di Luciano Garibaldi
A fine ottobre 1980, più di otto anni dopo l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, mentre era in corso il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana, realizzai una lunga intervista con Gemma Calabresi, la vedova del commissario, di cui la «grande stampa» si era dimenticata, e la pubblicai sul numero 45 del 7 novembre di Gente, il settimanale allora in testa alle vendite e di cui ero il capo redattore. Il titolo, lanciato in copertina, era: Gemma Calabresi: “Due cose so”. Nel testo, questa frase di Gemma:
Le piste si intersecavano in maniera pazzesca. Mentre prima la matrice di un attentato si trovava subito, ora, mi diceva mio marito, «dobbiamo indagare nelle due direzioni, non possiamo escludere niente». Tutto era possibile, capisce? Non faceva che ripetermi: «Gemma, i manovali sono dell’ultrasinistra, ma dietro la scrivania c’è gente di estrema destra». Lui indagava su questo, e so che aveva messo assieme un dossier con documenti e fotografie.
A pagina 600 del libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana, da cui è stato tratto il film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, si legge: La moglie di Calabresi, intervistata da Oggi nel 1980, ricordava: «Mio marito, ancora il venerdì prima di morire, mi disse che aveva trovato le prove sul lavoro sotterraneo compiuto dai cervelli di estrema destra sulla manovalanza dell’ultrasinistra»
Per carità, nessun problema, nessuna richiesta di precisazione. Solo per aiutare a capire tante cose. La più importante: l’assassinio di Calabresi potrebbe aver fatto comodo ai servizi deviati, ma sicuramente, da un punto di vista sia storico sia giuridico è stato compiuto da Lotta continua; il memoriale di Leonardo Marino Così uccidemmo il commissario Calabresi, che descrive con precisione il momento dell’agguato e l’identikit dei mandanti, ne è la inconfutabile dimostrazione. E di tutto ciò il saggio di Cucchiarelli e il film che ne è seguito non fanno cenno.
Certo ci muoviamo in una pagina della storia d’Italia molto nebulosa e di difficile discernimento.
I fatti, prima di tutto. Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, quattro bombe ad alto potenziale vengono collocate in tre banche (due di Milano e una di Roma) e all’Altare della Patria a Roma. Gli ordigni, ad orologeria e nascosti in quattro borse, sono regolati in modo da esplodere attorno alle 16,30, cioé quando nelle banche (che chiudono alle 16) non dovrebbe esserci più nessuno.
Le due bombe di Roma esplodono senza fare danni alle persone. Una delle due bombe di Milano, quella collocata alla Banca Commerciale di piazza della Scala, fa cilecca. La quarta bomba, sistemata all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, esplode proprio mentre il grande salone dell’istituto di credito è gremito di agricoltori della Brianza che, in via eccezionale, si sono trattenuti oltre l’orario di chiusura per portare a termine, col consenso della direzione, le loro operazioni. È la strage: 17 morti e più di 80 feriti, tra cui molti mutilati e sfigurati.
Gli attentatori sapevano o non sapevano che gli sportelli sarebbero rimasti aperti oltre il normale orario? È la prima domanda destinata a restare priva di risposta. Se infatti lo sapevano, è chiaro il loro intento di fare una carneficina. Se invece non lo sapevano, vuol dire che si trattò, in un certo senso, di una «disgrazia». L’emozione pervade il Paese.
Da sinistra si leva un solo grido: «Sono i fascisti! Vogliono un golpe militare!». Da destra si risponde: «Sono gli anarchici! Vogliono trascinare il Paese nel caos!». Gli animi si dividono, lo scontro politico si radicalizza, polizia e magistratura lavorano in un clima esasperato, qualunque passo rischia di sollevare reazioni imprevedibili. Per una Procura (quella di Roma) che indirizza le sue indagini sulla «pista anarchica» e arresta il ballerino Pietro Valpreda, altre due Procure (quelle di Treviso e di Milano) aprono invece la «pista nera»: arrestano l’avvocato Franco Freda, l’editore Giovanni Ventura e mettono sotto inchiesta il giornalista Guido Giannettini, collaboratore dei servizi segreti.
