da Oasis 5 giugno 2018
Dietro alla crisi del Golfo si cela anche una spaccatura religiosa tutta interna al mondo sunnita
di Michele Brignone
Oltre ad aver ridisegnato gli equilibri geo-politici mediorientali, la crisi che da un anno oppone il Qatar e la coalizione composta da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein ha ratificato la frattura politico-religiosa, tutta interna al mondo sunnita, tra un campo islamista sponsorizzato da Doha e un campo anti-islamista sostenuto dagli Stati del quartetto.
Una relazione complicata
Il conflitto attuale è l’ultimo capitolo nella storia della complicata relazione triangolare tra lo Stato egiziano, i Fratelli musulmani e i Paesi del Golfo. Tutto cominciò negli anni ’50, quando molti membri della Fratellanza lasciarono l’Egitto per sfuggire alla repressione nasserista, trovando rifugio nel Golfo e in particolare in Arabia Saudita.
Fino all’inizio degli anni ’90, l’incontro tra gli islamisti e l’Arabia Saudita avvenne sotto il segno della cooperazione: i Fratelli musulmani furono considerati un alleato naturale contro i movimenti arabi rivoluzionari e contribuirono ad accrescere la legittimità pan-islamica di Riyadh. Fu in questo periodo che dall’ibridazione culturale e religiosa tra le idee della Fratellanza e il wahhabismo saudita nacque il movimento della Sahwa islāmiyya (il Risveglio islamico). Il sodalizio si ruppe con la guerra del Golfo del 1990-1991, quando per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq di Saddam Hussein la monarchia saudita permise alle truppe statunitensi di stazionare sul proprio territorio, scatenando l’indignazione islamista.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno poi allargato ulteriormente il fossato: mentre i Fratelli musulmani e altri movimenti islamisti, sostenuti dal Qatar e dalla Turchia, erano impegnati a creare un nuovo ordine politico mediorientale, l’Arabia Saudita e gli Emirati intervenivano per ripristinare lo status quo, in particolare appoggiando l’Egitto del generale al-Sisi.
Critiche e accuse incrociate
Dopo la rottura del 2017, si sono moltiplicate accuse, analisi critiche, e prese di distanza incrociate da parte di politici, intellettuali e chierici dei due campi. Il fronte pro-islamista e filo-Qatar accusa lo schieramento opposto di aver tradito l’Islam, cedendo al secolarismo occidentale. Per esempio il marocchino Ahmad al-Raysūnī, principale ideologo del movimento Unicità e Riforma (MUR) e vice-presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, nell’ottobre del 2017 ha rimproverato all’Islam saudita di essere passato «dalla fioritura alla decadenza».
Sempre nell’autunno del 2017, dalle colonne del quotidiano qatarino al-Watan, il giornalista di al-Jazeera Ahmad Mansūr ha imputato a Emirati e Arabia Saudita di voler deliberatamente secolarizzare le società islamiche. In una serie di articoli pubblicati sul quotidiano digitale filo-qatarino Arabi21, Soumaya Ghannouchi, figlia del fondatore e leader del partito islamista tunisino Ennahda, ha descritto invece il conflitto attuale come una battaglia tra un Islam democratico e liberale e un autoritarismo che in passato si è servito della religione ma che oggi è diventato laicista.
Il fronte anti-islamista ascrive invece la violenza e il caos che perturbano le società musulmane all’influenza nefasta dei Fratelli musulmani. Ad esempio il principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, che ha promesso di “riportare” l’Arabia Saudita alla “moderazione” degli anni precedenti al 1979, attribuisce l’estremismo religioso presente nel Regno alle infiltrazioni della Fratellanza, in particolare nel sistema educativo saudita.
L’Islam emiratino: tra tradizione e pensiero critico
Al di là della discutibile narrazione storica proposta da MBS, il suo progetto di riforma dell’Islam rimane molto vago. La sua preoccupazione non è tanto una riforma religiosa, quanto un Islam che non intralci il processo di modernizzazione del Paese, non si trasformi in una forma di opposizione politica e non comprometta la reputazione internazionale dell’Arabia Saudita. È per questo che la vera alternativa all’interpretazione islamista non è l’Islam che, chissà quando chissà se, nascerà in Arabia Saudita, ma quello che già oggi viene promosso dagli Emirati.
