima intelligente dell’uomo non si ferma qui.

2.4 – Procedimento “deduttivo” e “induttivo”. Le “evidenze”

Dalle verità immediatamente evidenti si passa a quelle che per rendersi evidenti debbono resistere al procedimento della deduzione logica (o “sillogismo).

Per esempio: due cose uguali ad una terza sono uguali tra loro. Se sono evidenti (vere) le premesse (una almeno delle quali deve essere universale e necessaria; cd. “assioma”), lo sarà anche la conclusione.

Ma l’uomo più spesso giunge alla conoscenza del reale con il procedimento opposto dell’ “induzione attraverso il quale l’intelletto ”coglie le essenze delle cose nei loro aspetti più universali di essere… e su queste, con successive analisi, astrazioni formali e deduzioni, costruisce la filosofia” (Vanni-Rovighi, op. cit. I, p. 183).

Sillogismo: a = b;  b = c;  a e b sono uguali

Induzione: a, b, c, sono uguali perché tutte hanno una certa caratteristica H (es. sono animali)

a , b, c,  sono anche M (quadrupede)
ogni M (quadrupede) è H (animale)

Tuttavia, per molti dei nostri più comuni ragionamenti si perviene ad un grado più o meno elevato di evidenza o certezza (mai deterministica, come nelle scienze esatte, essendovi qui implicata l’azione sempre libera dell’uomo) con il metodo dell’ “induzione”:

– su affermazioni la cui premessa è data da consuetudini e costumi umani (“evidenza morale”); le mamme, di regola, non maltrattano i bambini, quindi siamo ragionevolmente certi che quella mamma avrà cura di suo figlio);

– su fatti accaduti in passato facilmente conoscibili o attestati da testimoni che non hanno alcun interesse a mentire rispetto ad essi  (“evidenza storica”),

– oppure (“evidenza estrinseca”, o “fede”), per l’autorevolezza e credibilità di colui che fa l’affermazione della quale però non si ha percezione, né immediata, nè mediata, circa il nesso tra soggetto e predicato (per esempio ciò che riferisce il maestro al discepolo su una certa materia) e rispetto al quale l’assenso è libero e determinato dalla volontà.

Infine, vi è il procedimento conoscitivo basato sul ragionamento per analogia o probabilità.

2.5 – Il percorso filosofico “moderno”

Il processo conoscitivo sopra descritto è negato dai nominalisti (già presenti nelle dispute medievali con Guglielmo da Ockam) tra i quali  si possono comprendere Thomas Hobbes, David Hume, ecc, e dagli empiristi, come John Locke, John Stuart Mills, e altri, secondo i quali sarebbe impossibile astrarre intuitivamente dal reale particolare un giudizio di natura universale. Per essi, per esempio, non si potrebbe mai giungere ad affermare che tutti gli uomini sono mortali (op. cit. p. 179-181).

Ma questo che essi pretendono di negare è il metodo su cui si fondano tutte le scienze: infatti, per la matematica e la fisica si parla di scienze “analitico-deduttive”; per le altre si parla di scienze “sperimentali-induttive” (op. cit. p. 182).

Questa profonda relazionalità tra reale e razionale (“adequatio rei et intellectus”) e la conseguente unitarietà del processo conoscitivo che, partendo dalla realtà cosi come essa si presenta, si compie nella comprensione di essa da parte del soggetto pensante (che la assume quale “verità” sull’oggetto), viene posta in discussione anche dal razionalismo di Cartesio (Renè Descartes, 1596-1650) per poi, attraverso varie tappe intermedie, arrivare al soggettivismo di Kant (Immanuel, 1724-1804) dove l’io è fondamento della realtà fenomenica.

Per entrambe queste correnti filosofiche esisterebbe un dualismo, uno scarto irriducibile tra realtà dei corpi e pensiero.

Quest’ultimo, dal quale tutto muove e al quale tutto ritorna, finirebbe con il rendere subalterna ad esso la prima per poi staccarsene del tutto, divenendo pienamente autoreferenziale e disperdendosi in molteplici correnti, tra cui quella nihilista (p. e. di Martin Heidegger, 1889-1976 e di Friedrich Nietsche, 1844-1900), che pongono tutto in discussione e negano la possibilità di pervenire a qualsiasi conoscenza del reale.

