Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa
Newsletter n.947 del 17 dicembre 2018
di Stefano Fontana
La relazione tra potere politico e potere spirituale deriva strettamente dall’origine dell’autorità politica stessa. La Chiesa ha sempre insegnato che l’autorità (politica) viene da Dio. Lo afferma San Paolo: “Non vi è potestà se non da Dio” (Rom. 13, 1-4). Lo ha proclamato Gesù Cristo stesso che ha detto a Pilato: “Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato dall’alto” (Gv, 19-11). Leone XIII insegnava lo stesso principio: “Dio è la fonte dell’umana potestà” (Diuturnum illud, 1881).
Questo principio non significa che Dio designi le persone che devono governare. L’indicazione di “chi” deve governare avviene in molti modi, oggi anche per via democratica. Né Renzi né Conte sono stati indicati da Dio a guidare il governo. Però una cosa è indicare “chi” deve governare e altra cosa è legittimarlo moralmente, ossia fondare “perché” sia giusto che governi.
La discendenza in linea diretta oppure il voto democratico indicano chi governa, ma non sono in grado di legittimarlo, ossia di stabilire se sia giusto che governi, se sia bene che governi. Ora, l’unico motivo per cui un uomo possa comandare su un altro uomo è che lo faccia per il suo bene. Unico motivo legittimante il potere è quindi il bene comune che esso deve servire. Ma il bene comune rimane infondato senza il Sommo Bene. Dio è il Garante del Bene e, quindi, di ogni potere dell’uomo sull’uomo che voglia essere moralmente legittimo, ossia che non sia solo potere ma sia autorità.
Si potrebbe anche ragionare al contrario. Se non su Dio, su cosa altro si potrebbe fondare il potere dell’uomo sull’uomo? Sul voto della maggioranza no perché si tratterebbe di una pura forza numerica; sulla decisione di qualche assemblea o parlamento no perché si tratterebbe di una posizione di parte; sui doveri e diritti dell’uomo nemmeno perché senza Dio essi non avrebbero il fondamento ultimo a assoluto e sarebbero manipolabili. Senza Dio non c’è ordine, né bene e male, né giustizia e il potere politico sarebbe abbandonato alla pura forza. Si tratterebbe solo di una questione di muscoli.
Il dovere della politica verso la religione
Se l’autorità politica fa il bene è legittimata, se non lo fa è solo designata ma non legittimata. La politica allora ha un dovere verso il bene. Il bene, però, non sta in piedi da solo perché la morale richiede una assolutezza che non sa darsi da sola. Il bene morale ha bisogno del fondamento religioso in Dio. Ecco perché la politica ha dei doveri diretti verso la morale (è chiamata a fare il bene) ma ha anche dei doveri indiretti verso la religione (è chiamata a dare pubblico culto a Dio): altrimenti anche i suoi doveri verso il bene pian piano verrebbero meno.
Quando la politica rifiuta di avere dei doveri verso la religione e verso Dio, allora capita che essa dimentichi di avere dei doveri anche verso il bene morale semplicemente inteso. Quando la politica perde di vista i suoi doveri verso la Sacra Famiglia finisce per dimenticare anche quelli per la famiglia. Quando perde di vista la vita eterna, finisce per dimenticare anche di difendere la vita.
Se la politica bastasse a se stessa e fosse capace di fondarsi da sola, non avrebbe necessità di una relazione con la religione. Al massimo avrebbe delle relazioni contingenti, accidentali, dovute ai singoli periodi storici o a delle necessità estrinseche. Per esempio in momenti di crisi e difficoltà, oppure perché la religione faccia da collante civile tra i cittadini (la religione civile) oppure rimargini le ferite sociali o le più acute forme di disagio (la religione come ambulanza). Ma non si tratterebbe di una relazione essenziale, ossia tale che senza di essa la politica non potrebbe essere vera politica.
