Lavorano molto, costano poco e non possono protestare. Mandando all’estero i suoi operai il regime di Kim Jong-il riempie le casse ed entra nel mercato globale dei consumi
Simon Ostrovsky,
The Independent, Gran Bretagna
A differenza dei loro colleghi mongoli, le ottanta dipendenti nordcoreane dello stabilimento devono chiedere il permesso anche per parlare con gli estranei. Ricevono vitto e alloggio grazie a un programma della loro ambasciata, e guadagnano circa l’equivalente dÌ 200 sterline al mese. “Paghiamo i lavoratori nordcoreani come i mongoli”, spiega Bayar, responsabile delle esportazioni della Eermel. “Solo che i bonifici li facciamo sul conto dell’ambasciata nordcoreana. Non ho idea di come sia distrbuito il denaro”.
Il fatto che Pyongyang abbia permesso a tanti suoi cittadini di emigrare dandogli la possibilità di affacciarsi sul mondo esterno è la spia della diffìcile situazione economica in cui il paese si trova. Ma è anche un esempio di come Pyongyang sia riuscita ad adattarsi e a trarre profitto da un’economia globalizzata continuando a tenere sotto controllo la popolazione. Secondo i dispacci dell’ambasciata statunitense Ulan Bator pubblicati da Wikileaks, in Mongolia questa pratica va avanti dal 2004. In alcuni si legge di un funzionario nordcoreano che ha offerto manodopera a 1,5 dollari al giorno a un’azienda mineraria canadese.
Un altro comunicato del 2006 dice: “Le condizioni di lavoro e di vita di questi lavoratori fanno temere che siano soggetti a coercizione… sono controllati dalle guardie inviate dallo stato, e molti sarebbero sotto pressione a causa dei loro familiari rimasti in patria. A quanto pare gli operai non ricevono regolarmente e interamente il salario”. Secondo gli esperti i programmi di lavoro all’estero non sono un segno di apertura da parte di Pyongyang.
“Dal punto di vista del regime, mandare gruppi di persone in paesi stranieri dove non parlano la lingua e vivono segregati in caserme e dormitori è un’opzione molto più sicura che garantire libertà d’impresa e di movimento agli investitori esteri in Corea del Nord”, spiega Brian Myers dell’università Dongseo di Busan, in Corea del Sud. L’accordo tra i due paesi ha riscosso un grande successo tra le imprese mongole, attratte dal bassissimo costo della manodopera e dalla disciplina degli operai nordcoreani. Tra i pochi paesi ad avere rapporti amichevoli con il regime, nel 2011 la Mongolia ha aumentato la sua quota di lavoratori nordcoreani da 2.200 a tremila.
Una finestra sul mondo
I nordcoreani sono ancora più ricercati in Russia dove, secondo l’ufficio dell’immigrazione, solo nel primo trimestre del 2010 hanno lavorato in 21 mila. Si dice che almeno altrettanti lavorino in Cina, dove le statistiche non sono pubbliche. La Eermel rifornisce molte aziende tessili britanniche, tedesche, italiane, australiane e giapponesi. Ciò significa che l’isolamento internazionale non ha impedito alla Corea del Nord di raggiungere il mercato dei consumatori globali.
Al ministero degli esteri mongolo i funzionari tengono le bocche cucite su quanto fruttano questi programmi a Pyongyang e preferiscono parlare dei vantaggi per i singoli lavoratori. “Per le loro famiglie può essere di grande aiuto”, spiega il segretario di stato Tsogtbaatar Damdin. Quando però gli chiediamo se sa quanto trattiene il regime del loro salario, risponde: “Preferiamo non occuparci della questione”.
Se i compensi delle operaie della Eermel sono rappresentativi di quanto accade nel resto della Mongolia, per Pyongyang l’accordo potrebbe fruttare l’equivalente di undici milioni di dollari all’anno. Non è poco considerando che nel 2008 il pil del paese ammontava a non più di 40 miliardi di dollari.
Anche se i contratti violano i diritti dei lavoratori, alcuni analisti sono favorevoli a questa pratica. I nordcoreani che lavorano all’estero, sostengono, una volta rientrati racconteranno le loro esperienze del mondo esterno, e questo forse a lungo andare favorirà un cambiamento sociale e politico nel paese.