Vi è da dire, tuttavia, che verso la fine del secolo XIX° – periodo in cui si collocano i prodromi ed i successivi tragici epigoni delle guerre mondiali e del totalitarismo delle “idee assassine” (Robert Conquest), del secolo successivo – la filosofia tedesca, prima con Franz Brentano (1838-1917), poi con Edmund Husserl, suo allievo (1859-1938), vide la fioritura di un nuovo filone (la cd. “scuola fenomenologica”) ispiratosi alla “philosofia perennis” dei grandi maestri classici, in opposizione al dilagare delle correnti del positivismo e dell’idealismo con le loro negative ripercussioni sugli ordinamenti politici.

Questa scuola considerava la filosofia come “scienza rigorosa” incentrata sull’essere come oggetto di conoscenza razionale.

A questo movimento filosofico se ne affiancò un altro detto denominato “personalismo”, cui approdarono Max Scheler (1874-1928), Emmanuel Mounier (1905-1950), e poi Romano Guardini (1885-1968), Luigi Pareyson, 1919-1991) e altri.

Un frutto splendido che da queste due correnti prese le mosse lo si trova in Edith Stein (S. Benedetta della Croce, 1891-1942), filosofa ebrea allieva di Husserl, poi convertitasi al cattolicesimo, si fece carmelitana finendo uccisa dai nazisti ad Auschwitz. Nel 1999 è stata proclamata santa e co-patrona dell’Europa da Giovanni Paolo II.

Secondo questa grande testimone, il compito più nobile della filosofia cristiana, fondata sulla ragione naturale, “è preparare il cammino alla fede”, dall’ “io” personale del soggetto razionalmente pensante finito all’ “Io sono”, ossia “all’Essere che è l’ autore e l’ immagine di tutto l’essere finito”, il quale “si è rivelato a noi come l’Essere in persona, anzi come l’essere in 3 persone” (Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, ed. Messaggero, Padova, pp. 104, 120; sul tema si rimanda alla lett. Enciclica Fides et Ratio, di Giovanni Paolo II°, Lib. Ed. Vaticana, 1998; Karol Woitila, Persona e atto, ed. Bompiani, 2001).

3. Definizione dell’uomo-persona: unicità ed irripetibilità sin dal concepimento.

3.1 – L’inizio della vita di ogni essere umano

Sulla base di quanto si è venuto dicendo – riconoscendo che l’anima è forma sostanziale dell’uomo e che essa ha una natura spirituale non immanente al corpo al quale è, tuttavia, intimamente unita – si può comprendere che il problema del quando l’anima è infusa nel corpo di ogni essere umano finisce per essere più di natura scientifica che filosofica.

La risposta a tale quesito, come si può intuire, è cruciale, per esempio, al fine di individuare uno statuto giuridico dell’embrione o del feto, cioè dell’uomo nella fase della vita intrauterina.

I filosofi medievali, S. Tommaso in testa, sulla base delle scarsissime conoscenze biologiche dell’epoca, per lo più ritenevano che l’anima assumesse, nello sviluppo embrionale, prima la forma vegetativa, poi quella animale ed infine quella razionale.

Vi è da dire, peraltro, che già molti secoli prima Tertulliano aveva affermato che “è già uomo colui che lo sarà”.

E’ fuori dubbio che, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, secondo le quali l’unione dei due gameti, maschile e femminile, si forma un nuovo individuo della specie umana, geneticamente altro rispetto ai genitori ed irripetibile, S. Tommaso, in perfetta coerenza con l’ intuizione, già presente in Aristotele, dell’ essere come unità ontologica che si esprime attraverso il dinamismo potenza-atto, non avrebbe alcuna difficoltà ad affermare oggi che l’anima è infusa nel corpo sin dal momento del concepimento.

E’ da quel momento, infatti, che è fissato una volta per sempre il genoma del nuovo individuo, nel quale è iscritta la propria dentità biologica che lo accompagnerà per tutta l’esistenza (cfr. Il messaggio della vita, Jerome Lejeune, Cantagalli 2002, p. 41; Ramon Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, 2001, p. 79 e ss.).

L’irripetibilità genetica e l’identità immutabile di ogni essere umano è oggi una nozione acquisita della biologia la quale ci attesta che già nel nucleo dello zigote sono contenute tutte le informazioni “personali”, e che da quel momento abbia inizio la vita individuale di ciascun uomo (cfr. anche Angelo Serra, L’uomo-embrione, Cantagalli 2003).