Quando, a Roma, ha inizio il processo a Valpreda e compagni, la mobilitazione dell’intera sinistra (dal PSI per finire a Lotta Continua) contro i poliziotti e i magistrati che avevano imboccato la «pista anarchica» si rivela impressionante. Le principali città del Paese sono percorse da cortei studenteschi che gridano: «Polizia assassina! Valpreda innocente!». I deputati del PCI e del PSI (quest’ultimo con un piede nel governo e uno nell’opposizione) paralizzano il Parlamento: non c’è tempo per occuparsi d’altro che della strage e del processo di Roma.
E quando, il 23 febbraio 1972, hanno inizio le udienze, davanti alla Corte d’Assise di Roma, appare subito chiaro che non sarà possibile portarle avanti. La piazza è in mano alla sinistra, a Roma escono due quotidiani (quotidiani!) che hanno per testata: «La strage di Stato» e «Processo Valpreda», pieni di insulti contro le autorità dello Stato, a cominciare dal presidente della Repubblica Antonio Segni. Pochi mesi dopo il Parlamento approva la cosiddetta «legge Valpreda», fatta apposta per rimettere in libertà il ballerino anarchico, nel frattempo candidatosi alla Camera, ma trombato, nelle liste del Manifesto.
Il processo è sospeso e assegnato, dalla Cassazione, alla Corte d’Assise di Catanzaro, che due anni dopo, il 18 marzo 1974, dà inizio alle udienze. Ma contemporaneamente, con un tempismo perfetto, ha luogo, a Milano, il rinvio a giudizio, per lo stesso reato, di Freda e Ventura («pista nera»). Nell’aula di Catanzaro l’avvocato Odoardo Ascari, patrono delle vittime di piazza Fontana, si leva a parlare: «Siamo all’assurdo! Siamo al processo di Kafka! Chiedo la riunificazione dei due procedimenti!».
Istanza accolta dalla Cassazione. E così, il 27 gennaio 1975, dinnanzi alla stessa Corte d’Assise di Catanzaro, ha inizio (per la terza volta) il processo. Sul banco degli imputati, fianco a fianco, i «fascisti» e gli anarchici. Ma ben presto le udienze si bloccano. È infatti giunta a conclusione l’istruttoria contro Giannettini, l’uomo del Sid, rinviato a sua volta a giudizio per strage dal giudice istruttore di Catanzaro.
Il 18 gennaio 1977 il processo, con l’intero schieramento degli imputati alla sbarra, ha finalmente inizio (per la quarta volta). Esso dura due anni e si conclude con l’ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini e l’assoluzione per insufficienza di prove per gli anarchici. In appello, il 20 marzo 1981, assoluzione per insufficienza di prove per tutti. Partono le impugnazioni verso la Cassazione e viene fissato un nuovo processo davanti alla Corte d’Assise di Bari. La sentenza è del 1985: assoluzione per tutti per insufficienza di prove. Ma non è ancora finita. Nel 1987 s’apre a Catanzaro una nuova istruttoria contro il «neofascista» Stefano Delle Chiaie, arrestato nel frattempo in Venezuela. Anch’egli viene rinviato a giudizio per la strage. Sarà assolto con formula piena nel febbraio 1989.
Tutto concluso? Neanche per idea. Anzi, si ricomincia, con un’autentica girandola di magistrati spesso in conflitto tra loro. E soprattutto, tirando in ballo l’ombra di Federico Umberto D’Amato, direttore, per molti anni, dell’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno e poi, una volta in pensione, diventato un famoso e apprezzato gastronomo. Personaggio, D’Amato, che si presta quanto mai ai giochi dei più spericolati dietrologi (tra cui Adriano Sofri che, su Il Foglio del 26 maggio 2007, ha lasciato intendere di avere ricevuto la proposta, dai vertici degli Affari Riservati, di fare fuori, assieme, non si è capito esattamente chi, forse il commissario Calabresi).
