rivista telematica di politica e cultura
n. 1 – aprile 2000, Anno X, fasc. 28
di Julienne Travers*
Il dibattito parlamentare sulla procreazione assistita non ha certamente contribuito molto ad una maggiore consapevolezza. Più che altro ha suscitato tra i vari membri parlamentari una polemica intorno all’identità del “donatore” e alla provenienza della sperma, con cattolici e laici impegnati su sponde diverse, ma stranamente alcuni aspetti molto inquietanti di questa nuova tecnologia sono stati, invece, praticamente ignorati. Perché hanno avuto così poco risonanza alcune questioni riguardanti una tecnologia – la fertilizzazione in vitreo – che dopotutto è destinata ad avere delle implicazioni sconvolgenti sia per il nostro concetto storico della procreazione sia per il corpo e per la salute della donna che si sottopone ad essa?
Con la fertilizzazione in vitreo la donna subisce una serie di pratiche invasive e dolorose, potenzialmente dannose per la sua salute, in cui alcune fasi fondamentali nella procreazione della vita umana vengono artificialmente riprodotte al di fuori del suo corpo. Dove la procreazione assista è in uso da parecchi anni (negli Stati Uniti, per esempio, da 20 anni), questa tecnologia riproduttiva ha già scatenato una forte reazione tra molte femministe, insieme a vari uomini impegnati nei movimenti civici, ecologisti e culturali.
In Italia i rischi da loro denunciati vengono sintetizzati in parte da un appello intitolato Un’occasione perduta (1), scritto da donne che si firmano genetiste e intellettuali. Il documento ci obbliga a riflettere su alcuni “punti scottanti”, come vengono chiamati, tra cui ci sono due in particolare che andrebbero approfonditi se vogliamo capire meglio l’origine e le possibili conseguenze di questa nuova biotecnologia.
Un intreccio di interessi
Il primo punto riguarda quello che le firmatarie chiamano “gli interessi economici della classe medica e dell’industria farmaceutica e biotecnologica”, interessi che, secondo loro, possono confondersi con il desiderio di maternità, con il rischio che le donne (e anche gli uomini) “diventino oggetto di sperimentazioni selvagge”.
Il secondo è quello della possibilità “di controllare le caratteristiche degli ovuli, gli spermatozoi e gli embrioni, agendo sul patrimonio genetico”, ossia il pericolo di introdurre “il fantasma del figlio perfetto” e un ritorno ai “rischi di deriva eugenetica”.
In pratica si può dire che le due questioni sono strettamente intrecciate. Le grandi compagnie multinazionali che operano nel campo della biotecnologia sarebbero fortemente interessate nella maggiore diffusione delle tecnologie per la procreazione assistita perché queste tecnologie possono fornire i materiali – ovuli, spermatozoi ed embrioni – per la manipolazione genetica, vale a dire per la sperimentazione nel campo della medicina e nella ricerca per “migliorare” il patrimonio genetico delle persone (2).
Come diceva uno studioso di science policy negli Stati Uniti, nel lontano 1988, “Una volta che si perfeziona la tecnologia per far maturare gli ovuli [la tecnologia usata in una delle fasi della procreazione assistita], gli embrioni umani diventeranno disponibili per la ricerca. La mancanza attuale [cioè nel 1988] della materia grezza – ovuli e embrioni – è un ostacolo per la ricerca molto più grosso di quello rappresentato da una possibile legge contraria. I ricercatori diventeranno molto più insistenti sul loro diritto di sperimentare su questi ovuli e embrioni.” (3)
Questi interessi dell’industria biotecnologica si concretizzano, in termini monetari, nel diritto di brevettare le scoperte biotecnologiche. La concessione di brevetti sui geni, sulle linee cellulari, sui tessuti e sugli organi e organismi sottoposti a manipolazione genetica significa che siamo in presenza di “un’industria genetica emergente che compra e vende i materiali costitutivi della vita (4)”.