La Chiesa insegna, invece, che la politica ha bisogno della religione, oltre che della morale, per poter essere vera politica. Senza la religione, infatti, essa perde la legittimazione ultima, si indebolisce e viene asservita agli interessi di parte, dimentica pian piano anche la morale, perde infine di slancio e si riduce ad essere amministrazione (interessata) di cose anziché guida di uomini verso il bene.
La religione dell’antireligione
Cosa succede se il potere politico rifiuta i suoi doveri verso la religione e verso Dio? Il dato più interessante – oltre le cose appena dette – è che il potere diventa esso stesso Dio. Quando il potere politico lotta contro l’Assoluto, fa di se stesso un assoluto. Quando la politica getta Dio fuori della pubblica piazza – o nella forma violenza di tipo giacobino o nella forma liberale e tollerante della democrazia relativista – adopera una forza a valenza religiosa, ha la pretesa di una nuova religione. Il laicismo contemporaneo è dogmatico, violento, discriminatorio, inquisitorio come se avesse una forza religiosa. Non si tratta, evidentemente, di una religione vera e propria, ma ha una forza religiosa anche se di tipo antireligioso.
Si comprende così un fatto di notevole importanza. Il potere politico non riesce a collocarsi in una posizione di neutralità verso il potere spirituale e verso Dio. Se non è con Dio è contro Dio. Un mondo senza Dio non è un mondo neutro, è senza Dio, ossia, infine, contro Dio. La laicità politica, intesa come il rifiuto della religione e di Dio nell’ambito pubblico, è quindi impossibile. Una volta tolto Dio, il potere politico riempirà quello spazio pubblico di altri dei, a cominciare dalla divinizzazione di se stesso. Sorprendente agli occhi dei nostri contemporanei anche la conseguenza parallela: una vera laicità della politica la si può avere solo se la politica accetta non solo la sua dipendenza (diretta) dalla morale ma anche quella (indiretta) dalla religione.
Quale religione e quale Dio?
Compito primario dell’autorità politica, oltre alla consapevolezza dei suoi doveri verso la religione, è di non mettere le religioni tutte sullo stesso piano, ma di valutarle alla luce della stessa ragione politica. Non è sufficiente aprire la politica all’ambito del religioso in genere, dato che ci sono religioni che contrastano con le esigenze della ragione politica da cui l’autorità politica dovrebbe farsi guidare. L’autorità politica dovrebbe quindi porsi il problema della religione vera.
A questo proposito la religione cattolica ha una sua pretesa. Nel famoso discorso al Parlamento Federale di Berlino, nel 2011, Benedetto XVI aveva detto che la religione cattolica non ha mai preteso di trasformare il Vangelo in legge civile, né ha voluto mai dare alla rivelazione un contenuto direttamente politico o giuridico. Essa piuttosto si è sempre rifatta al diritto naturale, chiedendo agli Stati il rispetto della legge di natura, quella che risulta anche alla ragione.
Benedetto XVI ha voluto dire che la politica non dovrebbe rapportarsi ad una religione integralista, che fa della rivelazione una legge civile, perché sarebbe la morte della politica trasformata in religione. Non dovrebbe nemmeno affidarsi ad una religione irrazionale, che non stabilisce nessun legame tra sé e la ragione politica. Dovrebbe affidarsi – per mortivi di ragione politica e non di fede – ad una religione che garantisse l’autonomia della politica fondata sul diritto naturale e, quindi, il legame (diretto) con la morale e quello (indiretto) con la religione vera.
E, in effetti, se guardiamo alla storia, la Chiesa ha sempre tenuto distinti tra loro il potere temprale e il potere spirituale, pur nelle svariate forme che questa distinzione ha assunto nelle diverse epoche. Ma non ha mai cessato anche di insegnare – e nemmeno oggi lo fa – che il potere politico finisce per impazzisce se non tiene saldi i rapporti con il potere religioso, quindi con la religione cattolica e la Chiesa, alle quali ricorrere nei momenti di smarrimento per recuperare il senso di sé, ossia la propria legittimazione.