Questa unicità ed unitarietà “personale” è il tratto universale che distingue un uomo da qualsiasi altro; appartiene ad esso in quanto individuo della specie umana, a prescindere dalla capacità attuale e dal grado di sviluppo con cui egli riesce a manifestarsi all’esterno.

Il suo silenzio, il suo nascondimento, la sua debolezza, non lo priva neanche un attimo della sua intrinseca natura.

3.2 – Onnicomprensività del concetto di “persona”

Alla luce di ciò, anche la più incompiuta, potenziale od ineespressa personalità individuale deve farsi rientrare nella definizione ontologica (cioè che si riferisce all’essere in quanto tale) di “uomo”.

La nozione di “individuo di natura umana” si identifica ontologicamente con il concetto indivisibile di “persona (cfr. R. Lucas Lucas, op. cit. p. 90 e ss.).

Non può essere, pertanto, legittimamente consentito di “graduare l’ umanità” individuando un quoziente, che potrebbe variare a seconda dei gusti, al di sotto del quale l’uomo scompare.

Non si può essere “pre-persona, post-persona, sub-persona”. Lo status di persona non può dipendere dalla constatazione delle varie manifestazioni della razionalità che accidentalmente potrebbero anche non esservi, in tutto o in parte (cfr. R. Lucas Lucas, op. cit. 103 e ss.).

Non esiste dunque neppure il “pre-embrione” (che secondo alcuni sarebbe lo stadio che va dal concepimento al 14° giorno di vita dell’embrione in cui si ha, in genere, la formazione della primitiva linea cellulare dell’organismo), definito dallo scienziato J. Lejeune un “inutile neologismo” escogitato per giustificare la sperimentazione e la manipolazione degli embrioni come fosse “materiale biologico”.

Infatti, nessuno all’infuori del diretto interessato, potrebbe mai sperimentare e quindi giudicare quanta e quale “umanità” vi sia nella, per quanto ridotta o precaria, condizione esistenziale di ogni essere umano attraverso le  molteplici fasi della sua vita.

Pertanto, tutti gli altri, indistintamente, fosse anche solo per quel principio di “precauzione” cui la condotta umana deve sempre ispirarsi (“alterum non laedere”), sono tenuti ad astenersi da qualunque atto lesivo di quella pur incipiente “umanità”.

3.3 – Crisi antropologica e bioetica dis-umana

A questa conclusione, che è il necessario corollario della premessa da cui siamo partiti (per la quale l’intelletto, guidato da retta ragione, è in grado di cogliere l’evidenza dell’essere e di astrarre regole generali) si contrappone l’attuale scenario di “profonda crisi della cultura che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi  del sapere e dell’etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell’uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri”, sino ad evidenziare “una vera e propria struttura di peccato caratterizzata dall’imporsi di una cultura … che si configura in molti casi come cultura di morte” (Giovanni Paolo II°, Evangelium vitae, Libr. Ed. Vatic. 1993, p. 19-20).

Questo grave disorientamento culturale è l’inevitabile portato di un lento ma coerente processo della filosofia cd. “moderna”: partendo dall’affermazione di un irriducibile dualismo tra la realtà delle cose e il pensiero, si è coerentemente pervenuti, soprattutto nella riflessione bioetica di area anglosassone, alle più spinte costruzioni relativiste circa il concetto di “persona”.

Tale connotato, infatti, sarebbe riferibile per alcuni al solo soggetto che abbia raggiunto l’ autocoscienza (Hugo Thristan Engelhardt), cioè un grado di sviluppo tale da poter percepire la realtà e di riflettere su di essa, negandola conseguentemente a coloro che non l’hanno ancora raggiunta, come l’ embrione, il feto, il neonato, o che l’hanno persa (persone in coma o dementi).

Altri (come Maurizio Mori), invece, riconoscono l’ essere umano come “persona” il solo soggetto capace di atti coscienti e liberi con i quali esso si pone in relazione con gli altri, oppure (come Peter Singer) qualunque essere animato, sia esso uomo, scimmia, cane o altro, che possa ritenersi, secondo il loro grado, genericamente “cosciente”, così negando il carattere di persona ai gravemente disabili o a chi vive in stato vegetativo.