In altre parole, quello che viene chiamato il nuovo secolo biotecnologico, o il secolo del biopotere, potrà diventare anche il secolo della corsa per la proprietà delle scoperte biotecnologiche, perché attraverso queste scoperte ci saranno profitti enormi, impensabili. (Il fatturato di prodotti biotecnologici nel campo dell’agroalimentare e zootecnica, della salute e dell’ambiente ammontava già qualche anno fa a 14.000 miliardi di dollari (5).)
Una “emergenza” sospetta
L’importanza della procreazione assistita per l’industria biotecnologica non si limita, però, ai profitti che si possono ricavare dalla pratica di questa tecnologia e da eventuali brevetti per le scoperte risultanti dalla manipolazione genetica dei gameti e degli embrioni. L’importanza della procreazione assistita deriva anche dal suo potenziale per abbattere le barriere psicologiche e sociali contro la manipolazione genetica in genere nel campo della medicina, come nei campi agroalimentare e zootecnico (cioè la manipolazione transgenica di quello che mangiamo, sia le piante che gli animali ).
L’esistenza di queste barriere da parte della gente comune trapela dalle parole dure del direttore del “Centro per lo studio dell’evoluzione e dell’origine della vita” dell’Università di California, che così ammonisce: “I vantaggi che la farmaceutica può trarre dall’ingegneria genetica sono troppo grandi per lasciare che paure confuse decidano del suo futuro”. Altri scienziati sostengono che qualunque confine sarebbe ingiusto e che qualunque miglioramento è etico ed imperativo: il miglioramento genetico, dicono, è una componente del progresso sociale (6).
E’ ovvio che la protesta, temuta da alcuni scienziati, viene smorzata se si accetta di modificare geneticamente la procreazione – ossia il momento fondamentale della vita, che tocca profondi livelli della coscienza umana. In sintesi, si potrebbe dire: se nel nome di “aiutare” le donne, tutto viene accettato acriticamente e senza la piena consapevolezza del significato di queste tecnologie e del loro impatto sulle singole donne e sulla società intera, sarà psicologicamente e moralmente più facile far passare in silenzio, o quasi, anche altre forme di manipolazione, con il fine di farci diventare consumatori di cibi e di medicine che rappresentano rischi di cui siamo ignari.
L’accettazione della procreazione assistita diventa un mezzo di propaganda per la “bontà” delle biotecnologie, nello stesso modo che abbiamo già visto usati gli esperimenti nel campo delle patologie per propagandare “i miracoli della scienza genetica”. (La clonazione degli embrioni, per esempio, viene chiamata “clonazione terapeutica” ossia “un uso dell’embrione a scopo terapeutico” per produrre le cellule dell’osso, nervose, ecc., con l’obbiettivo, si dice, di rimediare anche alle varie malattie della vecchiaia visto che “andiamo verso l’invecchiamento della popolazione e abbiamo bisogno di trovare delle nuove cure per la vecchiaia” (7).)
Infatti, tre aspetti della procreazione assistita suscitano forti sospetti che c’è qualcos’altro, qualcosa che va oltre la volontà dichiarata di “assistere” le donne sofferenti perché incapaci di procreare.
In primo luogo c’è, come dice il documento Un’occasione perduta, “la relativa rarità dei casi di comprovata sterilità di natura organica”. Anche se nel mondo della medicina la sterilità viene definita in modo palesemente strumentale – cioè viene dichiarata dopo solo un anno o due di rapporti non protetti e addirittura “nella pratica medica corrente gli accertamenti vengono iniziati dopo solo sei mesi”(8) – tuttavia le stime sulla sterilità riguardano una bassissima percentuale della popolazione.
In America, per esempio, le persone in coppie definite “sterili” rappresentano meno di 2% della popolazione, e quindi le donne “sterili” sono meno di 1% della popolazione(9) (e ancora meno se ricordiamo che circa 40% dei casi di “sterilità” è dovuto al maschio della coppia). Due domande allora sorgono. Perché il mondo scientifico ha deciso di definire la sterilità in termini così irreali? E perché la sterilità viene rappresentata come una grave questione sociale?
