da In Terris 30 dicembre 2018
Lo psicologo Silvio Rossi: “Sono la base di una società sana”
di Giuseppe Brienza
Silvio Rossi, psicologo e psicoterapeuta di esperienza (ha 25 anni di attività di studio oltre che al servizio della Pubblica amministrazione) ha scritto il libro “I Signori dell’Anello. Guida alla vita familiare in piccole note”, pubblicato dalla casa editrice cattolica “D’Ettoris Editori”. Il suo è stato definito dallo scrittore Paolo Gulisano “un libro geniale” e, addirittura, lui “una sorta di Ennio Flaiano della psicologia”, per la originalità e vividezza dei contenuti, a cominciare dal titolo prescelto.
L’Anello di cui parla, infatti, non è naturalmente quello di Sauron, il personaggio cattivo per antonomasia creato dallo scrittore inglese Tolkien ne Il Signore degli Anelli, bensì quel cerchietto d’oro che suggella una comunione di vita per sempre fra un uomo e una donna che si amano e ambiscono a divenire genitori. Il saggio raccoglie 107 brevi e fulminanti “note” per una sana e politicamente scorretta vita familiare distillando nel complesso alcune preziose verità sulla famiglia, in gran parte oggi negate o dimenticate. In Terris lo ha intervistato in occasione della festa della Santa Famiglia.
D. Il suo saggio mi pare confermi, dal punto di vista della vita matrimoniale e familiare, quanto diceva G. K. Chesterton, vale a dire: “Una cosa morta va con la corrente, solo una cosa viva può andare controcorrente“
Sono d’accordo, la famiglia non solo è una realtà viva ma è anche l’ambiente naturale per l’accoglienza e la custodia della vita e, in questo senso, è chiamata oggi ad andare decisamente controcorrente e ad essere per sua natura anticonformista. La famiglia si oppone alla dittatura del politicamente corretto con l’educazione dei figli, ai quali offre una formazione ad un pensiero autonomo e libero. Con ciò anche pagando a volte il prezzo dell’isolamento e dell’impopolarità. Chesterton diceva pure che sarebbero venuti i tempi in cui si sarebbe combattuto per dimostrare le cose ovvie. Direi proprio che questo è il nostro tempo e che la famiglia deve andare controcorrente per tutelare la sua stessa esistenza e il suo futuro.
D. In effetti a un certo punto nel suo libro Lei scrive una “profezia” per il futuro che, temo, non molti sottoscriverebbero. Vale a dire che, sicuramente, il futuro “appartiene alla famiglia e a chi lavora per essa“, cosa vuole dire?
Voglio dire che la famiglia è connaturata all’essere umano e non è una ‘sovrastruttura’ legata ad un determinato periodo storico che, magari, era valida un tempo e ora può essere messa tranquillamente da parte o sostituita con forme alternative di convivenza. La famiglia è il valore sociale fondante di ogni altro valore comunitario e, perciò, alla fine i tentativi di combatterla non avranno esito. La distruzione della famiglia coinciderebbe necessariamente con la distruzione dell’uomo e della società. Ma certamente le esigenze dell’ecologia umana prevarranno e ci sarà un futuro e sarà assegnato dalla riscoperta della famiglia.
D. Nella famiglia italiana (quella che resiste almeno) c’è una tendenza a viziare i figli, anche quando sono adulti (vedi il fenomeno, tutto italiano, dei “bamboccioni”). Come e quando i genitori dovrebbero rendere autonomi i figli? Qual è l’età giusta, dal punto di vista psicologico, per lasciare la famiglia d’origine e formarsene una propria
Non c’è un momento preciso in cui finisce l’adolescenza e inizia l’età adulta. La maturazione umana è un continuo procedere verso l’autonomia e l’indipendenza e, alla fine, si sente dentro di sé che è arrivata l’ora. Il problema è un altro ed è che oggi una parte di genitori conta sui figli per la propria stessa sopravvivenza psicologica. Parlo di genitori che non sono stati capaci di esprimere un’identità a prescindere dei figli e che, quindi, hanno bisogno di tenerseli vicini per avere una ragione di vita. È questo che blocca un normale e sano ‘distacco’ da parte dei giovani con danno per tutti. D’altra parte è vero che i ragazzi continuano ad essere viziati anche da grandi. Spesso fin da piccoli sono abituati ad ogni agio e alla comodità di un nido che è troppo sicuro e confortevole. Questo non è bene per loro perché si abituano a dare tutto e sempre per scontato e, in questo, i genitori li conducono ad una totale mancanza di senso della realtà. Arriverà, infatti, il momento del confronto con l’esterno e, con queste attitudini, non sarà facile per loro trovare fiducia in sé stessi nelle difficoltà e progettare un personale futuro.
