Prima di parlare di cittadinanza per gli stranieri bisogna chiedersi perché neanche in Egitto le musulmane si “velano” come in Italia
di Anna Mahjar-Barducci
Nel 2006 il film che riscosse più successo nei botteghini in Marocco fu Marock, basato su una storia d’amore fra una giovane musulmana, che sceglie di liberarsi dai dogmi religiosi, e un attraente ragazzo ebreo. Per l’islam, però, una donna musulmana non può sposarsi con un non-musulmano. E, se ciò accade, può essere marginalizzata dalla società e anche minacciata di morte.
Il corpo della donna, infatti, non è qualcosa di cui lei possa disporre a suo piacere, ma appartiene esclusivamente alla umma, la comunità islamica. Nel momento in cui una donna musulmana sceglie di sposarsi con un non-musulmano, è come se decidesse di abbandonare la sua comunità. Pertanto questo tipo di unione viene considerato dagli islamisti come un atto di apostasia da parte della musulmana.
Tuttavia il Marocco è oggi un paese che sta investendo tutte le sue energie per aprirsi piano piano all’Altro. Ci sono riviste come il magazine Tel Quel che promuovono campagne per la laicità, e si possono incontrare ragazze in jeans e capelli sciolti con il fidanzatino da McDonald’s o che studiano per entrare in politica. Quando però torno in Italia, questa apertura che esiste in Marocco non la ritrovo sempre all’interno delle comunità marocchine. Anzi, assisto paradossalmente a una loro radicalizzazione.
Accade infatti che l’immigrato, nonostante abbia raggiunto il suo scopo di trasferirsi in Europa, si metta a cercare la propria identità nel terrore di perdersi. È quel che è successo a mio zio che, andato via dal Marocco per trovare una vita migliore in Francia, si è sentito smarrito e inferiore, non essendo abituato a sentirsi una minoranza. Ha pertanto cercato di trovare un appiglio nel ritorno alla umma, o meglio al comunitarismo religioso.
Ciò però non ha aiutato la sua integrazione, anzi lo ha alienato ulteriormente dalla società francese, perché il comunitarismo – di cui gli islamisti in Europa fanno un uso politico – lo ha portato ad alimentare il concetto di “noi” (musulmani) e “loro” (non-musulmani). Questo “noi” lo ha fatto nuovamente sentire parte di una maggioranza e più sicuro di sé, ma lo ha al contempo radicalizzato, fino al punto di vietare alle figlie di avere un fidanzato non-musulmano e di chiedere alla moglie di vestirsi in un certo modo per differenziarsi dai non-musulmani. Proprio questo atteggiamento in casi estremi può portare anche all’uccisione della propria figlia – come è successo alla giovane Sanaa – nel caso “trasgredisca”, decidendo di uscire dalla “comunità”.
Donne senza diritto di dire io
Ed è proprio la donna, alla quale non viene concesso di essere un individuo, ad essere la prima vittima di questa mentalità. Perché nel mondo arabo, con le dovute eccezioni, è ancora radicata la concezione tribale del gruppo-comunità e dell’onore della donna, che appartiene all’uomo. Tant’è vero che in arabo la parola “onore” è la stessa che si usa per descrivere gli organi genitali femminili: ’ard. E nel dialetto marocchino il termine zufri, al maschile, significa individuo, mentre il suo femminile, zufria, sta ad indicare una donna facile, perché una donna che cerca la propria individualità non è da rispettare.
Il problema oggi in Italia è che questo retaggio culturale rischia di essere adottato anche da una parte dei figli degli immigrati, in cerca più di chiunque altro di una loro identità. Da un lato, i loro genitori sono marocchini, ma dall’altro sono cresciuti in Italia e parlano a mala pena la lingua dei loro padri. Spesso pertanto non sono sicuri di chi sono, e la perdita d’identità – parafrasando il noto scrittore marocchino Fouad Laroui – può portare alla follia.
Accade infatti che il più delle volte i figli di immigrati cerchino di essere “italiani”, ma non vengano aiutati a sentirsi tali. È capitato per esempio ad un quindicenne di origini marocchine nato a Roma che un insegnante di liceo gli abbia chiesto di scrivere per il giornalino della scuola un articolo su quel che accade in Palestina, con la motivazione «perché tu sei arabo», quando questo non aveva alcuna idea nemmeno di dove si trovasse il Medio Oriente.
E capita che la stessa politica, per scopi elettorali, non cerchi mai di cooptare il ragazzo che si presenta come laico e favorevole alle libertà individuali, ma piuttosto quello che dice di essere musulmano e di rappresentare un gruppo. Ciò ha creato dei modelli identitari confusi per i figli di immigrati, a cui viene offerta come unica scelta quella di essere sempre degli stranieri. Anche quando al Parlamento italiano sono stati eletti deputati nati in altri paesi, i media hanno continuato a chiamarli deputati marocchini o algerini, quando per essere eletti devono per forza essere italiani. Non esiste infatti una quota per stranieri.
Sono pertanto i teenager le persone che più corrono il rischio di cadere nella retorica degli islamisti, che li allontanano dai valori della Repubblica e offrono loro esattamente quello che cercano: un’identità forte e sicura, che non li fa sentire più soli, ma parte di una grande comunità.
A Milano si possono vedere diciottenni di origine maghrebina con l’accento del Nord Italia e che non parlano l’arabo, con barboni lunghi e con abiti che in Marocco nessun ragazzo indosserebbe. Ragazze che decidono di andare al mare in “burkini”, quando invece un hotel in Egitto ha cacciato dalla sua piscina una donna scandinava di fede musulmana che si era presentata con questa specie di tuta da sub.
Multiculturalismo e ghettizzazione
E ancora ragazze che improvvisamente mettono il velo, perché se è vero che questo indumento viene anche imposto, è altrettanto vero che in molte lo adottano liberamente per affermare una propria identità, e spesso – non sempre – diventa un simbolo politico dell’adesione all’islamismo. In Tunisia, per esempio, alcune ragazze universitarie contrarie al presidente Ben Alì indossano il velo per mostrare il loro appoggio ai movimenti islamisti, unici veri oppositori al regime. Questo fenomeno non è quindi da sottovalutare.
Quando pertanto leggo sulle pagine dei quotidiani italiani il dibattito sulla concessione della cittadinanza agli immigrati dopo cinque anni di residenza, rimango un po’ attonita. Infatti, dalle dichiarazioni di questi giorni sembra che dimezzare il tempo di attesa sia di per sé un elemento che faciliti automaticamente l’integrazione dell’immigrato. Ma forse altro non è che un escamotage per non trattare in maniera appropriata vere politiche di integrazione, che ancora mancano.
C’è invece la necessità, per esempio, di promuovere corsi di italiano e di alfabetizzazione gratuiti, di creare modelli e attività sociali per i figli di immigrati, di istituire centri di aiuto ed empowerment per le donne immigrate, di controllare le moschee, di formare imam che abbraccino scuole di pensiero moderno, eccetera (la lista è lunga e avrebbe bisogno di un altro articolo).
Senza l’adozione di politiche reali che permettano all’immigrato di fare propria l’identità italiana, tutto rimarrà uguale, che la cittadinanza venga data prima o dopo. Continueremo soltanto a vantarci inutilmente di vivere in un’Italia “multiculturale”, quando il multiculturalismo senza integrazione ha sempre creato soltanto ghettizzazione. E avremo altri padri come quello di Sanaa, che uccideranno le loro figlie, ma questa volta con la cittadinanza italiana.