Perché in Italia manca una coscienza di appartenenza nazionale condivisa? Perché, sostiene Ugo Finetti in queste pagine di lucidissima sintesi, fin dall’unificazione, di volta in volta, la nostra storia è stata sconfessata e rimessa in discussione. «Dopo la “Vittoria Mutilata” del 1919 e la “Morte della Patria” del 1943, nel 1992, all’indomani della scomparsa dell’Urss, si ha “Tangentopoli” e in Italia il dopo “Guerra fredda”, come osserverà Lucio Colletti, vede “sul banco degli imputati i partiti democratici e sul banco dei giudici i comunisti”. La fine della “Prima Repubblica” si traduce in un giudizio negativo che allinea insieme Italia liberale, fascista e repubblicana».
Eppure, sostiene Finetti, «il patriottismo italiano in realtà è esistito ed esiste: è il patriottismo del lavoro solidale e combattivo, quel patriottismo spontaneo che, all’indomani della guerra, portava nei cantieri edili a festeggiare il raggiungimento del tetto facendo sventolare sull’ultima impalcatura il tricolore». Ugo Finetti è condirettore di Critica Sociale, è membro della giuria del Premio Matteotti 2010 della Presidenza del Consiglio ed è stato nominato nel Comitato scientifico istituito dal Presidente della Camera per le Celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia. Con le Edizioni Ares ha pubblicato due volumi: La Resistenza cancellata; Togliatti & Amendola. La lotta politica all’interno del Pci.
di Ugo Finetti
Al nostro Patriottismo manca un minimum di Memoria condivisa perché quella italiana è soprattutto una Memoria traumatizzata da una serie di dopoguerra non «gloriosi» nel segno di «Vittoria Mutilata» dopo la Grande guerra, «Morte della Patria» nella Seconda guerra mondiale e «Tangentopoli»alla fine della «guerra fredda». Lo stesso Patriottismo risorgimentale cresciuto come una riunificazione territoriale secondo gli ideali di fratellanza e di libertà fu minato sin dal 1861 da quattro «eccezioni».
La prima era l’autonomia locale che poi prenderà la forma in particolare di «questione meridionale» in quanto si accuserà il governo torinese dell’ex re di Sardegna di non aver saputo personificare l’unità nazionale, ma di aver introdotto una legislazione di vessazione.
La seconda eccezione fu la sudditanza che era effetto anche di un contesto di internazionalismo massonico. Fallito il ’48 italiano, il processo di unificazione sembrò realizzato con regìa straniera: fu solo grazie all’appoggio militare della Francia che l’Austria cedette Lombardia e Veneto. La terza eccezione che minò il Patriottismo risorgimentale riguarda la diaspora interna, la netta divisione in seno ai «padri della Patria», il quadro di contrapposizione radicale e reciprocamente delegittimante.
Nell’immediato dopoguerra «unitario» Giuseppe Garibaldi, all’epoca deputato di Napoli, diserta le iniziali sedute del Parlamento nazionale, preferendo arringare gli operai genovesi e definendo il ministero di Cavour un «governo di codardi» e il nuovo Parlamento nazionale un’«assemblea di lacchè».
L’Italia liberale sotto accusa
Particolarmente rilevante e inquietante fu poi la quarta eccezione e cioè quella della rappresentanza priva di un radicato e mobilitato consenso. Nel 1870 – rileva Ivanoe Bonomi in «La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto» (1944) – gli uomini politici si muovono «in mezzo ad un popolo indifferente od ostile». «In tutti i discorsi dell’epoca», prosegue, «si lamenta infatti l’esistenza di un Paese legale quasi estraneo al Paese reale». Il Patriottismo risorgimentale dopo il 1861 si trova di fronte la questione cattolica, la questione meridionale, la questione sociale.
Dopo l’entrata in guerra imposta dal re nel 1915 scavalcando il Parlamento, nel 1917 si registrò però una sostanziale unità nazionale e unificazione popolare nella difesa patriottica di cui è testimonianza il discorso di Filippo Turati, che si era dichiarato contrario alla guerra nel 1915, a sostegno dei soldati che fronteggiavano l’invasione. E infatti Benito Mussolini sosterrà la tesi secondo cui l’Italia fu unificata dalla Grande Guerra.
