11 febbraio 2016
di Luigi Mariani
Se il salmone è triste, se l’orso polare è inappetente, se il vostro pesce rosso ha perso il sorriso, se l’agnello si è ristretto nonostante vesta in pura lana vergine, se gli augelli non fanno più festa, se la povera gallina tornata in su la via non ripete più il suo verso o se il vostro cane è depresso, il responsabile è uno e uno solo: il cambiamento climatico, ovviamente antropogenico.
Circa il cane depresso invito i cultori dell’inglese a leggere questa notizia, pubblicata dal quotidiano britannico Independent (clicca qui) secondo cui la depressione dei cani britannici, dovuta all’eccesso di pioggia che limita le loro uscite, è solo l’ultima delle tante malefatte del cambiamento climatico, un fenomeno tanto tremendo che a soffrirne è l’intera arca di Noè. Personalmente provo una sempre maggior fatica a cercare con le mie poche forze di contenere questa alluvione mediatica di castronerie inscenata quotidianamente da milioni di profeti di sventura, che pare abbiano adottato come protettore san Pinocchio in luogo di San Francesco di Sales. Mi sento solo di dare ai lettori il seguente consiglio: cercate di adottare un atteggiamento critico e cercate il più possibile di stare ai fatti, sottoponendo la tesi del “profeta” di turno a verifica razionale e basata su dati di buona qualità, prodotti con regolarità e che coprano archi di tempo sufficientemente lunghi (almeno alcuni decenni).
Dico questo perché il clima europeo è stabile da millenni, ma si caratterizza per un’elevatissima variabilità interannuale come ci mostrano le serie storiche secolari che evidenziano l’alternarsi di annate caldo- aride e annate freddo-umide, di estati fredde e piovose ed estati canicolari. I più giovani di noi dovranno convivere con le intemperanze del nostro clima quantomeno per i prossimi 80 anni, e ciò visto che la vita media in questo mondo ormai alla catastrofe è “inspiegabilmente” salita a livelli mai registrati nella storia umana: oltre 70 anni a livello globale e oltre 80 anni nella nostra vecchia Europa. Vivere altri 80 anni in questo barnum significherà per loro doversi sorbire tutte le fole che vengono oggi diffuse e sempre più lo saranno in futuro.
Roba da non uscirne vivi, nel senso che chi è privo di difese sarà colto (lui, non il suo cane) dalla depressione e nella vita finirà per non combinare nulla di buono per migliorare il mondo in cui viviamo, mondo che viceversa avrebbe tantissimo bisogno di azioni concrete e ispirate a quel pragmatismo che è stato in passato uno dei fiori all’occhiello della cultura europea. È grazie a tale pragmatismo e al troppo spesso dimenticato spirito di sacrificio che ha animato le benemerite generazioni passate (che di fame e di stenti ne hanno vissuti tantissimi) che oggi possiamo godere di sicurezza alimentare, cure mediche e ambienti di vita salubri (riscaldati in inverno e condizionati in estate).
Un efficacissimo esempio di approccio pragmatico alle intemperanze del clima europeo ci viene da Giovanni Targioni Tozzetti, 1767, il quale nella sua Cronica meteorologica della Toscana per il tratto degli ultimi sei Secoli relativa principalmente all’Agricoltura (Alimurgia, pt. III) scrive quanto segue: «1590: Trovandosi la Toscana afflitta da grandissima Carestia, e non essendo potuti ottenere Grani dalla Sicilia, dal Levante, dalla Barberia, state le male Ricolte, che erano state ancora in quei Paesi soliti essere Granaio dell’Italia, il serenissimo Granduca Ferdinando I, con somma prudenza riflettè, che le medesime Cause Meteorologiche, dovevano aver cagionato una copiosissima Ricolta nei paesi più settentrionali di noi. Perciò si voltò alle più remote Provincie verso il Baltico, allora non molto praticate, e spedì per le poste a Danzica Riccardo Riccardi Gentiluomo fiorentino, ricchissimo e principalissimo Mercante, per incettar Grani e Biade, ed in questa maniera, da niun’altro prima immaginata, gli riuscì di metter l’abbondanza nella Toscana».
Un ulteriore esempio può essere tratto dagli scritti dello storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie il quale narra che il 1740 fu un anno freddissimo e molto piovoso (si era infatti al culmine della fase fredda nota come della “piccola era glaciale”) e in Francia prese piede una terribile carestia che produsse circa 200mila morti per fame e freddo. Questo si verificò anche perché quell’anno era stato preceduto da circa 60 anni di mite clima atlantico, in cui la gente si era disabituata a fare scorte sufficienti di combustibile e cibo. Lo storico osserva tuttavia che il numero di morti del 1740 fu molto inferiore rispetto a quelli (che erano stati milioni) registrati in occasione delle carestie del 1794-97 e del 1693-1695. Ciò perché i sistemi di gestione delle scorte erano nel frattempo molto migliorati e dunque nel 1740 le autorità francesi riuscirono a far affluire cibo dalle regioni meno colpite dalla carestia.
Questi esempi ci portano a concludere, con Emmanuel Le Roy Ladurie, che il clima europeo va conosciuto, perché se lo conosci non ti uccide, e inoltre che la storia della civiltà umana può essere letta da un certo punto di vista come la progressiva messa a punto di strumenti atti ad affrancarci dalla “dittatura del clima”, a cui i nostri progenitori sono stati soggetti per millenni. In questo contesto giova anche considerare che le quattro grandi culture che nutrono il mondo (mais, riso, frumento, soia) da decenni aumentano con continuità la loro produzione per ettaro, tanto che questa si è quintuplicata o sestuplicata negli ultimi 100 anni.
