La Stampa 9 ottobre 1999
Quando si fumavano papiroskij e si metteva il colbacco
Filippo Ceccarelli
Dice: stavano con i russi. Molto di più, in realtà. A un certo punto, per pura devozione, ci fu chi arrivò a fumarsi le papiroskij, le mefitiche sigarette sovietiche con il lunghissimo filtro di cartone duro…
Ci fu anche chi faceva il tifo per la nazionale di calcio dell’Urss, squadra lenta e oltremodo pesante, dalla maglia rossa e la scritta cirillica CCCP; chi non si perdeva un numero di Realtà sovietica, di una noia veramente mortale; e chi, in un impeto di deferenza, aveva il cuore di sfidare il dolce inverno romano indossando orgogliosamente il colbacco comprato a Mosca.
Fumo, tifo, letture, abiti. Dice: i comunisti italiani stavano con i russi. Ma «stare», veramente, è dire poco. Alcuni impararono il russo, si sposarono e quindi s’imparentarono con delle russe. E allevarono i loro figli seguendo diligentemente i precetti del Poema pedagogico di Makarenko e regalandogli a Natale i giocattoli di legno cecoslovacchi.
Ancora qualche anno fa, entrando nelle loro case, anche in provincia, si restava come ipnotizzati da certi ingombranti e fragilissimi samovar; e sul divano del salotto, con qualche angustia, potevi notare il coloratissimo cuscino con il martello e il compasso della Rdt. Il valore degli oggetti andava di pari passo con il rango dei dirigenti. Nell’appartamento romano di Celeste Negarville, ad esempio, Massimo Caprara ricorda di aver scorto ceramiche e oggetti in mel’chior, che è una specie di lega argentata in uso a Mosca. E «Mosca» Giangiacomo Feltrinelli aveva chiamato il suo primo yacht.
Insomma: agli occhi, alla mente e al cuore di parecchi comunisti, per una trentina d’anni più che una politica l’Unione Sovietica fu una religione. In assoluta buona fede, di quella religione rossa furono perciò dei fedeli. Altro che filo-sovietici.
I sovietici veri e propri, attentissimi ai riti, lo sapevano bene. Nelle mille e mille sezioni d’Italia si festeggiava a gara il compleanno di Stalin, mentre le cerimonie più fastose venivano officiate, alla presenza anche di industriali e artisti non comunisti, per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre nella splendida residenza di Villa Abamelek, dieci ettari di verde mediterraneo come sospesi tra il Gianicolo, il Vaticano e Villa Pamphili. Qui Renato Guttuso e Pietro Nenni furoreggiavano. C’erano caviale e storione a volontà.
Nel ricevimento del 1965, annota nel suo straordinario diario il responsabile della libreria «Rinascita» Fidia Gambetti, «i più riveriti e fotografati sono stati Gianni Agnelli e Valletta». Ma il centro politico dell’ambasciata sovietica era a via Gaeta. E proprio così, «via Gaeta», accompagnando l’indicazione toponomastica con uno sguardo che poteva significare tutto, Togliatti e gli altri indicavano i vari ambasciatori Kostilev e Korizev, con annessi consiglieri e interpreti «dal muso di furetto» (Caprara), questi ultimi considerati a volte più potenti degli stessi diplomatici.
Per dare l’idea del rapporto con l’ambasciatore basterà ricordare che quando, nell’agosto del 1968, Armando Cossutta e Maurizio Ferrara furono convocati dal signor Rijov per essere informati dell’invasione della Cecoslovacchia, e non furono affatto contenti, quest’ultimo nel salutarli provò ad addolcirli mettendogli in tasca bottigliette di vodka e cioccolatini.
I sovietici erano consapevoli di rappresentare per i compagni italiani un’occasione, diciamo così, voluttuaria, specie dal punto di vista del buffet, oltre che mondana. Sempre Gambetti ironizza sul «rituale spettacolo del salto a pesce per agguantare un toast o una pizzetta». Quando viene a Roma Podgorni il banchetto è al Grand Hotel: «Da mangiare anche per i porci, uno spreco rivoltante, montagne di avanzi di lusso sopra i tavoli. Podgorni e Saragat hanno il volto acceso e gli occhi lucidi». E per accogliere degnamente l’astronauta Valentina Tere-schova alle Botteghe Oscure, Longo va dal barbiere.
Le vittorie sportive, comprese quelle nella gara per la conquista dello spazio con lo Sputnik e Yuri Gagarin, erano vissute come l’ennesima dimostrazione della superiorità del sistema socialista. Questa superiorità trovava la sua massima espressione in libro – In Urss si vive così – scritto sotto forma di catechismo da Paolo Robotti, che pure era stato seviziato e tenuto in galera per 18 mesi alla Lubianka. In Urss si è liberi e felici, la produzione agricola e industriale aumenta sempre, si lavora in allegria e non c’è nemmeno la prostituzione.
Il breviario robottiano era regolarmente in vendita ai festival dell’Unità, insieme alla più mesta e pervasiva chincaglieria sovietizzante: targhe, diplomi, matrioske, bandiere, distintivi, medagliette, stelle d’argento. Mentre un’abbondantissima pubblicistica «teologica», con schemi di lettura sempre uguali e improbabili traduzioni addirittura dal vietnamita, faceva scricchiolare gli scaffali dei compagni più fedeli, riempiti nel corso degli anni di Calendari del popolo, Rassegne sovietiche, edizioni Teti, «Aurora» e Napoleone, Orizzonti e Interstampa. Sul giradischi i cori dell’Armata rossa; a parte il ricordo dei balletti del Bolscioi.
Quando l’idea della fede nel Pcus cominciò a diventare sconveniente, fu sostituita con una metafora – pare di conio cossuttiano – altrettanto impegnativa: «la Casa Madre». Non per questo, infatti, i massimi dirigenti italiani smisero di passare in Urss le proprie vacanze: sulla spiaggia di Miskor, Mar Nero, dove Miriam Mafai racconta che il fratello pescatore di Breznev friggeva per tutti certi pescetti; o nella villa presidiata dall’esercito di Barvicha, con parco e laghetto, dove la nomenklatura mangiava semolino e giocava a domino. Pecchioli, alpinista, scalò il monte Elbrus, nel Caucaso; Rubbi se ne andava in crociera sulla «Ivan Franco». I bambini ad Artek, con i pionieri.
In questi soggiorni gli toccava di incontrare mitici compagni come Ponomariov, «il cane da caccia – secondo Gorresio – messo a sorvegliare il grande gregge dei pc occidentali», uno sempre vestito di scuro, con in testa una specie di lobbia, pronto a fulminare con gli occhi chi fumava o lasciava avanzi nel piatto. Oppure il più gioviale Kirilenko, che si considerava «un comunista sovietico iscritto al Pci». O il raggelante Suslov. Piccolo mondo sovietico, però a suo modo anche grande.
A lungo il legame restò «di ferro». «Bisogna chiavarsi in testa che l’Urss ha sempre ragione», diceva il leggendario responsabile dell’ufficio Quadri Edo D’Onofrio. Era un vincolo ad un tempo politico, ideale, culturale, sentimentale, economico. Stupisce, adesso, che per alcuni di quei fedeli possa essere stato anche militare?