Questi ultimi, a differenza dell’Arabia Saudita e del Qatar, non aderiscono alla dottrina wahhabita, ma alla scuola malikita. Allo stesso tempo però, gli Emirati non dispongono di istituzioni islamiche tradizionali attraverso le quali veicolare il proprio messaggio religioso. La loro politica islamica si è così tradotta nel patrocinio di nuove istituzioni, nominalmente indipendenti, guidate da eminenti personalità del mondo sunnita.
Fra queste spiccano il Consiglio dei Saggi Musulmani e il Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane, nate entrambe ad Abu Dhabi nel 2014. Il Consiglio, che riunisce ulema di tutto il mondo, è presieduto dal Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyib, e rappresenta una risposta all’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, una rete di esperti religiosi e intellettuali di orientamento islamista, molto vicina al Qatar, creata e presieduta dal “global mufti” Yūsif al-Qaradāwī.
Il Forum per la Promozione della Pace è invece guidato dallo shaykh di origine mauritana ‘Abdallāh Bin Bayyah, che fino al 2013 faceva parte dell’Unione mondiale degli Ulema. Queste due istituzioni sono espressione di un Islam legato alle scuole giuridiche e teologiche tradizionali e alla spiritualità sufi, impegnato nel dialogo interreligioso e interculturale e decisamente avverso alle interpretazioni politiche e violente.
Tuttavia, l’azione degli Emirati non punta soltanto nella direzione di una religiosità neo-tradizionale: da qualche tempo, ospite fisso del canale Abu Dhabi TV è Muhammad Shahrūr, intellettuale siriano impegnato in un’esegesi rinnovata del Corano, che, quando in Tunisia si è iniziato a dibattere del superamento della disparità successoria tra uomo e donna, si è trovato sul fronte opposto a quello dello shaykhal-Tayyib.
Secondo un’inchiesta pubblicata nel luglio del 2017 sul sito di al-Jazeera, gli Emirati sarebbero anche i principali ideatori e finanziatori di Mu’minūn bilā Hudūd (“Credenti senza frontiere”), una Fondazione la cui sede principale è a Rabat e a cui partecipano intellettuali di tutto il mondo arabo.
Attraverso un’impressionante mole di pubblicazioni ed eventi, Mu’minūn bilā Hudūd promuove un pensiero critico sulla tradizione islamica e sul rapporto tra Islam e spazio pubblico, dando voce a quei “nuovi pensatori” che da alcuni decenni portano avanti una rilettura della rivelazione attraverso gli strumenti offerti dalla critica testuale moderna. Cura per esempio la pubblicazione dell’opera omnia dello studioso egiziano Nasr Hāmid Abū Zayd, noto per la sua ermeneutica storica del testo sacro islamico.
Due modelli per l’Islam sunnita
Il Qatar dell’emiro Tamīm e gli Emirati dell’attivissimo erede al trono di Abu Dhabi Muhammad bin Zāyid sono così l’emblema delle due grandi interpretazioni che si contendono oggi la scena sunnita. Da una parte una lettura politica dell’Islam, fondata sulla critica all’ordine esistente e ai regimi autoritari, attenta alla giustizia sociale e fautrice di un progetto di reislamizzazione delle società e di istituzione di regimi “islamo-democratici”, sulla falsariga dell’esperienza, perlopiù fallimentare, tentata dopo le rivolte del 2011 in Tunisia ed Egitto.
Dall’altra un Islam incentrato sulla spiritualità personale, ostile alle interpretazioni violente, presente sulla scena pubblica ma poco interessato a interferire con le scelte politiche ed economiche dei governanti, anche a costo di chiudere un occhio sugli abusi e sulle ingiustizie commessi da questi ultimi.
È interessante notare che, sebbene questa alternativa percorra oggi molte società musulmane, essa non sia necessariamente destinata a produrre conflitti laceranti. Paesi come la Tunisia e il Marocco, in cui il processo di costruzione democratica continua ad avanzare, sono anche quelli che hanno impedito all’islamismo di egemonizzare la sfera religiosa, ma senza escluderlo dallo spazio politico e dalla società.