di Michelangelo Pelàez
L’esistenza di un mondo dopo la morte, l’aldilà, e la nostra possibilità di comunicare in qualche modo con «coloro che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace» (Canone romano), sono stati considerati sempre temi di interesse esclusivamente religioso con annessi connotati esoterici e para-scientifici.
La possibile comunicazione dei vivi con i defunti è per la Chiesa cattolica strettamente soprannaturale, intrinseca alla fede: intercessione dei santi che si prendono cura presso Dio delle sorti del mondo, suffragi e preghiere al Dio dei viventi per abbreviare il tempo di quanti si purificano nel Purgatorio. Il resto rientrerebbe nel mondo oscuro dello spiritismo.
Infatti, ancora negli ultimi anni di esistenza dell’Indice dei libri proibiti, nel 1955, viene messa all’Indice l’opera di Marcelle de Jouvenel, con prefazione di Gabriel Marcel, Au diapason du Ciel, che raccoglie la scrittura automatica del dialogo di un figlio morto a quattordici anni con sua madre vicina a una disperazione suicida. La condanna fu forse motivata da un’ambigua identificazione dell’aldilà psicologico con l’aldilà della fede. Infatti la certezza dell’aldilà della morte, non evidenzia il peculiare sigillo cristiano di questa certezza e cioè la liberazione operata da Cristo risorto dal potere tirannico della morte.
Gabriel Marcel, pur ammettendo la realtà oggettiva dei fatti raccontati dalla de Jouvenel, che egli interpretava filosoficamente, metteva in guardia contro un ricorso imprudente a queste esperienze di comunicazione con lo spirito dei defunti. Per la scienza poi, ancorata alla realtà sensibile, misurabile e suscettibile di sperimentazione, sembrerebbe che l’aldilà nulla possa dire allo scienziato tout court. Ma lo sviluppo delle neuroscienze e i progressi costanti nel campo della rianimazione artificiale consentono ora di acquisire un sempre crescente numero di narrazioni di persone rianimate e ritornate dal coma, persone di cultura, religione e mentalità alquanto diverse, che testimonierebbero la realtà di un dopo la morte.
Ci troveremmo, dunque, di fronte a fatti nuovi da non ignorare da un punto di vista teologico e le cui implicazioni scientifiche sono da tempo studiate dalle neuroscienze. In questi studi si adoperano strumenti di misura, scale cliniche che, pur conservando un altissimo valore di soggettività, tentano di realizzare una quantificazione scientifica di questi fenomeni. Sembrerebbe che finora la letteratura scientifica prodotta sia alquanto povera e per nulla conclusiva. Queste testimonianze, per alcuni, sarebbero da ricondurre a meccanismi biologici, per altri a fenomeni psicologici se non addirittura psicopatologici di natura dissociativa.
Una meticolosa istruttoria
Un alto magistrato, Raffaele Raimondi, nel libro Dopo. Prove di sopravvivenza (Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2010) fa una meticolosa istruttoria-verifica sulla forza probatoria di queste testimonianze sull’aldilà. Alle molte «esperienze ai confini della morte» (Near Death Experience o NDE) studiate da Raimondi, aggiungerei come molto significativa quella di Cari Gustav Jung in Ricordi, sogni e riflessioni (Rizzoli, Milano 1998), il quale, nel 1944, perse conoscenza in seguito a un infarto di miocardio.
Queste presumibili «prove di sopravvivenza», trattandosi di esperienze soggettive, esigono certamente di essere interpretate, ma non si possono liquidare come costruzioni fantastiche o superstizioni. Oltre a ledere arbitrariamente sentimenti umani del tutto legittimi, non si farebbe un servizio alla scienza se prevalesse il pregiudizio scientista secondo il quale i fatti che non rientrano nello schema razionalista o paradigma riconosciuto dalla comunità scientifica nulla dicono a una maggior conoscenza della realtà.