E perché il personaggio D’Amato è diventato l’obiettivo delle più incredibili diffamazioni? Probabilmente perché, non sposato e senza figli, non ha lasciato eredi che possano porre un freno alle più scatenate fantasie diffamatorie, minacciando querele o richieste di risarcimento danni. Tutto quel che possedeva era nella sua casa di Roma; che, non appena egli spirò, il 1° luglio 1996 in una clinica della capitale, fu immediatamente messa a soqquadro per ordine di un magistrato «contento di essere arrivato uno».
Con la speranza di trovarvi chissà che cosa. E la convinzione che il povero dottor D’Amato, oltreché un disonesto servitore della Repubblica, fosse stato evidentemente anche un cretino che conservava in casa (per di più, lui malato, disabitata) segreti inconfessabili. Ma tant’è. I giri di valzer non finiscono mai in questa, come già più volte mi è venuto spontaneo definirla, «Caporetto della magistratura».
Sulla serie di sanguinari attentati che iniziò il 12 dicembre 1969 con la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano incombe infatti il fallimento totale della giustizia, incapace, in oltre 40 anni di processi, di aprire un sia pur minimo spiraglio sulla verità.
Ma vediamola, in sintesi, quella tragica serie. Tra la fine del ’69 e la metà del ’74, vi furono 4 mila attentati e sei stragi: il 12 dicembre 1969 piazza Fontana con 17 morti e 80 feriti; il 22 luglio 1970, bomba sulla «Freccia del Sud» a Gioia Tauro, con 6 morti e 30 feriti; il 31 maggio ’72, tre carabinieri massacrati a Peteano; il 17 maggio ’73, bomba alla questura di Milano, con 4 morti e 36 feriti; il 28 maggio ’74, bomba contro un corteo di sinistra in piazza della Loggia, a Brescia, con 9 morti e 88 feriti; il 4 agosto di quell’anno, massacro sul treno «Italicus»: 12 morti, 105 feriti. Poi, più niente: circostanza, quest’ultima, che parve rafforzare la tesi di quanti collegavano le stragi ai vari progetti golpisti iniziati nel 1970 con il principe Borghese e terminati, appunto, nel ’74.
Da allora ad oggi, i libri, le inchieste, le commissioni parlamentari d’inchiesta si sono moltiplicati senza raggiungere alcun risultato. Forse ci voleva un giovane, per aiutarci a capire. Mi riferisco a Massimiliano Griner, che ha da poco pubblicato il libro-inchiesta Piazza Fontana e il mito della strategia della tensione, edito da Lindau. Griner è del ’70. Era un bambino quando piazze e ferrovie d’Italia si riempivano di sangue. È dunque la persona più idonea per tentare di capire cosa è veramente successo.
Noi «vecchi» ci abbiamo provato, ma senza risultato. Io ho scritto tre libri, sull’argomento, due dei quali in collaborazione con due protagonisti-vittime di quelle violenze: il giudice Sossi e la vedova Calabresi. Poi ho scritto Le mie Brigate erano Rosse, anche ricordando che quello slogan forse mi aveva salvato da qualche pistolettata nella schiena, se pensiamo che le BR ce l’avevano soprattutto con i giornalisti che li definivano «le sedicenti BR» o «i cosiddetti brigatisti rossi». Per non parlare di Sandro Pertini, neopresidente della Repubblica, che sentenziò: «Le Brigate Rosse sono nere».
Col ruolo che ricopriva, forse avrebbe potuto non dire, ma fare qualcosa di più concreto, se il suo giudizio avesse avuto un sia pur minimo fondamento.
Tornando a Griner e al suo lavoro, debbo dire che si è documentato, ha esplorato archivi, ha parlato con i protagonisti dell’epoca, ha studiato gli atti processuali e parlamentari, fatto interviste, spulciato dossier e, soprattutto, si è posto domande e ha analizzato, senza pregiudizi, l’interpretazione classica, canonica. Quella secondo cui, in piena Guerra Fredda, c’è stato un tentativo di destabilizzare la situazione politica italiana, creando uno stato di tensione attraverso attentati per terrorizzare la popolazione, con l’obiettivo di instaurare un regime autoritario. E finendo per collocare questa ipotesi nel repertorio delle fantasie.
