Il Corriere del Sud n. 4
30 aprile 2021
Un intellettuale contraddittorio manemico della sinistra borghese
di Andrea Rossi
«So che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignota la corruzione, la volontà d’ignoranza, il servilismo». Questo l’incipit dell’ultimo appello elettorale di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) per invitare a votare il PCI nel giugno del 1975.
Pochi mesi dopo, l’intellettuale più importante della sinistra italiana del dopoguerra, moriva tragicamente in circostanze mai chiarite, a Lido di Ostia (Roma). Già da questo scritto si intravede la differenza sostanziale fra la prosa di Pasolini, la bolsa retorica degli intellettuali “organici” al PCI, o le truci esternazioni di altri agit-prop, che firmavano manifesti per “armare le masse” salvo poi, anni dopo, confessare di essersi sbagliati.
In quell’ultimo appello, se si togliesse la visione disperatamente idealistica che lo scrittore aveva del comunismo, si osserverebbe una analisi perfetta di una società fatta di persone perbene, costretta a vivere in una nazione che non era fascista allora come non lo è oggi, ma che era ed è malata di corruzione, di “volontà di ignoranza” (quanta profezia in questa osservazione!) e di servilismo, ovunque diffuso a piene mani.
E l’idea odierna di stampare un francobollo per commemorare, senza alcun senso critico, i cento anni del PCI (1921-2021) non è una ulteriore prova di quel “servilismo” di cui parlava ormai quasi cinquanta anni fa Pasolini? Eppure, il poeta nato a Bologna nel 1922, cresciuto fra il Friuli e L’Emilia, iscritto durante il Ventennio ai GUF (Gruppi universitari fascisti) del capoluogo felsineo e assiduo collaboratore delle riviste letterarie bolognesi che facevano “fronda” al regime mussoliniano, si scoprì marxista e comunista prima ancora della guerra partigiana.
E fu comunista, di una fede tutt’altro che compatibile con quella ufficiale del PCI, animata da una compassione umanissima e da un sincero amore per gli affamati di giustizia, gli umili, i deboli, gli sfruttati di ogni condizione. Nel maggio del 1945 esultava per la liberazione dal nazionalsocialismo e dal fascismo, salvo poi scoprire che l’amato fratello Guidalberto Pasolini (1925-1945), detto Guido, partigiano cattolico, era stato ammazzato tre mesi prima da altri partigiani, comunisti filo-slavi, assieme ai vertici della brigata Osoppo, nella strage delle malghe di Porzus, in cui cadde anche Francesco de Gregori, omonimo e zio del famoso cantautore romano.
La divisione intima fra comunismo e PCI straziò Pasolini per tutta la vita. Fu cacciato dal partito nel 1948 a causa del suo orientamento omosessuale. Nonostante questo, ostinatamente, appoggiò per tutta la vita il partito comunista ufficiale, quello di fede sovietica, che nel 1960 mandava questa direttiva alle proprie sezioni: «Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro». In realtà Pasolini voleva “salvare” la sua idea di PCI dalla deriva che lo avrebbe portato a sposare le istanze della sinistra “al caviale” e già intravedeva quella che sarebbe stata la sinistra di oggi: un movimento laicista e radicale, disvaloriale, zeppo di sermoni sui “diritti civili” ma in fin dei conti alfiere di un consumismo sterile e disumano.
Queste le sue parole, sempre nell’anno della sua morte: «al potere non interessa una coppia creatrice di prole, ma una coppia consumatrice: in pectore, esso ha già l’idea della legalizzazione dell’aborto, come aveva già l’idea della ratificazione del divorzio». Il PCI in prospettiva diventava insomma anch’esso uno strumento del potere. L’opposto di quello che Pasolini avrebbe mai voluto vedere. Pasolini fu tutto fuorché un comunista contrario alle manifestazioni pubbliche contro “il potere”.
Nel 1960, a poca distanza dall’insediamento del governo di Fernando Tambroni, nato con l’appoggio esterno del MSI, a Genova veniva impedito, con moti di piazza, lo svolgimento del congresso nazionale del partito di Giorgio Almirante. Lo scrittore così ricordava quegli eventi: «La mia indignazione, che io credevo ristretta a pochi memori, è invece condivisa da una grande maggioranza di italiani, tra cui soprattutto, i giovani: quelli di Genova, quelli di Reggio, quelli di Roma, quelli di Palermo».
Eppure, nemmeno dieci anni dopo, nel 1968, il suo duro commento riguardo agli scontri fra polizia e studenti universitari avvenuti a Roma, aumentò ancora di più il suo isolamento all’interno del Partito comunista. Questi alcuni stralci del famoso articolo “Il PCI ai giovani”, pubblicato nel giugno di quell’anno sul periodico L’Espresso: «“Avete facce di figli di papà/Buona razza non mente./Avete lo stesso occhio cattivo./Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri/prerogative piccoloborghesi, amici./Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti/io simpatizzavo coi poliziotti!/(…) A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe/e voi amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri./Bella vittoria dunque la vostra. In questi casi, ai poliziotti si danno fiori, amici».
Le polemiche successive alla pubblicazione furono enormi; il movimento universitario reagì duramente, e non mancarono, subito dopo, le ironie sul “ritorno di Pasolini al fascismo” ricordando la giovanile appartenenza ai gruppi universitari del regime. In realtà, a leggere con attenzione lo scritto, emergono con chiarezza i mali che avrebbero attraversato il decennio successivo, quello degli anni di piombo: la violenza ideologica che sconfinava nel teppismo e, in fondo, nella guerra alle istituzioni democratiche, e le vittime designate di quel progetto, ossia i poliziotti e i carabinieri, giovani provenienti da classi umili e disagiate, i quali pagarono negli anni ’70 un prezzo altissimo in termini di morti e feriti.
Le ideologie solo in apparenza rivoluzionarie, ma in realtà omicide, furono poi propagandate a piene mani da alcuni di quegli universitari “con l’occhio cattivo”, divenuti i cattivi maestri per una intera generazione di estremisti di sinistra. Alcuni di loro ebbero una brillante carriera accademica, mentre per avere un ricordo pubblico del sacrificio di chi cadde in divisa si sono dovuti attendere decenni: solo nel 2008 venne celebrata la prima giornata dedicata esplicitamente alle “vittime del terrorismo in Italia”.
Quanta pietas invece nell’appello finale che invitava a “dare fiori ai poliziotti”, perfettamente intonato all’animo gentile dell’intellettuale comunista, che come regista cinematografico aveva diretto, fra gli altri, un capolavoro come il “Vangelo Secondo Matteo” (1964), che L’Osservatore Romano ha definito «forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema». In tale memorabile film, che dovette molto all’allora consulente ecclesiastico del Centro cattolico cinematografico don Francesco Angelicchio (1921-2009), sacerdote dell’Opus Dei e primo italiano a far parte della Prelatura fondata da san Josemaría Escrivá (1902-1975), la madre di Pasolini interpretava la parte della Madonna piangente sul figlio crocifisso: immagine dolorosamente profetica, per una donna che vide i figli morire anzitempo, a trent’anni l’uno dall’altro, entrambi uccisi in modo spietato e crudele.