L’esperienza umana, nella sua interezza, rimane assolutamente essenziale per la ricerca scientifica la quale è chiamata a dilatare gli spazi della ragione e quindi delle nostre conoscenze. Alcune di queste esperienze pre-morte, sono state in parte oggetto di attente verifiche. Si sono confrontati particolari descritti nelle testimonianze dei rianimati con quanto scritto nelle cartelle cliniche e con il comportamento tenuto dai medici e dai famigliari durante il periodo di coma profondo, e si è trovato che coincidono.
Dalla totalità di queste esperienze raccolte nelle NDE si ricavano oramai una quindicina di elementi comuni, tutti improntati a una visione positiva, festosa, dell’aldilà. La prima conclusione è che dopo questa pre-morte non c’è il nulla, triste e senza speranza. Inoltre è da sottolineare che le esperienze delle persone che hanno tentato il suicidio coincidono quasi tutte nel dichiarare che le angosce alle quali avevano voluto sfuggire con il suicidio erano presenti, e in un modo più tormentoso, anche dopo la morte.
Nelle loro testimonianze, rutti i rianimati sostengono che l’amore è il segreto della felicità. Nel raccontare la festosità con cui sono stati accolti dai cari estinti nella pre-morte, motivano allo stesso tempo il non poterli seguire perché trattenuti dall’affetto per coloro che altrimenti lascerebbero in vita. L’amore, sottolinea Raimondi, funzionerebbe da calamità che, grazie alle tecniche di rianimazione, restituirebbe l’interessato ai propri cari. Cari G. Jung concludeva la sua testimonianza raccontando come nello stato di pre-morte, in un muto scambio di pensiero, il medico che lo riportava alla vita gli comunicava che si era scatenata sulla terra una protesta contro la sua dipartita: «Non avevo il diritto a lasciare la terra e dovevo tornare».
Prova di una «presenza»
II già citato Gabriel Marcel, colpito a quattro anni dalla esperienza della morte della madre e, più tardi, della moglie, si è molto impegnato ad analizzare filosoficamente i rapporti con le persone care defunte, e la loro condizione. In questi casi, afferma Marcel, la morte non è il semplice oggetto di una notifica anagrafìca che si fa con indifferenza, ma è vissuta come prova di una «presenza» con un suo influsso a cui bisogna restare attivamente fedeli, «in stato di permeabilità».
Egli ha detto una frase che è diventata celebre: «Amare una persona significa dirgli: “Tu non morirai”». Una differenza balza subito all’attenzione se si confronta la visione del dopo che da la NDE con la dottrina cattolica. La NDE nulla dice del giudizio particolare che segue alla morte, nel mentre abbondano descrizioni topografiche e di stati d’animo.
La fede della Chiesa invece, pur riconoscendo, come ricorda Vittorio Messori, i meriti poetici del grande credente Dante, non alimenta l’immaginazione né da rilevanza a elementi cosmico-storici dell’aldilà; si limita a dire che vale la pena di fare tutto ciò che possiamo per superare il giudizio del Giusto Rimuneratore e giungere così allo stato di gioia eterna, e che al contempo bisogna fare tutto il possibile per non meritare uno stato di sofferenza altrettanto eterna.
Forse, è in parte per questo silenzio sui Novissimi che finora non è facile trovare teologi o filosofi cattolici che confrontino i dati delle NDE con quella parte della fede nell’aldilà che parla della sopravvivenza dopo la morte di un elemento spirituale che la tradizione chiama «anima». Il giudice Raimondi si inoltra, da pioniere, nel campo minato della bibliografia medianica del para-normale, facendo una rigida selezione tra il molto materiale a disposizione e trovando «concordanze stupefacenti» con le NDE.
Anche qui vorrei aggiungere alle testimonianze studiate nel libro, quella significativa di Vittorio Messori, giornalista e studioso di argomenti religiosi assai affidabile, il quale essendo giovane liceale e lontano dalla fede, racconta di aver ricevuto una telefonata da uno zio, nell’anniversario della sua morte, dicendogli: «Vittorio, Vittorio! Sono Aldo! Sto bene! Sto bene!».