Gli lascio la parola: «All’inizio della mia ricerca, piazza Fontana e gli attentati successivi, indissolubilmente legati come anelli di una sola catena, sembravano le tappe di un disegno politico segreto, il cui fine era perpetuare il regime atlantista o avviarne la trasformazione in uno Stato autoritario. Alla fine del mio percorso di ricerca, ho smesso semplicemente di credere ad alcune cose che un tempo avevo dato per certe.
La strage di piazza Fontana non era stata voluta: la banca avrebbe dovuto essere chiusa al momento dell’esplosione. A danno degli anarchici non fu ordita alcuna macchinazione. In compenso, è stata ampiamente sottovalutata l’impreparazione della polizia dell’epoca di fronte a un fenomeno totalmente nuovo per il nostro Paese, come il terrorismo».
E ancora: «Il fine degli attentati del 12 dicembre non era spostare a destra il baricentro del Paese, né stabilizzare il regime democristiano, e meno che mai ostacolare le rivendicazioni operaie dell’autunno caldo. Non c’era poi alcun legame tra gli attentati e il golpe Borghese. Anzi, è estremamente plausibile, anche se forse non riusciremo mai a provarlo, che la strage ritardò di un anno il tentativo» (peraltro fallito perché da Washington venne imposto l’alt al Principe).
Per piazza Fontana, come abbiamo visto, sono stati celebrati diecine di processi, tra primo grado, appello e Cassazione, tutti finiti con un nulla di fatto. Ovviamente, la sorte peggiore è toccata a persone come il medico Carlo Maria Maggi, vittima innocente di una storia giudiziaria praticamente senza fine, che si concluse con la definitiva assoluzione dell’imputato: era stato accusato ingiustamente.
Nessuno si è mai soffermato a considerare quanto persone come Carlo Maria Maggi pagarono, in ansie, sofferenze e malattie, per anni, anzi decenni, di tremende accuse senza prove lanciate nei loro confronti. Ora è possibile farsene un’idea leggendo le pagine del libro L’ultima vittima di piazza Fontana (editoriale Chiaravalle) che Maggi ha dato alle stampe con l’aiuto e l’assistenza dei suoi due figli, Lorenzo e Marco, che erano ragazzi quando fu arrestato per la prima volta, e che furono proiettati indirettamente nel meccanismo a volte davvero perverso della giustizia italiana. Così come vi fu proiettata la loro madre, la signora Imelda Maggi, spentasi prematuramente il 16 dicembre 2004, dopo una lunga malattia aggravata dalle sofferenze morali patite in quei terribili anni.
A questo punto, vorrei ricordare un processo nei miei confronti che si concluse nel novembre 1996 dinnanzi al tribunale di Monza. Su L’Indipendente, quotidiano di cui all’epoca ero editorialista, avevo scritto una lettera aperta al segretario generale del PSI Bettino Craxi, in seguito alle dichiarazioni da lui rilasciate a Berlino. Ma che cosa aveva detto Craxi? Aveva dichiarato che il processo per la strage di piazza Fontana era praticamente da rifare, in quanto la bomba era stata messa da Valpreda; che l’anarchico Pinelli non era caduto accidentalmente dalla finestra della questura di Milano, ma si era suicidato; e che il commissario Calabresi era innocente.
Enorme clamore per le dichiarazioni di Craxi, e mio duro articolo che – dopo avere rivelato come Valpreda avesse svolto, durante il servizio militare, azioni da esperto di esplosivi – si concludeva con questa domanda: «Come mai il leader del PSI parla soltanto adesso?». Nel mio editoriale ricordavo come, all’epoca, per avere sostenuto la tesi dell’attentato anarchico, fossi stato aggredito da tutta la stampa di sinistra, compresa quella del PSI. Da qui la querela di Valpreda, estesa a Craxi (a proposito del quale, però, la Camera dei Deputati non concesse l’autorizzazione a procedere).