In secondo luogo c’è il fatto che, malgrado la bassa percentuale dei casi di sterilità – che sarebbe ovviamente molto più basso con una definizione di sterilità più veritiera – ingenti somme di denaro pubblico sono stati destinati ad una tecnologia che, tra l’altro, è poco efficace se soltanto il 14%, o poco di più, delle donne che subiscono le varie fasi della procreazione assistita riescono a portare a termine la gravidanza con un parto riuscito(10).
In terzo luogo c’è una mancata ricerca sulle cause della sterilità. In Canada, per esempio, 3.5 milioni di dollari (circa 7 miliardi di lire) sono stati stanziati per la procreazione assistita (11), ma soltanto 400.000 di dollari – l 11% del totale – per la ricerca sulle cause della sterilità (12). E qui abbiamo un’altra stranezza nel campo delle tecnologie per la procreazione assistita. Perché così poco denaro è stato destinato alla ricerca sulle cause della sterilità? (13) E perché prima della pratica della fertilizzazione in vitreo, la sterilità era di pochissima importanza per il mondo scientifico (14)?
Le risposte a tutte queste domande non possono prescindere dal fatto che, se è vero che il mondo della scienza e della medicina – sotto il controllo crescente delle multinazionali – ha bisogno della materia grezza per i suoi esperimenti, “l’emergenza sterilità” potrebbe risolvere i loro problemi.
Con una campagna allarmistica e strumentale (come già avviene negli Stati Uniti (15) ) la donna sarà sempre più disposta a considerarsi “a rischio” di sterilità e a sottoporsi a pratiche che producono artificialmente un numero di ovuli e di embrioni non utilizzabili da lei che possono finire nelle mani degli sperimentatori. E non si tratta di un fantomatico, solitario Frankenstein nel suo malefico laboratorio, ma di multinazionali che brevettano parti costituivi della vita umana per ottenere profitti giganteschi.
C’è anche da ricordare che l’Occidente è luogo di influssi immigratori dal Terzo Mondo, incoraggiati anche perché costituiscono una fonte di lavoro a basso prezzo e poco capace di difendersi. Ma si sa che le immigrate, in genere isolate culturalmente, fanno meno uso dei mezzi per controllare la nascita, con la possibilità che si creino degli “squilibri” demografici, che forse non fanno parte del disegno dei “poteri forti”. Sicuramente “l’allarme sterilità” non è diretto a queste donne, visto il costo della fertilizzazione artificiale in vitreo (intorno a 15 milioni di lire) nelle cliniche private, come sicuramente non è diretto alle donne nel Terzo Mondo, dove l’Occidente incoraggia la sterilizzazione, non certo la procreazione assistita.
Quindi la campagna per la procreazione assistita sembra diretta alle donne bianche della classe media come una forte pressione per fare più figli. Tanto è vero che in America si parla addirittura di “sterilità secondaria” per donne che hanno un solo figlio, e quindi la definizione, sterilità = un anno di rapporti non protetti senza una gravidanza, vale anche per loro!
Eugenetica strisciante
Dietro tutto questo c’è, come abbiamo detto, l’ombra di concetti screditati del passato come l’eugenetica, sia nel caso delle attuali, nuove tecnologie di procreazione assistita – come i test prenatali – sia nel caso di quelle all’orizzonte, come la manipolazione dei geni prima di impiantare gli embrioni nell’utero (16). Una volta prodotte artificialmente e poi esteriorizzate le diverse funzioni -la maturazione artificiale degli ovuli, la loro raccolta e fertilizzazione, ecc. – si avranno i mezzi per “migliorare” questi ovuli e questi embrioni (17).
Il pericolo viene spiegato da uno studioso americano: “L’affermazione ‘io desidero ciò che sarà meglio per il mio bambino’ si sta trasformando con grande facilità nella domanda per una versione medicalizzata di ciò che è ‘il meglio’…il discorso attuale in America sulla gravidanza e sul parto incorpora già elementi dell’eugenetica e del linguaggio del mercato” (18) . Questa critica molto forte sembra acquistare ancora più attendibilità alla luce delle parole di un premio Nobel per l’effetto della radiazione nucleare sui geni (Muller): secondo lui la tecnologia per la sterilità offre “un’occasione ottima per praticare la ‘selezione positiva’, perché le coppie accettano facilmente il discorso sulla nascita di bambini dotati delle migliori qualità possibili” (19). Siamo in presenza di una “eugenetica strisciante” dice Vandana Shiva (20), indiana e leader del movimento ecologista “terzomondista”.
