del 19 novembre 2006
di Andrea Bernardini
E’ legittima la procedura seguita da alcuni ospedali toscani dove si ricorre alla pillola Ru 486 per praticare l’aborto? La domanda sorge spontanea dopo che il gruppo Udc in Consiglio regionale ha reso pubblica la documentazione presentata dalle aziende sanitarie locali.
Ad Empoli, Siena e Pontedera, dopo la somministrazione di mifepristone (la Ru 486) quasi tutte le donne chiedono la dimissione dall’ospedale, per tornarvi due giorni dopo, verificare gli effetti della pillola e ricorrere, se necessario, alle prostaglandine (misoprostolo) per completare l’aborto. «Lo fanno tutte contro il parere del medico? – si chiede ironicamente Renzo Puccetti, medico, segretario dell’associazione Scienza&Vita di Pisa e Livorno –. Se anche così fosse, con l’uscita della donna dal presidio ospedaliero, si rischia di violare l’articolo 15 della legge 194 che prevede l’utilizzo delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per la sua salute.
Sì, perché le pazienti, lasciando l’ospedale dopo l’assunzione della pillola, corrono rischi superiori a quelli delle donne che abortiscono dopo un intervento tradizionale». Darebbero ragione alla tesi del dottor Puccetti due pronunciamenti del Consiglio superiore della sanità. Il primo è del 18 marzo del 2004 e suona così: «Alla luce delle conoscenze disponibili i rischi per l’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti ai rischi dell’interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene totalmente in ambiente ospedaliero».
Il secondo pronunciamento è del 20 dicembre 2005: «l’associazione di mifepristone e di misoprostolo deve essere somministrata in ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla legge 194 del 1978 e la donna deve essere trattenuta… fino ad aborto avvenuto». Ma i pronunciamenti del Css fanno giurisprudenza?
Secondo il giurista pisano Giuseppe Mazzotta «il parere del consiglio superiore di sanità esplicita, fino a prova contraria, il contenuto della legge». Dunque, un atto che non la osservi «può essere sottoposto a verifica della violazione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale (Tar)».
Il caso della procedura seguita dagli ospedali toscani dove si fa uso della Ru 486 approderà in consiglio regionale forse già all’inizio della prossima settimana. Intanto una apposita commissione regionale sta acquisendo nuovi documenti per chiarirsi (e chiarire agli altri) le idee su come stiano andando le cose.
Ma la Margherita mette le mani avanti: «I dati denunciati dall’Udc – osserva il capogruppo Alberto Monaci – non possono essere accantonati. Da sempre il nostro gruppo chiede che la pratica dell’aborto farmacologico avvenga nel pieno rispetto delle norme vigenti». Quindi «della legge 194 – gli fa eco Gianluca Parrini – che era, è e sarà non superabile né aggirabile».
Per Caterina Bini «le perplessità di alcuni esponenti del partito sulla introduzione della pillola abortiva negli ospedali toscani» si spiegano così: «l’aborto ottenuto con una pillola non rischia di passare tra le giovani, come qualcosa di molto simile ad un metodo contraccettivo?». «Non si può togliere alle donne il diritto di scelta – osserva Lucia Franchini – dobbiamo semmai preoccuparci che sia fatta la giusta informazione. Le donne devono conoscere i rischi della non ospedalizzazione».
Appare curioso come sulla stessa posizione di quanti si dicono contrari all’utilizzo della pillola abortiva si trovi anche Luciano Ghelli, capogruppo dei Comunisti italiani in consiglio regionale: «Ritengo che l’aborto non sia un diritto, ma una tragica necessità, a cui si ricorre in situazioni ben chiare e circoscritte. Decidere un aborto è decidere l’interruzione di una vita e non può essere un atto che viene compiuto a cuor leggero. La pillola abortiva compie un passo, secondo me, verso un accesso all’aborto come diritto e come atto senza conseguenze e risvolti morali. Di più: L’introduzione della pillola abortiva crea uno squilibrio rispetto all’applicazione integrale della legge 194 e può comportare anche un rischio per la salute della donna».
