L’atmosfera contiene, già di suo, 3 milioni di megatonnellate di Co2; l’intervento dell’uomo consiste nell’immissione annua di 6 mila megatonnellate in più, metà provenienti dai Paesi industrializzati e metà da quelli in via di sviluppo; il Protocollo di Kyoto prevede che i Paesi industrializzati riducano le proprie emissioni del 5%, il che significa immettere 5.850 anziché 6.000 megatonnellate
di Anna Bono
Il riscaldamento del pianeta è infatti al centro delle relazioni finora presentate e discusse, un fenomeno dato per certo e di cui si prevede altrettanto sicuramente un’accelerazione con gravi conseguenze in particolare per l’Africa dove, secondo l’ultimo rapporto del Wwf, la temperatura è già cresciuta di 0,7 gradi centigradi nel XX secolo e potrebbe salire di 0,2-0,5 gradi ogni 10 anni a partire da questo decennio.
Benché contribuiscano meno di tutti all’emissione dei gas serra ritenuti responsabili dell’innalzamento della temperatura mondiale, gli africani ne saranno i più colpiti: entro il 2025 la scarsità d’acqua potrebbe minacciare la vita di 280 milioni di persone e nel 2080, invece, le alluvioni potrebbero costringere 70 milioni di africani, per lo più residenti in aree rurali e dediti ad attività agricole, a emigrare.
L’Unep, Programma Onu per l’ambiente, ritiene che molto probabilmente per quella data dal 25 al 40% delle specie animali e vegetali perderanno il loro habitat e l’innalzamento del livello degli oceani distruggerà il 30% delle coste, portandosi via tra l’altro Shela, l’antica città swahili dell’arcipelago di Lamu situato nell’Oceano Indiano al largo delle coste del Kenya, che è stata proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Aggiungendosi ai problemi causati dalla pressione demografica e dal degrado delle risorse naturali – questa è la conclusione dell’Istituto internazionale di ricerca sulla zootecnia – i cambiamenti climatici rischiano di azzerare i progressi compiuti nella lotta alla povertà e di impedire la realizzazione degli obiettivi del Millenium Goals, il programma dell’Onu per dimezzare la povertà entro il 2015.
Secondo un economista britannico, Nicholas Stern, a livello mondiale si può quantificare il costo economico del riscaldamento terrestre nella cifra astronomica di 5,5 milioni di miliardi di euro, senza contare gli incalcolabili effetti negativi, sociali e culturali, di una simile catastrofe. Il meglio che l’umanità è riuscita a escogitare per contrastare l’aumento della temperatura è il Protocollo di Kyoto, che impone ai 35 Paesi più industrializzati di ridurre del 5% entro il 2012 – anno di scadenza del piano di contenimento – il loro livello di emissione dei cosiddetti «gas serra».
Il fatto preoccupante è che proprio alcuni dei maggiori produttori di diossido di carbonio, tra i quali Stati Uniti, Cina, India e Australia, hanno rifiutato di ratificare il Protocollo, compromettendone l’efficacia. Difatti, stando all’Organizzazione meteorologica mondiale, nel 2005 la concentrazione di «gas serra» ha raggiunto un livello record, che potrebbe essere presto ulteriormente superato.
Forse, però, quando si parla di riscaldamento della terra e di Protocollo di Kyoto, bisognerebbe prendere in considerazione anche altre, discordanti voci, tanto più se si considerano i costi economici che i governi sottoscrittori stanno sostenendo per rispettare gli impegni assunti.
«Le ragioni scientifiche dell’insensatezza di quel Protocollo si possono calcolare sul retro di una scatola di fiammiferi – sostiene, ad esempio, il fisico italiano Franco Battaglia -, infatti l’atmosfera contiene, già di suo, 3 milioni di megatonnellate di Co2; l’intervento dell’uomo consiste nell’immissione annua di 6 mila megatonnellate in più, metà provenienti dai Paesi industrializzati e metà da quelli in via di sviluppo; il Protocollo di Kyoto prevede che i Paesi industrializzati riducano le proprie emissioni del 5%, il che significa immettere 5.850 anziché 6.000 megatonnellate».
Secondo questa analisi, se davvero è in corso una drammatica variazione climatica, non è il fattore umano a determinarla e quindi l’uomo non può far altro che adattarvisi mettendo a frutto il proprio ingegno. Se invece ne è responsabile, come sembrano ribadire la maggior parte dei relatori convenuti a Nairobi, per colpa delle mancate adesioni al Protocollo di Kyoto si prospetta un futuro assai difficile. A quanto pare il Protocollo di Kyoto, comunque sia, non serve proprio a niente.