Com’era prevedibile, il cinquecentenario della scoperta del Brasile ha rinnovellato le solite polemiche tardoilluministe sul «buon selvaggio» rousseauiano, che viveva felice e beato nella foresta pluviale prima che arrivasse l’uomo bianco.
di Rino Cammilleri
Qualcuno si è ricordato che da quelle parti si era svolto l’esperimento delle reducciònes gesuitiche, e Voltaire è stato riesumato paro paro da Montanelli nella sua «stanza» quotidiana sul Corsera. Per l’ennesima volta, alla faccia di un film di successo come Mission, la storia dell’«utopia» e dello «stato teocratico» sulla pelle dei poveri indios è stata ribadita quasi con gli stessi termini del Candide.
Franco Cardini ha avuto un rigurgito di bile su Avvenire. A ragione ha lamentato che sull’argomento, malgrado gli studi, ancora l’ignoranza regni sovrana: le reducciònes continuano a venire periodicamente vilipese dai mâitres à penser, ma mai narrate in dettaglio e spiegate. Così duecento anni sono passati invano e l’illuminismo (mai morto) seguita a vedere nel gesuitismo (moro, invece, da un pezzo) il suo peggior nemico.
Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza. La prima reducciòn (termine che si può tradurre, alla larga, con «riserva») è del 1576, lago Titicaca. Da qui partirono quelle che sarebbero diventate le missioni in Paraguay e del Paranà. Il cosiddetto «Stato dei gesuiti» era una zona compresa tra i fiumi Paraguay, Paranà e Uruguay: una trentina di reducciònes su un territorio più vasto dell’Italia.
Vi operarono, dal 1609 al 1767, 1565 gesuiti di ogni nazionalità, ventisei dei quali finirono uccisi. I missionari avevano lo scopo di tutti i missionari di ogni tempo, l’evangelizzazione. Ma prima si doveva salvare la pelle agli indios. Infatti, quella terra era proprio al confine tra l’area portoghese di dominio coloniale e quella spagnola, una zona in cui le leggi emanate dalle rispettive corone a protezione dei nativi erano tranquillamente disattese dai mamelucos, dai paulistas e dai bandeirantes creoli: razziatori di schiavi per le piantagioni e le miniere, contro i quali i gesuiti arrivarono ad armare gli indios e a inquadrarli militarmente per insegnare a difendersi.
Nel 1750 un trattato tra Spagna e Portogallo assegnò a quest’ultimo la parte più cospicua del territorio delle reducciònes, la cosiddetta «repubblica dei guarany». Cominciò una guerra vera e propria che impiegò una ventina d’anni per spazzare via lo «Stato gesuitico». Il Portogallo, governato da illuministi come il marchese di Pombal e ormai diventato una pedina inglese, espulse i gesuiti da tutto il suo impero.
La Compagnia di Gesù (che di li a poco sarebbe stata addirittura soppressa) si vide arrivare addosso spedizioni armate, alcune finanziate da quella «Compagnia del Maranhao» nelle cui azioni aveva investito denaro lo stesso Voltaire. La posta in gioco erano le braccia da lavoro – schiavistico – che quei «papisti» dei gesuiti volevano sottrarre alla moderna economia ormai guidata e dominata dall’Inghilterra. Ma non fu facile.
Alcuni dei padri gesuiti erano stati uomini d’armi, e sotto la loro guida gli indios si difesero coi denti. Già nel 1638 gli indios guarany erano in grado di produrre in proprio armi da fuoco. L’anno seguente il p. Diego de Alfaro li condusse alla vittoria a Caapaza Guazù contro un contingente di mamelucos . Nel 1641 una vera e propria battaglia campale si svolse al Rio Mbororé: l’armata guarany sconfisse cinquecento paulistas appoggiati da duemilacinquecento indios tupy, che furono accolti a cannonate.
Le reducciònes non erano affatto quei lager paternalistici che una storiografia superficiale e faziosa ancora oggi denigra. Un piano regolatore avanzatissimo disciplinava gli edifici, i magazzini, le scuole e i laboratori. Ogni famiglia aveva un suo privato appezzamento di terra da coltivare, l’abambaé («terra dell’indio»). Il lunedì e il sabato tutti partecipavano alla coltivazione del tuba-mbaé («terra di Dio»), il cui raccolto veniva redistribuito agli inabili.
I missionari insegnarono anche l’allevamento: nella sola reducciòn di San Iñigo Minì, l’inventario del 1768 (redatto da quelli che avevano scacciato i gesuiti) contò oltre cinquantamila capi di bestiame. Ogni villaggio era autoamministrato da un consiglio municipale, ed aveva un proprio tribunale. Il sistema era democratico e prevedeva periodiche elezioni.
In ogni reducciòn stavano non più di due gesuiti. Gli indios tolti in tal modo alla fame al nomadismo furono moltissimi: le reducciònes arrivarono a contare centocinquantamila abitanti. Con la cacciata dei gesuiti, nel 1768, si ridussero ai quarantamila del 1802. Naturalmente tutta la loro agricoltura, l’allevamento e l’artigianato andarono subito in malora.
E dire che dalle reducciònes uscivano perfino libri a stampa, merletti, orologi, strumenti musicali. Soprattutto questi ultimi, dal momento che gli indios si dimostrarono prestissimo in grado di eseguire anche le più difficili partiture per organo (qualcuno parlò, anzi, dello «Stato musicale dei gesuiti»). Infatti ebbero come maestro Domenico Zipoli, il celebre musicista toscano fattosi gesuita.
Prima della civilizzazione importata dai gesuiti, gli indios vivevano allo stato paleolitico, spesso condotti dai loro sciamani in disperati esodi di massa verso una mitica Terra-senza-il-mare (Ywu-mara-ey) che nessuno trovava mai, ma che implicava la morte per strada della gran parte di loro. Le guerre tribali erano continue e incessanti; in ogni istante il villaggio di capanne poteva venire attaccato e gli abitanti sterminati. I sopravvissuti erano messi all’ingrasso per poi finire mangiati ritualmente.
Abbiamo detto «villaggio»: in realtà si trattava di un unico grande tugurio di paglia cui si ammassavano in assoluta promiscuità anche duecento indios, controllati da un cacique e fanatizzati da un payé (stregone), i quali avevano diritto ad un harem. Nel XVI secolo arrivarono i gesuiti, e quei miserabili selvaggi entrarono nella civiltà. E ci rimasero finché i philosiphes, in nome del «libero mercato», non li ricacciarono nella barbarie.
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