Il primo dopoguerra del Novecento è quindi teatro del primo grande processo che mise in stato di accusa la precedente storia dell’Italia unitaria e cioè l’Italia liberale. La classe dirigente liberale entrò in crisi e venne processata e delegittimata di fronte all’avvento di una nuova «platea politico-patriottica» con il suffragio (maschile) universale. Una classe politica formata e cresciuta avendo come interlocutore un elettorato che rappresentava l’I,8 degli italiani (e che solo nel 1912 aveva conosciuto un relativo allargamento), ora si trovava di fronte venti milioni di italiani.
L’Italia liberale come classe politica non era in grado di fronteggiare una simile rivoluzione della rappresentanza. Inoltre con la «Quarta guerra di Indipendenza» che si concludeva con un ben misero bilancio rispetto alle acquisizioni territoriali previste dai Patti di Londra del 1915 (dal momento che al posto dello zar c’era ora il presidente Usa che disconosceva quei Patti e patrocinava la nascita della Jugoslavia), si sviluppò la polemica della «Vittoria Mutilata», che metteva sotto accusa l’Italia liberale e ne auspicava la fuoriuscita violenta con Gabriele D’Annunzio, il quale, come novella «spedizione dei Mille», si ribellava agli «uomini seduti» del Parlamento per conquistare Fiume.
Il fatto nuovo e specifico del Patriottismo fascista (che sfugge agli storici che sono tornati a sostenere la continuità tra Risorgimento e Fascismo) è che Mussolini considerò una base fragile l’identificazione della Patria con il Risorgimento e lo scavalcò rifondando il Patriottismo sulla base della Roma imperiale. A «Nazione e Libertà» sostituì «Impero e Popolo». Gli storici che oggi sostengono la tesi del Risorgimento «fascista» ripropongono il dibattito che a sua volta, nell’esilio, divise sul Patriottismo risorgimentale per la forte pressione dell’internazionalismo comunista.
«Il Risorgimento», scrive Togliatti in polemica con Carlo Rosselli su Lo Stato Operaio del settembre 1931, «ebbe una impronta reazionaria… La tradizione del Risorgimento vive nel fascismo… Le fantasie sul “secondo Risorgimento” sono fatte solo per nascondere questa realtà». La lettura classista secondo lo scontro tra capitalismo reazionario e classe operaia rivoluzionaria nega ruolo positivo ai «vincitori», a chi ha governato e svolto attività economica, e indica come reprobi tutta la catena dei governanti e degli imprenditori della storia nazionale.
Ebbe così inizio la diaspora tra Italia e Altra Italia con un’eccezione di infamia che allunga la sua ombra su tutti i «vincitori» della nostra storia – da Cavour a Mussolini – destinata a proiettarsi successivamente, per opera della storiografia classista, anche sull’Italia repubblicana. Nel secondo dopoguerra viene quindi processata e condannata non solo l’Italia fascista, ma anche l’Italia liberale. Così ebbe a sentenziare Ferruccio Farri nell’Assemblea Costituente del 27 settembre 1945: «Prima del fascismo l’Italia non aveva avuto Governi democratici».
Al discorso di Farri reagì Benedetto Croce affermando: «Questa asserzione urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei Paesi più democratici del mondo e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa della democrazia». Ma quella di Croce fu voce isolata e l’assemblaggio di Italia liberale e Italia fascista in una comune drastica condanna è un giudizio storico destinato a cristallizzarsi fino ai massimi livelli istituzionali e accademici come base del nuovo Patriottismo nato dalla Resistenza.
Ancora il 25 aprile 2001 il Presidente della Camera, Luciano Violante, poteva ribadire: «II 25 aprile è il giorno della nascita della democrazia. Dico nascita e non rinascita perché la democrazia, intesa come pienezza di diritti e di doveri, non c’era mai stata nella storia italiana». Al Patriottismo risorgimentale (territoriale) subentrò quindi quello che sarà definito il Patriottismo costituzionale (valoriale).
