di Massimo Introvigne
Gli Stati Uniti sono il Paese del mondo dove la Chiesa Cattolica è stata più colpita dalla tragedia dei preti pedofili. Sono anche il Paese dove questa tragedia è meglio conosciuta grazie alla storica decisione dei vescovi americani di affidare a uno dei più autorevoli istituti accademici di criminologia del mondo, il John Jay College della City University of New York, il maggiore studio sul tema mai realizzato su scala internazionale. La City University of New York non è un’università cattolica ed è anzi un tempio del «politicamente corretto». I vescovi americani – non da soli – hanno finanziato lo studio, ma non ne hanno in alcun modo influenzato i risultati.
Lo studio, come sempre accade in questi casi, va letto tutto, mentre già molte agenzie di stampa hanno battuto i loro comunicati dando rilievo soltanto a cinque righe – peraltro capite male – che sembrerebbero escludere ogni correlazione tra crisi dei preti pedofili e omosessualità. Lo scopo del rapporto del 2011 è quello – dopo avere presentato nel 2004 dati accurati per rispondere alla domanda su «quanti» preti hanno abusato di minori – di affrontare la questione, ancora più difficile, del «perché» lo hanno fatto.
Il nuovo studio inizia riepilogando e aggiornando i dati quantitativi, che a sette anni dal rapporto del 2004 – di cui si troverà una sintesi nel mio libro Preti pedofili (San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2010) – rimangono ancora poco conosciuti, specie in Italia. Lo studio del 2004 riferiva che nell’arco dei cinquantadue anni dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti americani su circa 109.000 che avevano esercitato il ministero, cioè il 4%, erano stati accusati di rapporti sessuali con minori.
Accusati, naturalmente, non significa condannati: a una condanna penale si era arrivati in meno di metà dei casi, in qualche caso forse per l’abilità degli avvocati o la prescrizione ma in altri perché gli accusati erano effettivamente innocenti.
Il testo del 2011 insiste su un punto già sottolineato nel 2004: questi numeri non si riferiscono a «preti pedofili». Esiste una definizione medica della pedofilia, che si riferisce a rapporti con minori che non hanno raggiunto la pubertà. Ci viene ora ripetuto che l’80% delle vittime nelle accuse di abuso avevano superato la pubertà, e – dal momento che i veri pedofili tendono ad avere vittime multiple – a «meno del cinque per cento» (p. 3) dei preti accusati può essere imputato un comportamento «pedofilo». Se un sacerdote ha rapporti sessuali con una sedicenne – o con un sedicenne – si comporta certamente molto male, ma non si tratta di pedofilia.
Altri due dati quantitativi molto importanti sono richiamati dal rapporto. Il primo è che l’impressione che i media danno secondo cui i preti cattolici sono una categoria «a rischio» per quanto riguarda la pedofilia è falsa.
Dopo avere osservato che nessun’altra istituzione ha aperto i suoi archivi e favorito ricerche così precise come quelle che negli Stati Uniti hanno interessato la Chiesa Cattolica, il rapporto passa in rassegna le comunità protestanti, i Testimoni di Geova, i mormoni, gli ebrei, e ancora le scuole pubbliche, le società sportive giovanili, i boy scout e conclude che – benché i dati limitati non permettano conclusioni certe – tutti gli elementi parziali che emergono sembrano indicare almeno che in tutti questi ambienti il rischio di abusi di minori non è più basso rispetto alle parrocchie e alle scuole cattoliche.
Se poi si passa a un dato di carattere generale, si nota che negli Stati Uniti 246 minori ogni centomila sono vittima di abusi sessuali. Non è possibile sapere quanti minori «vengono in contatto» con preti cattolici, ma se prendiamo come riferimento i cresimati possiamo concludere che vittime di abusi in ambienti cattolici sono quindici minori ogni centomila. Detto in altre parole, le parrocchie e le scuole cattoliche purtroppo ospitano anche loro dei «pedofili» ma sono un ambiente sedici volte più sicuro rispetto alla società in genere.
Un altro dato, confermato dagli aggiornamenti 2003-2005 e ora 2006-2009 dei dati del rapporto del 2004, è che il numero di abusi di minori da parte di sacerdoti cattolici diminuisce di anno in anno in modo davvero molto significativo. Il primo grafico del rapporto (p. 8) mostra un picco all’inizio degli anni 1980 e una discesa che diventa rapidissima negli ultimi anni fino ad arrivare a livelli oggi perfino inferiori rispetto all’inizio degli anni 1950.
Per capire perché non è questa l’impressione che ha l’opinione pubblica occorre consultare il secondo grafico (p. 9), il quale mostra che – mentre gli abusi diminuiscono – le notizie relative ad abusi aumentano e raggiungono la quota massima nel 2002, l’anno della devastante inchiesta del quotidiano Boston Globe che secondo il rapporto dà inizio alla fase più acuta della crisi.
