La Nuova Bussola quotidiana
9 Novembre 2017
di Stefano Magni
Russia. Le celebrazioni del 7 novembre sono state in sordina e non ufficiali. Non è stato riconosciuto il giorno di festa nazionale, come era ai tempi dell’Urss. Le alte cariche dello Stato, Putin e Medvedev, non erano presenti. Sembrano molto lontani i tempi delle grandi parate sulla Piazza Rossa, che sfilavano sotto gli occhi di tutti i massimi vertici dello Stato sovietico.
In compenso le autorità, il presidente Putin e il patriarca Kirill, erano presenti il 30 ottobre, all’inaugurazione del memoriale delle vittime della repressione politica (sovietica). Siamo dunque di fronte a una Russia che ha definitivamente superato il suo passato e riconosciuto, una volta per tutte, che il regime sovietico fu una parentesi nera della sua storia? Non del tutto. Perché, comunque, il 9 maggio viene ancora celebrato come ai tempi dell’Urss, con la parata militare, le stelle rosse, le bandiere sovietiche e le falci e martello.
Come si spiegano queste evidenti contraddizioni? Lo abbiamo chiesto a una delle massime esperte di Russia, Marta Dell’Asta. Ha vissuto a lungo a Mosca ed è una delle autrici della mostra “Russia 1917, il sogno infranto di un mondo mai visto”, esposta allo scorso Meeting di Rimini. Marta Dall’Asta è membro dello staff della Fondazione Russia Cristiana, nata nel 1957, per volontà di padre Romano Scalfi, per gettare un ponte verso una Chiesa ortodossa che allora era ancora perseguitata.
Marta Dell’Asta, come mai tanta differenza, nello stesso paese, fra le due celebrazioni del 9 maggio e del 30 ottobre?
Pur con tutta la decadenza che aveva mostrato il marxismo negli ultimi decenni di regime sovietico, comunque l’ideologia continuava, almeno formalmente, ad avere un grande ruolo. Forniva un insieme di principi che erano indicati come scopo della società e della vita personale. La caduta del regime, la scomparsa del marxismo, hanno lasciato un grande vuoto, che, per i nuovi governi, era necessario colmare. Era necessario, per dare una prospettiva, un motivo di coesione per tutta la nazione.
Quel che si osserva oggi è che l’ideale che fa da minimo comun denominatore nella società russa è il sentimento nazionale. Questo ideale è sostenuto dal governo e ne fanno parte tutti gli aspetti che appartengono alla storia della Russia. Vi rientrano anche esperienze contradditorie. Per esempio, di recente in un sondaggio, ai cittadini è stata chiesta un’opinione sui personaggi della storia russa, è risultato che Nicola II è giudicato positivamente dal 53% dei rispondenti, mentre Lenin dal 52%.
Eppure noi sappiamo dalla storia che i due personaggi erano agli antipodi, e che fu Lenin a far uccidere Nicola II. Nel sentimento nazionale di oggi tutto si riassorbe. Questo indica una scarsa conoscenza della storia da parte del russo medio, ma è questa visione del passato ad essere promossa dalla retorica ufficiale. E’ per questo che la grande vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, sentita molto fortemente dalla popolazione come un merito di fronte al mondo (l’aver sconfitto il nazismo), viene ricordata accanto alla memoria, più di nicchia, delle vittime del totalitarismo.
Non hanno lo stesso peso sulla bilancia, le manifestazioni della vittoria sono molto più sostenute dalle autorità, a tutti i livelli, ma la richiesta di celebrare la memoria del totalitarismo, da parte della società civile, è stata talmente forte che il governo non si è tirato indietro.
Fra trionfo (9 maggio) e tragedia (30 ottobre) del regime sovietico, come viene ricordato il 7 novembre, atto di nascita dello Stato socialista?
Poco o niente. Da quanto ho recepito, parlando con molti amici russi, la rivoluzione è stata una grande presenza nella vita di tutti, ma una presenza ormai solo implicita, non più manifestata, praticamente inconscia. La maggioranza non ha neppure un’opinione in merito: sa che c’è stata, ma non interessa. E nessuno, né la Tv, né il dibattito colto, spinge a esprimere un giudizio. Un dato interessante, emerso in un sondaggio, è che solo il 34% dei rispondenti afferma di aver sentito parlare della Rivoluzione d’ottobre in famiglia. Mentre il 60% non ha mai avuto occasione di parlarne in casa.
