La Croce quotidiano, venerdì 6 marzo 2015
I numeri parlano da sé, e non c’è nulla di cui stupirsi: tutto ciò che può essere comprato può essere rubato – se le donne si possono pagare niente di più ovvio che si possano violentare
di Giuseppe Brienza
L a violenza sulle donne, purtroppo, va spesso di pari passo. Nel senso che le vecchie forme di violazione della loro dignità si stanno associando anche alla brutalità biotecnologica. In India, per esempio, al livello record di stupri (il Ncrb, l’Ufficio nazionale di registrazione dei reati, ne registra ogni anno in media un centinaio), secondo una recente ricerca di una università della Danimarca, le pratiche di affitto del proprio utero sono sempre più estorte lasciandole nell’ignoranza dei gravi rischi alla salute di cui sono vittime.
Secondo Malene Tanderup, ricercatrice dell’Institut for Klinisk Medicin (Aarhus University), interpellata in merito dall’agenzia Reuters Health, «Di 14 madri surrogate che ho intervistato non ce n’è una in grado di spiegare i rischi dovuti alla presenza di più embrioni nel proprio utero o alla riduzione fetale» (cit. in Frederik Joelving, Surrogate mothers in India unaware of risks, in http://www.reuters.com/, 2 marzo 2015) Il mercimonio proposto da ricchi aspiranti occidentali, compresi single ed omosex, è evidentemente basato sulla manipolazione e sull’inganno di migliaia di donne poco dotate di istruzione di un Paese con ampie sacche di povertà come l’India.
La ginecologa danese evidenzia quindi che, essendo la gravidanza «il momento più delicato nella vita di una donna», sarebbe sacrosanto che coloro cui si chiede di affittare il proprio utero siano messe in condizione di «sapere cosa stanno accettando di fare».
Secondo la ricerca citata, condotta tra il 2011 e il 2012 e che ha coinvolto 18 medici di 20 cliniche indiane che si occupano di maternità surrogata, ogni decisione in merito alla gravidanza viene presa «in modo unilaterale» dal personale medico, «il quale lascia le madri surrogate all’oscuro di tutto ciò che avviene nel proprio corpo» (Federico Cenci, Maternità surrogata tra miseria, ignoranza e schiavitù, in Zenit, 3 marzo 2015).
L’India per gli “agenti” dell’utero in affitto è una vera e propria macchina da soldi. Si stima, infatti, che i profitti al riguardo si aggirino tra i 500milioni ai 2,3miliardi di dollari l’anno. Per una donna di una classe sociale modesta, affittare il proprio utero significa incassare dai 3mila ai 7mila dollari. Il lavoro della Tanderup, intitolato Acta Obstetricia et Gynecologica Scandinavica, ha ricevuto riscontri favorevoli anche nel mondo scientifico indiano.
Il direttore dell’indiano Journal of Medical Ethics Amar Jesani, per esempio, ha dichiarato che lo studio scandinavo «mostra la realtà dei fatti in modo nudo e crudo», definendosi «per nulla sorpreso dai risultati» delle interviste raccolte dalla Tanderup, dai quali si rileva che nessuna delle madri surrogate era stata messa a conoscenza di quanti embrioni fossero stati impiantati nel proprio utero.
La ginecologa danese ha verificato che in alcune cliniche vengono trasferiti persino sette embrioni alla volta. Prima della pubblicazione della ricerca scandinava, il vaso di pandora sul “mercato dei bambini” in India era stato scoperto con la vicenda di Sushma Pandey, diciassettenne uccisa in un “centro di eccellenza” per la c.d. fecondazione eterologa dalla stimolazione ovarica alla quale si sottoponeva per la terza volta in 18 mesi.
Tuttavia il profitto ha prevalso sulla dignità di una vita umana e, come ha giustamente commentato Gianfranco Amato, Presidente dei Giuristi per la Vita, «Nessuno ha pagato (e nessuno pagherà) per la morte di questa adolescente».