Si tratta sia di un maggiore interesse giornalistico, sia del fatto che i tribunali ricevono nuove denunce da parte di studi legali specializzati (e milionari) che riesumano casi, veri o presunti, di venti o trent’anni prima. «Nel 2002 – riferisce il rapporto, citando l’anno record – le denunce di abusi sono state fatte nella maggior parte dei casi da vittime adulte o dai loro avvocati da venti a quarant’anni dopo che l’abuso si era verificato».
Dunque, per quanto le denunce e le inchieste giornalistiche aumentino, i casi diminuiscono, il che dimostra che le misure di prevenzione adottate dopo l’arrivo a Roma del cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 1981, funzionano. Il rapporto le passa ampiamente in rassegna, dando atto dell’efficacia delle misure – che sarebbero state prese peraltro rispetto ai primi scandali con qualche ritardo, a proposito del quale il testo ricorda le critiche di alcuni sacerdoti statunitensi al beato Giovanni Paolo II (1920-2005) – e proponendo due critiche.
La prima è che, se la maggioranza dei vescovi si è adeguata alle prescrizioni di Roma e della Conferenza Episcopale, ci sono stati alcuni vescovi «ritardatari» e «i media si sono spesso concentrati sui ritardatari, benché questi fossero soltanto una minoranza dei capi delle diocesi, perpetuando così l’immagine di vescovi che nel loro insieme non stavano rispondendo al problema dell’abuso sessuale dei minori» (p. 119).
La seconda critica è che la Chiesa Cattolica, mentre si occupava energicamente del problema, non sempre comunicava in modo adeguato con l’esterno. Sì, «la Chiesa ha risposto alla crisi e, come risultato, si è verificato un sostanziale decremento nel numero dei casi di abuso sessuale» (p. 122). Ma non è sempre riuscita a farlo sapere all’opinione pubblica.
I dati quantitativi formano la base per impostare la risposta al quesito sul come sia stato possibile che un numero – più piccolo di quanto molti pensano, ma comunque non irrilevante – di sacerdoti cattolici statunitensi si sia reso colpevole di abusi sessuali di minori. Il rapporto esamina anzitutto la tesi più diffusa in quelli che chiama «media popolari» (p. 34), notando come sorprendentemente abbia ricevuto «sostegno da diversi commentatori più seri» (ibid.): quella che lega gli abusi sui minori al celibato.
Ma, osserva lo studio, «è un’ovvia osservazione statistica che la maggioranza degli abusi sessuali su minori sono commessi da uomini che non sono celibatari» (p. 35): pastori protestanti, maestri di scuola, allenatori di squadre giovanili, e anche padri di famiglia che abusano dei figli ovviamente non hanno fatto promesse di celibato.
A questo dato comune negli studi sociologici – ma che sembra tenacemente sfuggire alla stampa popolare e anche a qualche ecclesiastico – il rapporto aggiunge che il celibato tra i preti cattolici c’era negli anni 1950 e 1960, è rimasto negli anni 1970 e 1980, e c’è ancora oggi.
Dal momento però che gli abusi su minori sono relativamente rari negli anni 1950 e 1960, esplodono negli anni 1970 e 1980, diminuiscono negli anni 1990 e diventano di nuovo rari negli anni 2000 ci dev’essere una variabile diversa dal celibato che spiega questo andamento.
Venendo all’unico punto del rapporto del 2011 che ha subito attirato l’attenzione della stampa internazionale, posto che la «colpa» non è del celibato, può darsi che sia della tolleranza dell’omosessualità nei seminari cattolici a partire da una certa data?
Qui gli autori del rapporto si sono trovati in qualche difficoltà, perché contro il loro studio del 2004 – il quale documentava che l’ottanta per cento dei sacerdoti che abusano di minori hanno come vittime ragazzi e non ragazze – avevano protestato a gran voce le organizzazioni omosessuali. Questa volta confermano il dato – secondo cui l’80,3% degli abusi sono di natura omosessuale (p. 104) – ma invitano a distinguere fra identità e comportamento.
«Quello che non si capisce bene – scrivono – è che è possibile per una persona partecipare in un atto con una persona dello stesso sesso senza assumere o riconoscersi un’identità omosessuale. Più di tre quarti degli atti di abuso sessuale di giovani da parte di preti cattolici, come abbiamo mostrato nello studio del 2004, sono atti tra persone dello stesso sesso (preti che abusano di vittime di sesso maschile).