Ha fatto scalpore la proiezione di un film (Mathilda) su una presunta relazione fra lo zar e una ballerina. Nostalgia dello zarismo? Quanto è forte?
Io penso (ma è una mia opinione personale) che ci si sia accapigliati su questo film perché non c’era molto altro su cui accapigliarsi. Se fosse stata posta una domanda radicale, se cioè la rivoluzione sia stata un bene o un male, ci sarebbe stato motivo di scontro. Siccome nulla è stato impostato in questo modo e non c’era altro all’orizzonte, il malcapitato film (che è solo una love story in costume) è stato preso a pretesto per attirare l’attenzione e tralasciare dibattiti più di sostanza.
Quel che è stato notato da alcuni commentatori è che è ben triste che la cultura russa odierna non abbia niente altro da dire su un evento così epocale. Certi ambienti ortodossi si sono irrigiditi riguardo al film Mathilda (Nicola II è santo martire per la Chiesa ortodossa russa, ndr), perché sono attaccati all’idea che la fede debba essere difesa, anche con la forza, dall’irriverenza e dalle offese del mondo laico. E’ una posizione difensiva, che non è certo segno di grande sicurezza di sé. E si fa scudo di una legge, promulgata alcuni anni fa, che rende reato l’offesa dei “sentimenti” dei credenti. Una definizione alquanto vaga, in cui può essere fatto rientrare un po’ tutto.
Il patriarca di Mosca, Kirill, ritiene che la rivoluzione bolscevica sia nata da un tradimento dell’intelligencija, che si era venduta alle ideologie dell’Occidente, fra cui il marxismo…
Quel che ha detto il patriarca non è una novità. Già prima della rivoluzione del 1917, un gruppo di pensatori russi, ex marxisti, come Berdjaev, Frank e Struve, aveva indicato nel tradimento dell’intelligencija una delle ragioni prime della grave crisi russa. Questi intellettuali avevano detto anche qualcosa di più: la Russia stava compiendo, come la cultura occidentale, un percorso comune di allontanamento da Dio, imboccato a partire dall’Illuminismo in poi. Era il tentativo di staccare l’uomo da Dio e di costruire autonomamente il suo mondo.
Tuttavia, quel che facevano notare gli autori russi, era che dell’albero pluriramificato della cultura occidentale, l’intelligencija russa stava cogliendo solo i frutti più velenosi. Semën Ljudvigovic Frank constatò che l’Occidente, pur avendo scelto la strada del distacco da Dio, aveva sviluppato, proprio in forza del suo umanesimo, degli anticorpi capaci di immunizzarlo, almeno per qualche tempo, da questi frutti velenosi: la valorizzazione della persona, della sua creatività e della sua iniziativa. Mentre la cultura ortodossa orientale, queste capacità non le aveva sviluppate. E’ stata dunque più fragile di fronte all’assunzione dei veleni che hanno condotto al 1917.
E quali sono, in dettaglio, i frutti avvelenati che l’intelligencija russa ha mangiato?
Il laicismo, l’umanesimo immanente, il marxismo. E, va detto, sono stati i russi per primi a individuare in Marx una radice religiosa. La sua non era solo una teoria “scientifica” dello sviluppo storico, ma aveva al suo cuore un ateismo che mirava a staccare l’uomo dalle sue radici trascendenti. La radice comune che queste idee condividevano era il nichilismo, quello stesso nichilismo che vediamo anche nell’Occidente di oggi. Per questo a ragione Frank sosteneva, all’indomani del 1917, che “noi russi siamo diventati degli esperti, chiamati a diagnosticare i mali dell’Europa”.
La rivoluzione d’ottobre non riguarda solo la Russia. Cosa ha lasciato nella società occidentale che non ha mai conosciuto il socialismo reale?
Resta, non il contenuto del marxismo, ma una forma mentis: quella ideologica. Questa forma mentis ha poi conosciuto tante manifestazioni diverse, nei vari periodi e paesi. È la posizione secondo cui il pensiero umano crea un’idea in base alla quale manipolare la realtà, per ricrearla, riformularla.
Questa posizione è stata introdotta storicamente per la prima volta da Lenin, marxista ortodosso, ma è stata assimilata da molti, anche non comunisti. Oggi sembra quasi il minimo comun denominatore del pensiero occidentale: la convinzione che si possa progettare, manipolare, pianificare, piegare la realtà all’affermazione nata dal pensiero. E questo processo risulta inesorabilmente violento. E’ questa la principale eredità del 1917.