D. Ci spiega, in breve, perché una società sana che, nel tempo, si possa mantenere vivace e vitale, non può che essere quella basata su famiglie sane?
Vede, sono molti anni che faccio lo psicoterapeuta e in tutto questo tempo ho notato e ho verificato una correlazione incontrovertibile tra salute della persona e salute della famiglia. Se la famiglia è sana ci sono altissime probabilità che la persona sia sana e, anche, se in essa si sviluppano dei problemi psicologici, quando la famiglia funziona bene ci sono maggiori probabilità di trovare una strada di risoluzione. La società è composta di persone e, quindi, alla fine è semplice tirare le somme: la famiglia sana produce persone sane e le persone sane contribuiscono a mantenere la società coesa, viva. Quindi la salute della società è strettamente legata al benessere della famiglia. Chi vuole migliorare la società deve per forza ripartire della famiglia fondata sul matrimonio.
D. Nel libro Lei ha conia un’espressione geniale: “Il patrimonio è la tomba dell’amore“. Come mai?
Beh, ovviamente è un gioco di parole che parte della falsa frase comune: ‘Il matrimonio è la tomba dell’amore’. Direi subito che quest’ultima è proprio una “fake news”. Però è una convenzione fatta propria da molti. In realtà il matrimonio è la realizzazione definitiva dell’amore quando questo è vissuto in una piena consapevolezza del dono di sé. Invece, se è il patrimonio inteso come desiderio di conquistare una sicurezza economica a guidare la decisione di sposarsi, allora in questo caso è votato al sicuro fallimento. Ricordiamoci che i nostri nonni di fatto erano molto più poveri di noi, però questo non li ha trattenuti dallo sposarsi né da fare tanti figli e vivere pienamente l’epoca del boom economico. Insomma, ci vuole anche del coraggio per essere felici.
D. Ci può sfatare anche dal punto di vista psicologico i luoghi comuni relativi alla convivenza, tipo “Tanto che differenza fa?“, “Ci vogliamo bene lo stesso“, etc.?
Certo! Io penso che la convivenza sia una scelta dettata per molti dalla sfiducia e dal facile compromesso. Oggi viviamo nell’epoca del rifiuto delle scelte definitive. Siamo come “parcheggiati” nel provvisorio e nelle mezze misure ed è in questo contesto che prospera la convivenza. È perfetta per accontentare le persone del nostro tempo che vogliono giocare al marito o alla moglie ma lasciando aperto uno spiraglio aperto… La convivenza sembra un matrimonio ma non lo è affatto. Manca la parte essenziale dell’impegno pubblico e definitivo. L’uomo e la donna sono fatti per le scelte definitive e non certo per stare lì a galleggiare a mezz’acqua. Se personalmente dico di amare una donna devo dimostrarlo con una scelta totale perché l’amore è intrinsecamente totale e totalizzante.
D. Educare – ha scritto – è “l’arte profonda e raffinata di insegnare a distinguere“. Nell’attuale società relativista e buonista, pensa sia un’arte ancora praticabile?
Direi di sì, perché anche i relativisti devono scegliere. Il problema è che loro non hanno dei criteri validi per scegliere bene. Ma tutti noi siamo chiamati a decidere migliaia di volte ogni giorno e dobbiamo scegliere se queste decisioni sono fatte bene così da dare alla nostra vita la sua piena realizzazione. In caso contrario purtroppo andiamo verso un fallimento personale. Ecco perché l’arte di scegliere esprime proprio la pienezza del nostro essere liberi e, quindi, è l’insegnare a scegliere bene che guida poi a distinguere. Questo è il cuore dell’educazione. Non possiamo farne a meno. E, per quanto riguarda il buonismo che, ricordiamolo, è come la patologia della bontà, esso si traduce in un atteggiamento che non rende più possibile distinguere il bene dal male. Il buonismo porta a leggere tutte le categorie della bontà in maniera zuccherosa e melensa. In questo senso è chiaro quindi che porta a perdere ogni capacità di scelta e, alla fine, la libertà.