È da sottolineare che, secondo il Raimondi, dalla sovrapposizione delle testimonianze di origine clinica e di origine medianica, i ricercatori clinici e i ricercatori medianici, nella reciproca ignoranza gli uni degli altri, hanno ricavato le stesse conclusioni. Da ciò, secondo l’autore del libro, si potrebbe dedurre che quanto si ricava dall’esperienza dei rianimati vale per chi è morto davvero.
In realtà ci troviamo davanti a due situazioni molto diverse, perché difficilmente sovrapponibili. L’identità del rianimato che racconta la sua esperienza, per quanto soggettiva, nello stato di premorte, è indiscussa e reale. L’identità del trapassato è tutta da dimostrare. Prevale ancora la convinzione che non si tratti di un messaggio arrivato dall’aldilà, ma di esperienze ancora poco studiate di persone dotate di una raffinata percezione psichica e spesso anche poetica, per le quali, soprattutto se molto legate affettivamente a qualche defunto, il mondo dei morti è quasi più famigliare di quello dei vivi.
Si comprende cosi che il quarto volume, En obsolue fìdelité, dei dialoghi (dal giugno ’52 al gennaio ’56) di Marcelle de Jouvenel con il figlio defunto, abbia avuto addirittura l’Imprimatur dell’autorità ecclesiastica una volta sostituita la struttura di dialogo tra un vivo e un defunto (e quindi il messaggio dall’aldilà) con quella di una meditazione che, come aiutò la madre a vincere la disperazione e acquisire una fede salda, può aiutare nello stesso modo i lettori del libro.
Bisogna riconoscere al giudice Raimondi la scrupolosità con cui ha condotto la sua inchiesta individuando e raccogliendo rutti i pezzi autentici dalle fonti più disparate per stabilire quanto c’è di coerente, obiettivo e dimostrabile in tali testimonianze, cercando allo stesso tempo di definire epistemologicamente il suo àmbito di studio entro limiti strettamente razionali.
Nessuna forzatura ideologica o apologetica si può trovare nelle pagine del libro, che non fa alcun riferimento alle implicazioni teologiche della tematica studiata. Molte sono invece le domande che l’A. rivolge alle scienze chiamate in causa, attendendosi dalle risposte ai suoi interrogativi una nuova visione della morte.
Segnalo alcuni di questi interrogativi: «II problema della vita oltre la morte appartiene soltanto all’ambito della fede o se ne può occupare anche la scienza? Si può vivere fuori dal corpo fisico in un altro corpo “spirituale”? Si può parlare di una sopravvivenza biologica? Come si esce dal corpo e, per i soli rianimati, come si rientra? La NDE può essere considerata una prova della separazione della mente dal corpo durante la pre-morte? E, soprattutto, si può considerare prova di vera sopravvivenza dopo la morte?». La scienza, di fatto, è ormai coinvolta nell’esame della NDE. È da augurarsi che tale studio venga condotto senza schemi aprioristici, prestando attenzione ai fatti descritti.
L’inchiesta quasi «giudiziaria» di Raimondi non si conclude con alcuna sentenza. Egli cita queste parole di A. Moody, uno dei medici più schierati nel raccogliere e studiare la NDE: «Nonostante vi sia una schiera di medici, i quali, come me, trovano questi aneddoti estremamente convincenti, finché non potrà essere provocata artificialmente l’esperienza di pre-morte, essa sarà sempre messa in discussione». Sembra di capire da queste parole che senza ripetibilità e pubblicità degli esperimenti, come vuole la vulgata scientifica, restiamo confinati nell’ambito della para-scienza.
Raimondi, da giudice, considera che tutti i dati provenienti dalla NDE sono soltanto indizi e non prove conclusive della sopravvivenza dopo la morte. La prova sarebbe semmai da ricercare nella concordanza dei racconti dei rianimati con quelli provenienti dai trapassati, come l’autore ha tentato. Ma si ripropone il discorso sul metodo sperimentale-scientifico che riconosce per vero solo ciò che può essere replicato.