E’ di immediata evidenza il formidabile e micidiale impatto di queste costruzioni filosofiche riguardo alla “persona”  che stanno sempre più prendendo piede nel contesto giuridico e politico dei paesi dell’antica civiltà occidentale, rimasti ormai senza alcun riferimento culturale.

Più in generale, nella formazione della mentalità comune si affermano sempre più espressioni quali: “vite non degne di essere vissute”; “vite vegetative”; “vite informi”, ecc., aprendo ad aberranti criteri di selezione tra esseri umani a seconda del modello prescelto e quindi all’ eugenetica in versione moderna.

Ne è riprova la sparizione o quasi delle persone affette da sindrone di Down, da anemia mediterranea, ecc., diagnosticabili con le moderne tecniche nel feto, che spingono nella stragrande maggioranza dei casi le madri (vittime della logica oggi dominante che pretende il bambino, come un qualsiasi prodotto di consumo, senza difetti) ad abortire.

4. Persona e Dirito

4.1 – Il diritto naturale “perenne”

Onde evitare questo vicolo cieco verso il quale ci stiamo rapidamente incamminando (per non dire che ci siamo già dentro), devono essere posti netti sbarramenti al tentativo in atto di frantumare anche dal punto di vista giuridico l’unitario concetto di persona relativizzandolo a seconda delle opinioni via via prevalenti.

Si deve, cioè, mantenere fermo il principio che vieta ogni possibile discriminazione tra soggetti appartenenti alla specie umana, qualunque sia la loro condizione di fatto: l’embrione, il neonato; il disabile, gli stati vegetativi; il demente, il malato terminale.

In tutti questi casi c’è intatta tutta l’essenza dell’uomo; c’è dunque la persona con i suoi diritti e con la sua dignità intangibili.

Tale principio non può che essere quello tratto dalla considerazione generale aderente alla logica delle cose ed alla retta ragione (o, se si preferisce, all’universale “senso di giustizia”) secondo cui ogni essere umano, in quanto tale ed in qualsiasi situazione contingente o fase di sviluppo egli si trovi, è persona perché è nella propria ontologica natura che trae il proprio status giuridico.

L’essere persona è un tratto distintivo perdurante intrinseco a ciascun uomo e, dunque, non necessita di alcun ulteriore attributo o riconoscimento dall’esterno per ricevere la tutela giuridica riservata ad essa.

A questo concetto, universalmente accettabile senza dover compiere alcun atto di fede, di persona, coincidente con quello di essere umano, l’intero consesso civile e le sue istituzioni politiche, a qualsiasi latitudine e in ogni tempo, si debbono necessariamente rapportare per poter effettivamente garantire il rispetto della dignità inviolabile dell’uomo, troppo spesso declamata a vuoto nelle convenzioni internazionali.

A tal fine, le istituzioni civili dovrebbero limitandosi a prendere atto, sic et simpliciter, dell’ appartenenza al genere umano di questi, prescindendo dalle circostanze accidentali, originarie o sopravvenute, concernenti la sua condizione psico-fisica, allorchè queste gli impediscano di esplicare verso il mondo esterno, in tutto o in parte, in via transitoria o permanente, le facoltà sue proprie.

L’unitarietà della persona in senso biologico-filosofico implica ed impone il riconoscimento di uno status, ossia un fascio di attribuzioni di diritti e di doveri, che rifletta questa verità anche sul piano degli ordinamenti giuridici.

Questo status è insito nella verità ontologica sull’uomo e preesiste alla sua trascrizione in norme di diritto positivo; è un principio che è iscritto nella mente e nel cuore di ogni uomo che ragioni secondo onestà e giustizia ed è espressione di quel diritto naturale classico che può essere definito come “la conseguenza della dottrina antropologica che afferma il primato dell’intelligenza sulla volontà, la possibilità di conoscere l’essenza delle cose ed il loro ordine conforme all’essenza, il mondo metafisico dell’essere e della gerarchia dei valori” (Heinrich Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale, Studium 1965, pag. 33).

4.2 – Il diritto naturale, metro di giudizio della legge.

Il diritto naturale, dunque, altro non è che la proiezione sul piano giuridico, ossia della regolamentazione dei rapporti nella comunità civile, di quella capacità di comprensione razionale del reale che consente di individuare le regole conformi al sentimento di giustizia che è tradotto nella massima latina “uniquique suum tribuere” (Ulpiano).

