I figli:la risorsa che manca all’Italia
di Marina Corradi
Nella congiuntura di crisi economica e arresto dei flussi migratori, la lieve crescita della natalità degli utimi anni si è arrestata; e nel 2011 sono stati 15 mila i nati in meno, rispetto al 2010. (Anche questo è un numero della crisi: quindicimila figli non nati. Figli magari desiderati, e negati; figli, forse, cancellati da madri che si sono dette: non ce la posso fare).
Ma il rapporto va oltre, e incrocia i dati disegnando un triste futuro. Nel 2030 ogni 100 persone che lavorano, ce ne saranno 63 inattive. Più avanti, andrà peggio. (In una situazione così quale welfare sarà realisticamente sostenibile, viene da chiedersi, quale assistenza sanitaria potrà essere garantita alla grande e crescente fascia di popolazione anziana?) I lettori di Avvenire queste cose le sanno da tempo.
L’allarme demografico è da anni denunciato dalla Chiesa italiana e da questo giornale. Tant’è che per molto tempo è apparso come una preoccupazione “cattolica – come a dire, in certo pensiero mediaticamente dominante, una questione di retroguardia, non allineata alla modernità. (E fino a non molti anni fa addirittura in Italia parlare di incrementare la natalità suonava male, risvegliava impresentabili echi di politiche demografiche del ventennio fascista. Assurdo, ma l’ideologia è dura a morire).
Ora che anche le Ong laiche convengono che il problema è serio, pare che quell’allarme fosse invece avanguardia. Amara soddisfazione, leggendo i grafici di quest’ultimo rapporto con le loro linee inesorabilmente calanti, malinconico ritratto di un tramonto collettivo.
Declino di natalità è declino di vita e di energie; ma anche di consumi, di lavoro, di ricchezza, di contributi che sostentino le pensioni dei vecchi. Uno «smottamento generazionale», dice il rapporto. E pare di vedere una società, la nostra, insediata su un terreno finora solido, e che invece, e neanche tanto lentamente, si sfalda.
Save the children nel rapporto immagina, a esorcizzare questo declino, un patto generazionale, e riforme del welfare, e un’Italia del 2030 piena di nidi e asili, e di scuole che «dovranno funzionare come orologi svizzeri». Se non lo dicesse una seria e stimata Ong, diremmo: fantascienza.
Perché, allo stato delle cose, non si vede in Italia una vera coscienza politica dell’emergenza demografica. Né pare di scorgere la questione tra i temi portanti della campagna elettorale. Quasi che i figli fossero in realtà una questione solo e strettamente individuale; e averne e averne nell’ambiente migliore possibile (una famiglia fondata sul matrimonio tra madre e padre, e tendenzialmente stabile) o non a-verne affatto, fosse cosa socialmente irrilevante. Come se invece che un Paese fossimo ormai solo tanti individui, casualmente affiancati; e solidarietà e futuro, vocaboli desueti.
O come se guadagnasse consenso anche da noi quel neo-pensiero che teorizza la bellezza e la libertà del non avere figli; e quell’interessata ma miope ottica di mercato che in Occidente da tempo vezzeggia i dink, ovvero double income no kids, le coppie con due stipendi e nessun figlio, eccellenti consumatori.
Senonché anche i dink invecchiano, e si comincia ad avvertire che quei consumi non potranno essere mantenuti giacché mancano i figli, per sostenerli. L’amara evidenza che è difficile pensare a una “crescita” continua e inarrestabile, se le culle e le scuole si svuotano. I bambini preziosi, fra pochi anni, «come il petrolio in esaurimento»?
Servisse, questa immagine dura e concreta, a muovere un ampio e condiviso pensiero politico. Potrebbe anche essere un modo per ricominciare. Per guardare in avanti e non solo all’attimo presente; per progettare un futuro più umano. E per sperare insieme, e desiderare di continuare una storia, la nostra. Compito che pure spetterebbe a una politica tesa al bene comune, e vera.