Tale fenomeno è tuttora in corso, tant’è vero che le statistiche Fao (clicca qui) indicano che durante il periodo dal 1961 al 2013 la produttività del frumento è triplicata, passando da 1.24 a 3.26 t/ha (+200% e cioè +3.8% l’anno), la produttività del mais è quasi triplicata, passando da 1.9 a 5.5 t/ha (+183% e cioè +3.5% l’anno), quella del riso è più che raddoppiata, passando da 1.9 a 4.5 t/ha (+140% e cioè +2.6% l’anno) e più che raddoppiata è infine quella della soia che è passata da 1.2 a 2.5 t/ha (+119% e cioè +2.3% l’anno). Sempre secondo dati Fao tale imponente aumento di produzione ha sensibilmente ridotto la percentuale di esseri umani sottonutriti, passata dal 50% della popolazione mondiale del 1945 al 37% del 1971 e al 10.7% nel 2015 e ridottasi in valore assoluto dagli 1,01 miliardi del 1991 ai 793 milioni del 2015.
E qui, di fronte a un incremento produttivo tanto massiccio da non avere precedenti nella storia umana, si impone la seguente domanda: come potrebbe un “clima impazzito” e in cui “gli eventi estremi hanno raggiunto livelli mai visti in precedenza” garantire un simile successo? Questa è a mio avviso la più radicale prova che il clima non è affatto impazzito e che la provvidenza divina ci sta dando oggi una grossissima mano dandoci più CO2 per nutrire le piante coltivate e una maggiore mitezza del clima, che in vaste aree del mondo è oggi più che mai favorevole a molte colture.
Alla luce di tale lunga ma doverosa premessa, vediamo allora di sviluppare alcune considerazioni sulla siccità che in questi mesi affligge l’areale italiano, fenomeno sempre più spesso utilizzato per rinfocolare il millenarismo imperante: altro non sarebbe infatti la siccità se non un castigo per le nostre colpe di consumatori di combustibili fossili. Come leggere tale fenomeno alla luce dei dati? A Milano abbiamo il privilegio di disporre di una delle serie storiche di precipitazione più lunghe del mondo e cioè quella di Brera, che ha inizio nel 1763 e che in questa sede utilizzerò fino al 2003, utilizzando invece per gli anni successivi i dati del pluviometro sito presso la mia abitazione che si trova nelle vicinanze di Piazza Napoli a Milano.
Anzitutto procederò facendo riferimento al periodo che inizia il primo di settembre, data che tradizionalmente si considera come inizio dell’anno idrologico perché in coincidenza con essa ha di solito inizio la ricarica delle falde dopo la siccità estiva. Il periodo dall’1 settembre 2015 al 31 gennaio 2016, con un totale di 235 millimetri (che, lo ricordo, corrispondono a 235 litri per metro quadrato) si colloca per piovosità all’undicesimo posto fra i meno piovosi di Milano, essendo preceduto da 1973 (233 millimetri), 1874 (232), 1805 (230), 1908 (227), 1827 (225), 1883 (208), 1946 (200), 1843 (189), 1989 (167) e 1921 (121).
Gennaio 2016 non è invece da considerare anomalo, in quanto con 27 millimetri di pioggia si è collocato al 72° posto fra i gennai meno piovosi dal 1763 a oggi, e del tutto normali sono da considerare anche settembre e ottobre 2015, rispettivamente con 99 e 100 millimetri di pioggia. Un’anomalia sensibile la si riscontra invece in novembre, mese che di norma è il più piovoso dell’anno e che invece nel 2015, con soli 6 millimetri, si è collocato al 6° posto fra i meno piovosi dal 1763, preceduto da 1805 (5.6 millimetri), 1921 (5.1), 1981 (1.0), 1983 (0.4) e 1988 (0.2). Anomalo è stato pure dicembre, che con soli 2 millimetri piovuti nel 2015 si è collocato al 9° posto, preceduto da 1941 (1.6 millimetri), 1991 (1.0), 1940 (0.5), 1834 (0.2) e infine da 1843, 1851 e 1861, del tutto privi di pioggia.
I dati elencati ci mostrano dunque che non è in nessun caso possibile parlare di anomalie senza precedenti. Ciò anche perché l’inverno nella Lombardia a nord del Po è mediamente la stagione meno piovosa dell’anno. Per inciso questa analisi è efficacissima per mostrare quanto possa rivelarsi fallace la “memoria d’uomo” che spesso sui media viene chiamata a testimone delle anomalie climatiche. Chi di noi si ricorda più della stagione autunno-vernina 1989-90, che con 167 millimetri fra settembre e gennaio (il 71% di quanto caduto nello stesso periodo del 2015-2016) è stata la seconda annata meno piovosa dal 1763, superata solo dal 1921? Per quanto concerne infine l’agricoltura, mi preme ricordare che in Italia la carenza invernale di pioggia non è da considerare siccità in termini agronomici in quanto le colture sono in riposo vegetativo, per cui l’acqua accumulata in autunno, non essendo consumata dai vegetali, si conserva per lo più nel suolo in vista della ripresa vegetativa delle colture.
Nel futuro prossimo la situazione potrebbe divenire critica in due principali casi: 1). qualora le precipitazioni fossero modeste nel periodo che ci separa dalla ripresa vegetativa, allorché le colture riprenderanno ad attingere in modo consistente alle riserve idriche dei suoli 2). qualora a fine inverno gli accumuli nevosi sulle Alpi risultassero modesti, limitando dunque le riserve estive utili a fini irrigui. Pertanto si tratta di una situazione che a mio avviso è da monitorare con molta attenzione, ma senza per ora eccedere in allarmismi, poiché abbiamo davanti a noi mesi di norma ricchi di precipitazioni come marzo, aprile, maggio e giugno.