Ma è possibile che, benché le vittime di questi preti siano state nella maggior parte dei casi maschi, così definendo gli atti come omosessuali, il sacerdote non abbia mai riconosciuto la sua identità come omosessuale» (p. 36).
Quanto ai sacerdoti sia arrivati in seminario, sia usciti dai seminari come omosessuali – le due categorie non coincidono –, secondo il rapporto statisticamente «sono più a rischio [degli eterosessuali] di avere rapporti sessuali dopo l’ordinazione» (p. 62), ma nella maggior parte dei casi avranno rapporti con adulti e non con minori.
Dunque, nessuna marcia indietro rispetto al 2004. Quando il rapporto del 2011 afferma che «i dati clinici non sostengono la conclusione […] che l’identità omosessuale è legata all’abuso sessuale di minori» (p. 74), questa affermazione – che certo vuole anche gettare acqua sul fuoco rispetto alle critiche al rapporto precedente – si riferisce appunto all’identità, mentre il legame fra gli abusi e «atti» o «comportamenti» omosessuali è confermato, né – i numeri essendo quelli che sono – sarebbe stato possibile il contrario.
Dove però il rapporto dice qualcosa di nuovo è quando nega che le subculture omosessuali che si sono sviluppate nei seminari negli anni 1980 – e sono state stroncate, almeno in parte, negli anni 2000 – abbiano a che fare con gli abusi di minori. Non che queste subculture non ci siano state: ma quando hanno raggiunto la loro più grande diffusione la maggior parte di sacerdoti responsabili di abusi era già stata ordinata. Le subculture omosessuali nei seminari e l’abuso di minori sono fenomeni paralleli, non successivi. L’uno non è causa dell’altro e devono piuttosto avere le stesse cause.
Quali cause? Fenomeni complessi non hanno mai una causa sola, insiste il rapporto. C’è stata una ridotta efficienza del diritto canonico, che non si aspettava una crisi di queste proporzioni. La controprova è che, migliorata la normativa canonica, gli abusi sono diminuiti.
C’è stata una scarsa attenzione alla formazione del clero sui temi della sessualità, dell’amore e del matrimonio: è significativo che il rapporto citi al riguardo il Magistero del beato Giovanni Paolo II e colleghi i risultati ottenuti nella lotta agli abusi alla maggiore riflessione, ispirata appunto dal Magistero, sul corpo e la sessualità nei seminari, un tema caro anche a Benedetto XVI.
La singola causa principale è però per il rapporto la crisi morale generale che ha colpito gli Stati Uniti negli anni 1960, «the Sixties» in America e «il 1968» in Europa. La pillola anticoncezionale, la legalizzazione dell’aborto, la cultura consumistica hanno determinato un’autentica rivoluzione nel comportamento sessuale, con conseguenze precedentemente inimmaginabili in tutti i settori della società.
Alcuni si sono spinti fino alla giustificazione teorica, o almeno alla ricerca di ampie scusanti, per i rapporti sessuali con i minori. Nella stessa Chiesa Cattolica tra i «postumi del Vaticano II» (p. 7) c’è la penetrazione all’interno del clero e dei seminari di una mentalità influenzata dalla rivoluzione sessuale, anche se questa rivoluzione riguarda la società nel suo insieme e non solo la Chiesa Cattolica.
Qui, senza mai citarla esplicitamente, il rapporto arriva alle stesse conclusioni della Lettera ai cattolici dell’Irlanda di Benedetto XVI, del 19 marzo 2010, che identificava nel «rapidissimo cambiamento sociale», nel venire meno della «tradizionale adesione del popolo agli insegnamenti e ai valori cattolici», e nel fatto che all’interno della Chiesa «il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte frainteso», il «contesto generale» all’interno del quale «dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi».
Per quanto il rapporto del 2011 del John Jay College inserisca qualche clausola che omaggia lo stile politicamente corretto, e le obbligatorie critiche per i ritardi della Chiesa, i dati che offre confermano sia l’analisi di Benedetto XVI sia che le misure offerte dal Papa alla Chiesa vanno nella giusta direzione.
Il rapporto, naturalmente, propone un’analisi che rimane nel mero ambito delle scienze umane e come tale non può tenere conto della dimensione ulteriore che il Papa non cessa di segnalare: la crisi, che è causa per Benedetto XVI di profondo dolore e vergogna e dove nessuna statistica può valere a scusare la gravissima responsabilità dei colpevoli, ha anzitutto cause spirituali, e deriva ultimamente dal venire meno della fede, della preghiera, della consapevolezza dell’altissima responsabilità del sacerdozio in contesti purtroppo più vasti di quello dei pochi preti davvero pedofili. Per quanto utili siano gli studi e i dati sociologici, anche i rimedi dovranno includere necessariamente una dimensione spirituale.