A guidare l’insegnamento di questo tipo di Patriottismo costituzionale è la storiografia dell’Insmli (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia) che ha come «credo» e mission quella che il suo presidente Giorgio Rochat, sull’onda del ’68, definì la «lezione» del suo predecessore Guido Quazza e cioè «la sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuità tra scelte moderate e nazionaliste, in cui la Resistenza rappresenta un momento di rottura democratica».
Una lettura non acritica della Carta costituzionale si avrà negli anni ’80 quando si registra – dopo la caduta dei governi di unità nazionale con il Pci in maggioranza e la fuoriuscita dall’emergenza terroristica ed economica – un tentativo, soprattutto con Craxi, di contrastare quel Patriottismo costituzionale dell’«Altra Italia», richiamandosi all’Italia liberale e della ricostruzione repubblicana di De Gasperi e Saragat.
Una contestazione globale
Ma di lì a poco venne a incombere il terzo dopoguerra del Novecento con la nuova messa in stato d’accusa dell’intera storia nazionale precedente: dopo la «Vittoria Mutilata» del 1919 e la «Morte della Patria» del 1943, nel 1992, all’indomani della scomparsa dell’Urss, si ha «Tangentopoli» e, in Italia, il dopo «Guerra fredda», come osserverà Lucio Colletti, vede «sul banco degli imputati i partiti democratici e sul banco dei giudici i comunisti». La fine della «Prima Repubblica» si traduce in un giudizio negativo che allinea insieme Italia liberale, fascista e repubblicana.
La contestazione globale della storia passata addita come stella polare, nuova e vera patria, la cittadinanza: una cittadinanza inclusiva, con echi di Rousseau, che nel segno salvifico di «Tangentopoli» ha come categoria centrale la Legalità.
Alla base di questa versione finale del Patriottismo come «Cittadinanza nazionale» vi sono ragioni profonde ancorché specifiche del caso italiano di post «Guerra fredda». A livello internazionale – o comunque nel mondo occidentale – all’inizio degli anni ’90 prevale infarti la tesi della «Fine della storia». Il dissolvimento del comunismo viene vissuto come il risultato di una pacifica e simpatica «autoriforma».
È generale la convinzione di avere di fronte la prospettiva di uno sviluppo unidirezionale, quasi automatico e senza alternative, in un mondo ormai pacificato secondo parametri comuni e con un indiscusso primato dell’economia occidentale. Quel che si deve fare non richiede particolari discussioni. Si afferma quindi in Italia una generale convinzione di essere di fronte a una strada obbligata che tanto più agevolmente potrà essere percorsa con meno partiti, meno politica, meno Stato, e anche meno Italia e più Europa.
La Seconda Repubblica mette in una innominabile fossa comune l’intera storia unitaria precedente e nasce non solo come rifondazione, ma anche come deitalianizzazione in un quadro di desiderio di essere cooptati a livelli superiori. Leghismo ed europeismo si intrecciano. Sono gli anni del GloLocal e il riferimento nazionale sbiadisce sempre più.
La stessa bandiera italiana è sempre più ridimensionata e finisce in un mazzo in cui nelle amministrazioni locali e nelle istituzioni è messa insieme, «a panino», tra bandiere locali – comunali, provinciali, regionali – e bandiera dell’Unione europea: il patriottismo locale e quello europeista sono a partire dagli anni Novanta le «patrie» più forti, mentre il tricolore è declassato a patriottismo vecchio e retorico (ricordo di periodi tutto sommato squallidi, non rimpianti, tra «Risorgimento tradito» e «Resistenza tradita»).
Il fenomeno delle contestazioni delle basi unitarie e le rivendicazioni scissionistiche hanno campo libero in una stagione di «fuga dall’Italia», di retorica europeista che si rallegra della diminuita caratterizzazione italiana di ciò che si va privatizzando in campo economico.