«Mi rincuora che anche esponenti della maggioranza avanzino dubbi sulla procedura seguita dagli ospedali dove si pratica l’aborto con la Ru 486 – chiosa l’udc Marco Carraresi – ora si impone una riflessione del governo regionale: quella prassi è dentro o fuori la legge 194? Se fosse fuori, l’unica soluzione sarebbe quella di interrompere la pratica dell’aborto con il metodo della Ru486, altrimenti quei politici e quei dirigenti sanitari che la difendessero se ne assumerebbero la responsabilità, anche in caso di sanzioni penali».
Il vicepresidente Federico Gelli dà una sua interpretazione della questione, specificando meglio quanto già espresso a «Toscana Oggi» dall’assessore Rossi nello scorso numero: «La somministrazione dei farmaci avviene in regime di ricovero, così come previsto dalla 194. Se successivamente si opta per dimissioni volontarie, questo ha poco a che vedere con la 194: qualsiasi siano le motivazioni entriamo in una sfera di scelta individuale del paziente dove è assai difficile intervenire».
La scheda
La pillola arriva in Toscana dalla ditta francese Exelgyn su richiesta ad personam delle aziende sanitarie. Il prodotto, infatti, in Italia (come in Irlanda ed in Portogallo) non è registrato: i vertici aziendali hanno più volte annunciato di voler chiedere l’autorizzazione al commercio nel nostro Paese, ma – almeno fino ad oggi – non lo hanno fatto. L’importazione sarebbe legittimata da un decreto ministeriale dell’11 febbraio del 1997. Il condizionale è d’obbligo.
Secondo l’avvocato Giuseppe Mazzotta, da noi interpellato, infatti «la Ru 486 ha una valida alternativa terapeutica: l’intervento chirurgico; ed essendoci una alternativa terapeutica, manca la condizione per la legittima importazione di un farmaco non registrato in Italia». È del 11 novembre del 2005 il primo aborto consumato con l’uso combinato di mifepristone (Ru 486) e misoprostol all’ospedale «Lotti» di Pontedera. Da allora e fino a settembre 2006, sarebbero stati almeno 314 (almeno perché non tutte le aziende hanno fornito, fino ad ora, dati puntuali) gli aborti praticati con il metodo della Ru486 negli ospedali della Toscana.
L’assessore al diritto alla salute Enrico Rossi ha inviato ai direttori sanitari non un protocollo da adottare, ma delle linee-guida elaborate dal gruppo di lavoro del Consiglio sanitario regionale sui criteri e modalità da seguire per l’esecuzione dell’aborto medico. Quelle linee guida parlano di un ricovero ospedaliero ordinario e le dimissioni al terzo giorno dopo l’assunzione di prostaglandine.
A Pontedera le linee guida sono sostanzialmente rispettate, ma quasi tutte le donne hanno richiesto ed ottenuto la dimissione volontaria. All’ospedale di san Miniato (Asl di Empoli) dal novembre 2005 al marzo 2006 le interruzioni di gravidanza effettuate con il metodo della Ru 486 sono state fatte in regime di day hospital, per cui le dimissioni volontarie non erano necessarie, in quanto gli accessi erano giornalieri. Dal marzo ad oggi, invece, ben oltre la metà delle donne hanno firmato la dimissione volontaria dalla struttura ospedaliera.
Alle «Scotte» di Siena dopo la somministrazione della pillola Ru 486, il 98% delle pazienti chiede la dimissione volontaria e se ne va con l’impegno di tornare dopo tre giorni. A questo punto la paziente viene sottoposta ad ecografia e visita per verificare se è avvenuta l’espulsione. In caso contrario si somministrano prostaglandine e la paziente viene tenuta alcune ore in osservazione: in caso di fallimento si propone di tornare il giorno dopo per un ulteriore somministrazione di prostaglandine, oppure si procede, se la paziente lo preferisce, a raschiamento chirurgico.
Se la donna ottiene la dimissione, è possibile che l’aborto avvenga fuori dalla struttura ospedaliera. «Secondo il foglietto illustrativo del farmaco commercializzato in Usa – commenta Renzo Puccetti – se le donne vengono mandate via dopo 4 ore il 25-30% di loro abortisce fuori dall’ospedale. E le complicanze sono possibili».
Una cosa è certa e la dice il vicegovernatore Federico Gelli: «Credo che sia di assoluta importanza, anche per noi medici, che un protocollo scientifico fissi finalmente in maniera concreta e stringente criteri e modalità d’intervento».