Solo l’adesione ad una concezione universale sull’uomo che riconosca la sua intrinseca dignità di essere razionale, senza indulgere ad alcuna contestualizzazione, può garantire la protezione effettiva dei diritti umani, tra cui quello primario alla vita, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi condizioni psico-fisiche e sotto qualsiasi cultura ci si trovi.

Il diritto naturale, così inteso,  deve tornare ad essere il faro che guida gli ordinamenti giuridici internazionali e nazionali dovendosi tenere presenti le recenti tragiche esperienze storiche, quando l’umanità si è lasciata sedurre dalle ideologie che non riconoscono alcuna verità oggettiva, negano il concetto di bene e male, perdendo ogni legame con la realtà dell’essere e del dover essere.

Il positivismo giuridico (ossia quel filone di pensiero che ritiene la legge formulata secondo procedure di formazione formalmente corrette, l’unica fonte del diritto) ha permesso la realizzazione di campi di sterminio, gulag e in genere ogni efferatezza contro l’uomo “in nome della legge”.

Le leggi positive (scritte) sono solo uno strumento e “non devono essere confuse con l’ordine stesso che è l’oggetto della giustizia generale” (Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, ed. Cantagalli, 2009, p. 59).

Per non cadere nella relativizzazione del concetto di “persona”, che porterebbe ad escludere ora l’una, ora l’altra categoria di soggetti “incompleti”, “inadatti”, “incapaci” ecc., è giocoforza adottare la sua nozione “ontologica” facendola coincidere con la definizione di essere umano sic et simpliciter,  titolare in ogni momento di diritti intangibili e di dignità “personale”, che la società deve riconoscere e difendere da attacchi sempre più diretti da parte di una cultura che dà valore soltanto all’efficienza, all’utilità e che finisce per ridurre l’uomo a mezzo e non a fine.

5. La penetrazione della nozione relativistica della persona nelle leggi

5.1 – La legalizzazione dell’omicidio-aborto

La posizione filosofica che subordina la tutela dei suoi diritti alla sussistenza di certe condizioni (si pensi a quei filoni di pensiero che fanno capo ai citati Henghelardt, Singer, Mori ecc.) è penetrata in profondità nel tessuto sociale, nei gangli delle istituzioni e nell’ordinamento giuridico ormai da tempo.

Una svolta che ha inferto una ferita mortale all’ordinamento giuridico del nostro paese risale addirittura al 1975, con la sentenza n. 27 del 18 febbraio, quando la Corte Costituzionale, presieduta dal Prof. Francesco Paolo Bonifacio (la cui firma la troviamo anche in calce alla l. 194/1978 sull’ aborto come Ministro democristiano della Giustizia, insieme a quella di Andreotti, Presidente del Consiglio, e di Leone Presidente della Repubblica), chiamata a pronunciarsi sull’art. 546 del codice penale nella parte in cui puniva chi cagionava l’aborto di donna consenziente anche qualora fosse stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l’equilibrio psichico della gestante, senza che ricorressero gli estremi dello stato di necessità di cui all’art. 54 del codice penale.

La Corte dichiarò illegittima quella norma sul presupposto che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.

Questo passaggio cruciale della sentenza fece da apripista alla successiva legislazione abortista che in 34 anni di applicazione ha fatto fuori oltre 5 milioni di bambini.

Si legittimò in questo modo – dando prevalenza alla “salute psico-fisica” (concetto spesso evanescente, soprattutto nel primo termine) della madre rispetto alla vita stessa del figlio, nel caso di un pericolo, anche solo temuto, di suo pregiudizio derivante dalla gravidanza – la pratica dell’ omicidio-aborto.

Non è che non vede in quel passaggio l’accoglimento di una definizione in senso utilitaristico-efficientista dell’essere umano che apre le porte a qualsiasi altra discriminazione basata su condizioni di diversità o inferiorità rispetto ad un modello ritenuto standard.

5.2 – …Verso il suicidio “assistito” e l’eutanasia.

Un altro ulteriore snodo di questo processo di relativizzazione della persona è in corso ai nostri giorni col tentativo di introdurre norme che legittimano l’omicidio di persona consenziente (oggi punito dall’art. 579 c.p.), o suicidio “assistito”, rivendicando il principio dell’autonomia incondizionata di ogni individuo ed il diritto di disporre della propria vita come di un qualsiasi bene materiale che gli appartenga.

