di Carlo Bellieni
Ci hanno insegnato che dire DNA è dire determinismo; ma la scienza ci mostra invece l’esatto opposto. Partiamo da una ricerca svizzera pubblicata in questi giorni: trattare male i bambini altera l’espressione del loro DNA con il serio rischio che queste alterazioni diventino ereditabili. Questo inquietante scenario riguarda non solo i maltrattamenti, ma anche gli insulti ambientali e fisici e ci apre ad una realtà imprevedibile solo vent’anni fa: il DNA “riceve ordini” dall’ambiente e potrebbe trasmetterli alle generazioni future! Il tutto regolato da una nuova branca della biologia: l’epigenetica.
Quello che siamo non è “già scritto”, e quello che è scritto, può essere letto dalla natura in vari modi. “Nella mente del pubblico, l’identificazione di geni responsabili di malattie era un passo sulla via di una medicina personalizzata. Sfortunatamente, si è mostrato essere un passo molto piccolo” spiega l’oncologo Nahid Turan sulla rivista Epigenetics.
Per un pediatra, l’epigenetica è l’uovo di Colombo: certi stimoli arrivati nel pancione o nei primi momenti della vita, “svegliano” o “addormentano” dei geni. Ad esempio, se ai feti arriva meno nutrimento, questo sveglierà dei geni che predispongono da adulti allo sviluppo dell’ipertensione o del diabete. Se invece il bambino ancora in fasce riceve meno coccole –come risulta da studi su animali- , la loro mancanza è in grado di addormentare dei geni che prevengono lo stress. E queste attivazioni di geni si trasmettano alle generazioni seguenti, tanto che se uno nasce dopo una carestia trasmette il ritardo di crescita alla nascita alle generazioni seguenti.
I ricercatori italiani proprio in questi giorni hanno pubblicato la loro importante scoperta in questo campo: una proteina, Zfp57, che insieme ad altri fattori garantisce la conservazione dei segnali epigenetici dall’embrione all’adulto: questo lasciar parlare o zittire alcuni geni avviene infatti attraverso certe molecole che solo ora iniziamo a conoscere.
Roba solo da scienziati? Mica tanto. Pensiamo ad esempio alla fecondazione in vitro: avviene in vitro e non nel pancione delle mamme, a contatto con le cellule della tuba uterina e con le proteine che queste cellule producono. Può questo ambiente attivare o disattivare dei geni in modo diverso da quanto farebbe l’utero materno? Essendo malattie rarissime, ancora non lo sappiamo; tuttavia leggiamo che disordini dell’imprinting, legati a modificazioni epigenetiche, “possono essere aumentati in seguito alla fertilizzazione in vitro” (Best Pratice and Research, luglio 2007)
Ma se l’ambiente influisce su come il DNA si esprime, e dato che quest’influenza si eredita, si capisce come si apra una prospettiva verso nuove frontiere evoluzionistiche: come diceva il chimico Enzo Tiezzi, l’evoluzione è stocastica, non casuale, cioè è armonica con l’ambiente da cui riceve e cui dà collaborazione. Le variazioni dell’ambiente non sono solo “selettive” di chi “non è adatto”, ma anche indirizzano il DNA ad esprimersi in armonia con le variazioni stesse, pur senza modificarne la struttura.
Eva Jablonka, genetista dell’università di Tel Aviv, nel suo libro “Evoluzione a quattro dimensioni” (UTET, 2009) sostiene, parlando dell’ereditarietà, che essa: “non ha a che vedere soltanto con i geni; alcune variazioni ereditarie non sono casuali in origine; certe informazioni acquisite vengono ereditate”. E aggiunge: “Simili affermazioni rischiano di suonare eretiche alle orecchie di chiunque abbia appreso sui banchi di scuola la solita versione della teoria evoluzionista di Darwin secondo cui l’adattamento ha luogo attraverso la selezione casuale di variazioni genetiche casuali. Trovano tuttavia saldo fondamento nei nuovi dati”.
Ovviamente a chi vuole dimostrare che la vita a tutti i costi è casuale, questo non va giù; ma i dogmi scricchiolano: abbiamo iniziato il XXI secolo col mito del sequenziamento del DNA, e ora ci troviamo la porta spalancata su un mistero mille volte maggiore.