C’è un’etica nel profitto? Non è una provocazione: per Giorgio Mion, docente di Economia aziendale all’Università di Verona, questi due concetti possono convivere, eccome. È il punto caldo attorno a cui si snoda “Verso il metaprofit. Gratuità e profitto nella gestione d’impresa” presentato la scorsa settimana al Savoia Excelsior nell’incontro organizzato dall’Unione cristiana imprenditori e dirigenti di Trieste.
Uno studio realizzato da Mion e Cristian Loza Adaui che può trovare immediata attualità nelle contingenze odierne, se è vero che la crisi sistemica fa vacillare i “vecchi” punti fermi e invita a ripensare la realtà da nuove prospettive.
Ugualmente, nelle teorie neo-liberiste come quella di Milton Friedman, l’unico obiettivo che guida il manager è massimizzare il profitto». Un concetto che si ritrova sempre connotato, che manca di neutralità e che sta a indicare il guadagno, l’arricchimento pecuniario. Un’accezione riduttiva per gli autori che suggeriscono di considerarlo il presupposto necessario allo sviluppo, un bene non individuale ma collettivo: «Il profitto è la parte di raccolto che serve per la semina successiva. In questo modo può esser superata la dimensione conflittuale ed esserci comunione d’interessi fra l’impresa e l’ambiente, la comunità sociale, i lavoratori» rileva Mion.
Un punto su cui è convenuto il segretario della Cisl Trieste Luciano Bordin, intervenuto all’incontro: «Il profitto deve esser legato all’investimento e l’investimento allo sviluppo. La scelta della Cisl sul caso Fiat ha questo significato».
Profitto è un concetto conflittuale di per sé, ma sta anche alla base della tassonomia che scinde tra l’universo delle imprese non-profit e quello delle imprese profit. «Ci pare che non si possa più ragionare solo in termini di un mondo buono, non-profit, e di quello profit degli individualismi. C’è una fenomenologia molto più vasta e frastagliata ed è pensando a essa che abbiamo formulato l’idea di metaprofit» nota Mion.
Una fenomenologia citata dal Papa nell’Enciclica Caritas Veritate, in cui la pluralità di forme aziendali viene indicata come soluzione innovativa per lo sviluppo economico. «È stata colta la sfida espressa nell’Enciclica – evidenzia Monsignor Crepaldi -. Il Papa ci dice che l’approccio che abbiamo adottato finora è ormai superato e che c’è un’altra realtà, al di là di quella delle imprese profit e non-profit, su cui è necessaria una riflessione. Gli autori hanno colto un’istanza di carattere morale è l’hanno articolata con una rigorosa impostazione scientifica».
Un’argomentazione sviluppata seguendo un filo rosso, quello dei principi indicati dalla Dottrina Sociale della Chiesa «molto più calata nella realtà di alcune teorie economiche, spesso insufficienti a comprendere nella loro complessità gli stessi fenomeni economici». Chiarisce Mion. «L’economia come unità di misura delle dinamiche economiche non funziona – aggiunge l’imprenditore Nicola Pangher, TBS Group -.
Il rapporto numerico del bilancio è il frutto di rapporti umani complessi. È indispensabile uscire da questa visione, riconoscere l’umanità delle persone e valorizzare i loro talenti e il loro contributo». Il vulnus della pura economia sta, pertanto, nell’incapacità di aprirsi alla dimensione antropologica e di cogliere il perché dell’agire umano.
«Un’autoreferenzialità economica tutta chiusa in se stessa che non tiene conto di questioni di più ampio respiro può creare enormi problemi – conclude Monsignor Crepaldi -. Ed è qui che interviene l’etica, la scienza che risponde alle domande sulla ricerca di senso».