Anche il dibattito in atto circa una (presunta) necessità di una legge per regolare anticipatamente il trattamento sanitario da applicarsi su un soggetto in caso di perdita futura della capacità di intendere e volere, scoppiato dopo la vicenda di Eluana Englaro, si inserisce a pieno titolo nel contesto di questo scontro culturale tra due opposte inconciliabili concezioni.

Da un lato, il principio di autonomia – ossia il «diritto» del singolo di disporre di sé e della propria vita in modo assoluto, con il solo limite del danno agli altri – è diventato il principio etico dominante, impedendo un approccio equilibrato alle varie problematiche poste dalla malattia, soprattutto di quella pervenuta allo stadio terminale.

Dall’altro, il principio di indisponibilità che regge tutto l’impianto normativo classico del nostro ordinamento e che trova il suo fulcro nell’art. 5 c.c. per il quale è vietato, perchè contrario a norme imperative di legge, ogni atto di disposizione del proprio corpo che comporti una riduzione permamente della sua integrità.

Questo principio non è soltanto il corollario di una visione religiosa sulla vita ma è anche il fondamento indispensabile di una convivenza civile (cfr. Mauro Ronco, Indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penalistica della vita, in Cristianità, maggio-agosto 2007, nn. 341-342, p. 11 e ss. ).

L’imperativo non uccidere in tanto ha un’efficacia razionalmente cogente in quanto ha valore universale e quindi anche nei confronti di se stessi; nel caso opposto la forza del divieto è relegata “…solo nel timore della sanzione statuita dalla legge positiva” (Ronco, op. cit.).

Riconoscere come «diritto» la richiesta di essere uccisi significherebbe considerare «convenzionabile» e «negoziabile» il diritto alla vita.

La base del diritto “non starebbe nell’autorità granitica del giudizio pronunciato dalla ragione, comune a tutti gli uomini, bensì nel mutevole contenuto della legge dello Stato, dipendente dal compromesso fra volontà indipendenti le une dalle altre”. (Ronco, op. cit.)

Le esperienze giuridiche di alcuni paese come l’Olanda, il Belgio, la Spagna, il Regno Unito, si stanno dirigendo sempre più decisamente verso questa deriva: è recente la notizia dell’allestimento in Olanda di un servizio a domicilio per “aiutare” persone anziane o malate a darsi la morte che ne facciano richiesta (cfr. Corriere della Sera 01.03.2012).

6. Conclusioni.

Questo processo che si è cercato sinteticamente di illustrare non è altro che il frutto avanzato e di una società culturalmente malata ed egocentrica che, perso ogni legame con la realtà, e quindi con il suo Creatore, inseguiti vanamente i sogni di una felicità immanente, ha perso ogni speranza nel futuro, e anela addirittura alla morte.

Una società così non ha più niente da dire e il drammatico crollo demografico dell’occidente ne è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno.

E’ urgente invertire la rotta tornando ai sicuri sentieri tracciati da grandi pensatori e da grandi santi; urge, per dirla con Giovanni Paolo II° , “coltivare in noi e negli altri uno sguardo contemplativo”.

Quello sguardo di chi “non pretende di impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la Sua immagine vivente”  (Lett. Enc. Evangelium Vitae, cit. p. 119).

Riferimenti bibliografici:

Sofia Vanni Rovighi, Elementi di Filosofia, I,II,III°, ed. La Scuola.
Joseph Pieper; Verità delle cose, ed. Massimo
Edith Stein, Vie della conoscenza di Dio, ed. Messaggero, Padova
Francesco D’Agostino, Bioetica e Biopolitica. Ventuno voci fondamentali, ed. Giappichelli
Karol Wojtyla, Persona e atto, Ed. Bompiani, 2001
Giovanni Paolo II, Lett. Enciclica Evangelium Vitae Libr. Ed. Vat. 1993
Giovanni Paolo II, Lett. Enciclica Fides et Ratio Libr. Ed. Vat. 1998
Jerome Lejeune, Il messaggio della Vita, Cantagalli, 2002
Ramon Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, 2001
Heinrich Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale, Studium 1965,
Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, ed. Cantagalli, 2009