La certezza di un «dopo» che Raimondi ricava è dunque soltanto morale, quella propria dei cultori delle scienze umane. È un fermo convincimento che deriva da un fatto sperimentato in prima persona: non si ha più paura della morte perché non si hanno più dubbi sulla sopravvivenza insieme alle persone amate sulla terra. La morte è principio e continuazione.
Nel penultimo paragrafo del libro, il n. 116, che ha come titolo La sfida, Raffaele Raimondi si schiera e testimonia. Riprende un’altra affermazione di R. A. Moody, il quale sostiene che dall’ipotesi della sopravvivenza, confermata dalla NDE, deriverebbero implicazioni per la scienza ufficiale e per tutti i comuni mortali che, sembra ormai assodato, mortali più non sono: «L’esistenza terrena, pertanto, diventa più accettabile».
Campi nuovi & inesplorati
II tema dell’aldilà, per quanto sia pieno di segreti, non può più essere emarginato nella sfera religiosa e in quella parascientifica, non deve suscitare né curiosità né inquietudine. La nostra insaziabile sete di sapere non deve temere di entrare in nuovi campi poco o per nulla esplorati. Senza dimenticare che, nel clima culturale di diffusa disperazione e di apparente cinismo che respiriamo, non si deve trascurare qualunque seme di verità, tanto più se può essere sorgente di consolazione. Perciò anche l’escatologia, quella parte della teologia che studia le realtà ultime, i Novissimi, dovrà misurarsi con queste novità.
La comprensibile condanna della rozza dottrina dello spiritismo con i suoi dogmi e i suoi precetti, da sempre ignorata dalla vera scienza, può sembrare oggi anacronistica. Occorre, innanzitutto, argomentare perché soltanto la comunione con Cristo risorto da la possibilità di una reale e soprannaturale comunione con i defunti.
Il fatto che dopo la morte sopravviva un elemento spirituale dotato di coscienza e di volontà, e cioè un io umano che continua a vivere, rende umanamente impossibile una sua comunicazione con l’io dei viventi? Non è lecito supporre che dalle NDE e dall’enorme massa della comunicazione medianica si possano estrarre fenomeni di ordine naturale o preternaturale degni di essere studiati?
Una breccia filosofica tra il mondo dei morti e il mondo dei viventi è stata aperta da Gabriel Marcel con la sua distinzione tra corpo-strumento, mera esteriorità che nasce, vive e muore, e il corpo-mediazione, empatica e spirituale, che trascende i fenomeni costatabili. Senza dimenticare che la mente umana, per la sua stessa natura spirituale, non si ferma al confine della vita fisica.
Non si tratta di trovare una dimostrazione razionale a tutte le implicazioni del mistero dell’aldilà. La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (Le 16, 19-31), nella sua rappresentazione didattica, può essere considerata una prova di sopravvivenza. Infatti la teologia cattolica ne deduce che, immediatamente dopo la morte, senza attendere la risurrezione finale, incomincia, anche se in maniera abbozzata, la nuova vita, conseguenza della situazione morale in cui l’uomo si trovava al momento della morte.
Si tratta del capitolo teologico sull’escatologia intermedia, cioè dello stato tra la morte e la risurrezione finale o parusia. Come in una NDE, il ricco Epulone, dopo la morte, supplica il padre Abramo di mandare Lazzaro dai propri fratelli per ammonirli in modo di risparmiare loro il suo destino di eterna sofferenza. Abramo risponde: «Hanno Mosè e i profeti… neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi».
Senza troppe preoccupazioni esegetiche mi piace concludere dicendo che nessuna NDE potrà bastare a suscitare in noi la professione di fede, vero dono divino, nella comunione dei santi, nella risurrezione della carne e nella vita eterna.