Ebbene, dopo varie udienze, prolungatesi per ben quattro anni, e dopo l’arringa pronunciata dal mio difensore, il mai abbastanza rimpianto avvocato (e storico) Alessandro Zanella, alla fine fui assolto con formula piena («perché il fatto non costituisce reato») dall’accusa di aver diffamato Pietro Valpreda. Rintracciai, infatti, l’ex sergente istruttore di Valpreda durante la naja e lo feci citare a Monza.
Non poté che confermare le mie rivelazioni e perciò fui assolto. Nella motivazione era scritto testualmente: «Diritto di cronaca e diritto di critica correttamente espressi si intrecciano in un articolo che, con misurate espressioni, e con dimostrata verifica delle fonti (…), ripropone personali iniziative del giornalista, orientato, ai tempi in cui il procedimento per la strage di piazza Fontana era in corso di svolgimento, in senso colpevolistico quanto alla pista anarchica. L’articolo, in sostanza (…), occupandosi di un argomento di rilievo addirittura storico, esprime una critica all’allora segretario politico del PSI».
A questo punto, mi sembra utile ricordare due impressionanti precedenti storici che tutti hanno dimenticato. Parlo di due stragi consumatesi entrambe a Milano, proprio come quella di piazza Fontana, ed entrambe con due ecatombi incredibilmente di pari portata. La prima bomba esplose nella primavera del 1921 e causò 21 morti e cento feriti tra gli spettatori del teatro «Diana», dove si stava rappresentando l’operetta «Mazurka Blu» di Franz Lehar.
Erano circa le ore 23, quando un terrificante boato squassò il muro di sinistra della platea e si abbatté come un ciclone tra i poveracci che avevano pagato il biglietto per trascorrere due ore in serenità. Corpi fatti a pezzi, teste tranciate di netto, un lago di sangue, urla, terrore. Esattamente come in piazza Fontana. Gli autori? Tre anarchici, Giuseppe Mariani, di 23 anni, Giuseppe Boldrini, stessa età, e Ettore Aguggini, di 25 anni. Il loro obiettivo era il questore di Milano, Giovanni Gasti, colpevole, ai loro occhi, della lunga e ingiustificata detenzione in carcere (allora la polizia poteva farlo) dell’intellettuale anarchico Errico Malatesta, fondatore di Umanità Nova. Il questore abitava nell’appartamento sovrastante una delle porte d’ingresso al «Diana», in via Mascagni, ed effettivamente a quell’ora era in casa con la sua famiglia.
Ma i tre sprovveduti avevano sbagliato a collocare la bomba (un ordigno di 20 chili, più o meno della stessa potenza di quello di piazza Fontana). Furono arrestati, furono trovate prove schiaccianti e un anno dopo, nel maggio 1922, furono condannati, con sentenza definitiva, uno all’ergastolo, gli altri due a 30 anni di galera. Verranno graziati dal presidente della Repubblica Enrico De Nicola nel 1946.
Al momento della strage e della sentenza, l’Italia era ancora un Paese democratico, il fascismo non era ancora andato al potere. Ma nove anni dopo, nel 1928, comandava Mussolini. Ebbene, quell’anno, esattamente il 12 aprile, un’altra bomba esplose a Milano, alla Fiera, lasciando sul terreno 20 morti e 45 feriti. Chi l’aveva fatta brillare voleva uccidere il Re Vittorio Emanuele III, in arrivo a Milano per inaugurare l’evento. Ma era in ritardo.
Cosicché la bomba, collocata sotto il palco delle autorità, massacrò la folla (tra cui alcuni bambini) assiepatasi per applaudire il sovrano. Come ho sottolineato, il fascismo era ormai al potere da sei anni. A maggior ragione, i sospetti non potevano che cadere sugli anarchici. E difatti la polizia ne arrestò una piccola formazione clandestina. Ma – pensa te – gli imputati furono tutti assolti. Ancora oggi – esattamente come per la strage alla Banca dell’Agricoltura – non si sa chi collocò quella bomba, e quei poveri morti non ebbero, e non avranno, mai giustizia.
È la storia, bellezza.