Naturalmente uno degli aspetti più allarmanti del ritorno all’ideologia eugenetica è lo stesso dei tempi del nazismo: chi è che decide cosa è “il meglio” e in base a quali criteri soggettivi? In un mondo che manifesta ancora forti tendenze di sessismo, di razzismo, un mondo ancora radicato su una divisione paurosa tra poveri e ricchi, come si sceglierà “il meglio” e chi avrà il privilegio -se privilegio è – di accedere a questo “meglio”? Come osserva una delle donne più attive in questi anni nell’indagare sulle conseguenze delle biotecnologie, “L’ideologia dell’eugenetica fornirà i criteri per quello che sarà definito ‘sano’ o ‘difettoso’ (21)”. Ci sono già scienziati che parlano della fine di “difetti genetici” e di “comportamenti non desiderati” come l’uso della droga, l’aggressione, i denti del giudizio, ecc. (22)
Se molte persone capiscono ormai che nessuna tecnologia è neutrale, che la tecnologia è soggetta anche essa a questioni di genere, di razza, di classe, cioè “è essa stessa un prodotto delle forze politiche … il risultato di una serie di specifiche decisioni fatte da specifici gruppi di persone in base alle loro interessi” (23), cosa possiamo aspettarci da un futuro in cui l’eugenetica si afferma? Un futuro in cui le differenze tra individui vengono ridotte ai loro codici del Dna e le differenze comportamentali e fisiologiche, i malesseri, sono considerate di origine genetica? (24).
Decidono in silenzio
Infine c’è la questione del controllo sulle decisioni che riguardano una delle sfere più importanti nella vita degli individui e della società. Come dice un noto teorico della politica, la privatizzazione delle applicazioni di tutte le biotecnologie porta ad una rivoluzione nel controllo sociale, ossia ad un trasferimento di potere dai governi alle compagnie multinazionali, in un mondo dove esistono, senza alcuna regolamentazione, i cosiddetti mercati liberi, e dove l’incentivo economico è vincitore sulle regole sociali (25). Una giornalista italiana, Sabina Morandi, puntualizza: “[c’è] una precisa scelta di marketing da parte delle grandi Corporations [le multinazionali] della biotecnologia basata in buona parte sul silenzio” (26).
Questa tesi è pienamente confermata dal direttore del Centro per la bioetica dell’università di Pennsylvania che avverte che “la strategia più semplice … per avere il consenso di acquistare le conoscenze senza intralci” sarà di “negare semplicemente che sia in calendario a breve qualsiasi applicazione delle nuove scoperte genetiche, e sostenere che quelle scoperte non saranno usate se oggetto di controversia” (27).
Nel caso della clonazione degli embrioni, per esempio, è stato detto: “La questione non è l’applicazione, ma la ricerca. Il mondo della ricerca non può essere bloccato”. E sottolineando che c’è “un’analfabetismo scientifico terribile” (28) va da sé che le decisioni vanno lasciate a chi non è “analfabeta”. Allora, come afferma Sabina Morandi, “già parlare di questi argomenti significa imprimere una spinta decisiva verso il controllo sociale nelle decisioni che riguardano la scienza, un controllo impossibile se si è privi di informazione” (29).
Per concludere con una dichiarazione di Varda Burstyn, una femminista americana: “O prendiamo in mano il controllo dello sviluppo e dell’applicazione di queste tecnologie in modo consapevole e sociale o – volente o nolente – la loro proliferazione creerà dei cambiamenti de facto nei rapporti riproduttivi e nei valori sociali”(30).
Note
(1) “Un’occasione perduta”, in Il Paese delle Donne, n.6, 26 febbraio 1999
(2) Judy Wadcman, Power and Decision: The Social Construction of Reproductive Technology, 1994, Harvard School of Public Health e Jeremy Rifkin, “Il secolo biotecnologico”, Internazionale, 229, 24 aprile 1998