di Roberto de Mattei
Si fa strada, anche nel mondo cattolico, una pericolosa convinzione: quella secondo cui il riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali sarebbe l’unico rimedio per evitare il “matrimonio gay” che avanza. «No alle nozze gay, sì al riconoscimento dei diritti per le coppie di fatto e omosessuali», è la parola d’ordine di chi vorrebbe organizzare una linea di resistenza fondata sul fallimentare principio del “cedere per non perdere”.
Dal principio secondo cui bisogna fare il bene ed evitare il male scaturisce una conseguenza necessaria: non è mai lecito a nessuno, e in nessuna sfera, né privata né pubblica, fare il male. Il male, che è la violazione della legge morale, può essere in casi eccezionali tollerato, ma mai positivamente compiuto. Ciò significa che nessuna circostanza e nessuna buona intenzione potranno mai trasformare un atto intrinsecamente cattivo in un atto umano buono o indifferente. Mai e poi mai si può compiere un male, seppur minimo, e quali che siano le pur nobili motivazioni.
Il sistema morale del “proporzionalismo”, oggi in voga, rifiuta l’idea di princìpi assoluti in campo morale e ammette la possibilità di compiere il “minor male” possibile in una situazione particolare, per ottenere un bene proporzionalmente maggiore. Questa teoria è stata condannata da Giovanni Paolo II nella enciclica Veritatis Splendor, che ribadisce l’esistenza di “assoluti morali”, aventi un loro contenuto, immutabile e incondizionato. «La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un’azione, – spiega il Papa –non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto è (…) moralmente buona o cattiva, lecita o illecita» (n. 77).
Il retto criterio del giudizio morale, infatti, è quello che valuta un atto come “buono” o “cattivo” secondo che rispetti o violi la legge naturale e divina, considerandolo innanzitutto in sé e per sé, ossia nell’oggetto, nelle circostanze e nelle conseguenze sue proprie. Invece il criterio proporzionalista è relativistico, perché valuta un atto come “migliore” o “peggiore” secondo che migliori o peggiori una situazione data. La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Nota del 21 dicembre 2010 a proposito della banalizzazione della sessualità, riferendosi a chi interpretava alcune parole di Benedetto XVI nel suo libro Luce del mondo, ricorrendo alla teoria del cosiddetto “male minore”, dichiarò che «questa teoria, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista», condannate dalla Veritatis Splendor, perché «un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta». Ciò è cogente sia sul piano della condotta personale che su quello del comportamento pubblico.
I parlamentari cattolici possono essere impossibilitati a realizzare in concreto il massimo bene, ma non possono mai promuovere una legge in sé ingiusta, quale che ne sia la motivazione. Se si accetta il principio che il male minore possa essere compiuto per ottenere un bene maggiore, i cattolici potrebbero promuovere l’aborto terapeutico, per evitare quello selettivo, la fecondazione artificiale omologa per evitare l’eterologa, le unioni civili per evitare il matrimonio omosessuale. Ma, così facendo, crollerebbe la morale intera, perché, di male minore, in male minore, ogni arbitrio potrebbe essere pretestuosamente permesso.
Non manca chi, per giustificare il principio del male minore in campo politico, si riferisce ad una frase di Giovanni Paolo II, nella Evangelium Vitae, secondo la quale «potrebbe essere lecito offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge (abortista) diminuendone gli effetti negativi» (n. 74). Ma questo passo non può che essere interpretato in coerenza con la Veritatis Splendor e con il Magistero morale della Chiesa, il quale insegna che si può tollerare un male, rinunciando a reprimerlo; si può perfino regolare un male, nel senso di ridurne la libertà e il campo di azione; ma non si può permettere o regolare un male autorizzandolo, perché questo significherebbe approvarlo rendendosene complici (cfr. Ramon Garcia de Haro, La vita cristiana, Ares, Milano 1995).
Il Papa, in quel passo, non dice che al cattolico è lecito proporre una legge cattiva, ma che gli è lecito intervenire su una legge, in via di elaborazione parlamentare, modificandola mediante emendamenti meramente abrogativi o restrittivi di disposizioni permissive ed immorali. Si tratta, in questo caso, di emendamenti che impediscono che alcune proposte normative, ottengano forza di legge. Va però precisato che, nel nostro ordinamento giuridico, la legge va votata non solo articolo per articolo, ma, alla fine, anche nel suo complesso, in segno di approvazione globale.
Pertanto, al parlamentare cattolico non sarebbe comunque mai consentito di dare il proprio voto finale positivo ad una legge che autorizzi azioni immorali, anche se tale legge risulti anche dall’approvazione dei suoi emendamenti. Egli infatti non può assumersi, in nessun caso ed in nessun modo, la responsabilità globale di un testo finale che autorizzi, ad esempio, pratiche abortive, anche solo in casi rari ed estremi. Ciò significa che egli potrà correggere la proposta di legge mediante emendamenti correttivi; ma non potrà approvarne il testo finale, se vi permangono disposizioni.
Per essere moralmente proponibile da un parlamentare cattolico, una legge deve avere una propria integritas: deve essere cioè totalmente giusta, nel senso che nessuna delle sue disposizioni contraddica la Legge naturale e divina. Ma se una legge contiene anche una sola disposizione intrinsecamente e oggettivamente immorale, essa è una “non-legge”. Un parlamentare cattolico non potrà in nessun caso votarla nel suo complesso, pena l’assunzione della responsabilità morale e giuridica dell’intero testo. «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu», non si stanca di ripetere san Tommaso d’Aquino (Summa Theologica, I-II, q. 71, a. 5, ad 2; II-II, q. 79, a. 3, ad 4).
In Italia esponenti del centro-destra e del centro-sinistra stanno trovando una “larga intesa” sulla riesumazione dei DICO (“Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”), il disegno di legge sul riconoscimento giuridico dei rapporti di convivenza presentato dal governo Prodi, nel febbraio 2007. Allora il progetto non andò in porto per l’opposizione dei cattolici. Oggi invece anche alcune personalità del mondo cattolico considerano il riconoscimento delle unioni omosessuali di fatto come un “male minore”, che si potrebbe compiere per evitare il “male maggiore” del “matrimonio gay”.
Ma dal punto di vista morale, il riconoscimento legale delle unioni omosessuali è altrettanto grave che la loro equiparazione legale al matrimonio. Per questo la Congregazione per la dottrina della Fede nel documento su I progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali del 3 giugno 2003, approvato dal papa Giovanni Paolo II, stabilisce che «il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento legale delle unioni omosessuali».
Votare una legge del genere significa rendersi complici di un male che non viene certo cancellato dalla pretesa “riduzione del danno”. Se ci fossero in Parlamento due leggi, una che legalizza il matrimonio omosessuale e l’altra che riconosce i diritti delle coppie omosessuali, pur non equiparandoli al matrimonio, i cattolici non potrebbero votare la seconda legge, perché “meno cattiva” della prima, e se passasse la peggiore, la responsabilità sarebbe solo di chi l’avesse firmata. Come immaginare che un cattolico possa approvare una legge che protegge giuridicamente uno di quei «peccati che gridano verso il Cielo», come «il peccato dei sodomiti» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1867)?