Quest’ultima forma di patriottismo si delinea come quel «ritorno a Rousseau» da cui Luigi Einaudi, in una sua «predica inutile», metteva in guardia, e cioè il prevalere demagogico e antidemocratico dell’idea secondo cui «l’uomo è veramente libero solo se si sottomette a quella volontà generale che egli non ha voluto ma ha semplicemente riconosciuto perché illuminato da coloro che sanno». Ma davvero siamo una popolazione senza patria in balìa di «quelli che sanno»?
Il patriottismo delle ricostruzioni
Come ricordava Renzo De Felice, a proposito della «Morte della Patria», è negli strati popolari che si trova la dignità nazionale: «Solo se si discende ai gradini ancora inferiori della scala gerarchica è possibile trovare un maggior numero di ufficiali che vissero il dramma dell’8 settembre senza mettersi sotto i piedi dignità nazionale, patriottismo, etica militare».
Proprio perché abbiamo avuto dopoguerra non gloriosi, è a partire dalle ricostruzioni realizzate unitariamente, da Nord a Sud, che vi è un sentimento di appartenenza, di identità e di orgoglio. Nell’Europa tra il XIX e il XX secolo un Paese considerato un puzzle di frantumazione e subalternità è diventato uno Stato tra i più moderni e democratici; usciti umiliati dalla Prima guerra mondiale l’Italia è risalita «alla pari» sulla scena europea; vinti e devastati dalla Seconda guerra mondiale si è realizzato un «miracolo» e si è arrivati al vertice della comunità mondiale; dopo l’azzeramento della classe di governo negli anni ’90 tra globalizzazione e crisi militari ed economiche l’Italia ha poi riconquistato e mantenuto una posizione competitiva nell’area europea.
Sono quattro capitoli di «ricostruzioni» fatte con il lavoro italiano realizzate con «sangue, sudore e lacrime», ma che hanno visto insieme una comune volontà di lottare e di risorgere diffuse con convinzione nell’intero territorio nazionale e in tante categorie di lavoro.
Certo il patriottismo delle ricostruzioni, delle risurrezioni e delle affermazioni del Lavoro italiano comporta il non avere sentimenti di odio e di disprezzo per quanto realizzato nel corso della storia nazionale. L’Italia liberale non fu «Italietta» e l’Italia fascista, pur nell’orrore della dittatura, ha visto sprigionarsi a tutti i livelli del lavoro spirito di sacrificio e creatività.
Dal secondo dopoguerra gli italiani si sono costruiti un primato passando da Paese agricolo a Paese industrializzato e dalla deindustrializzazione al terziario, pur mancando di materie prime e in un territorio difficile.
L’identità positiva, lo spirito di solidarietà, la ricerca di una competitivita con storia, cultura e territorio comuni e specifici significa avere una considerazione rispettosa dell’intera storia nazionale e, soprattutto, non vedere il mondo del lavoro come un girone infernale di sfruttati e profittatori; significa rendersi conto che lo sviluppo economico non è stato automatico e trainato, ma ha visto anche laboriosità e innovazione eccezionali.
Ciò è però inaccettabile per i cultori dell’Altra Italia, a cominciare dalla maggior parte dei nostri storici che insegnano la storia d’Italia come una catena di «illusioni riformiste» e «conati autoritari», come un susseguirsi di regimi politici negativi, coltivando il mito delle «occasioni perdute», del «Paese mancato», secondo cui le eccezionali ricostruzioni nazionali sono state infami restaurazioni capitaliste.
Siamo un Paese senza patriottismo perché ci è stata insegnata una storia nazionale di cui vergognarsi e in cui salvare solo — a macchia di leopardo — lotte, movimenti, ribellioni, inchieste giornalistiche e giudiziarie, libri, canzoni, film. Il patriottismo italiano in realtà è esistito ed esiste: è il patriottismo del lavoro solidale e combattivo, quel patriottismo spontaneo che, all’indomani della guerra, portava nei cantieri edili a festeggiare il raggiungimento del tetto facendo sventolare sull’ultima impalcatura il tricolore.
Un legittimo patriottismo si basa su una visione umana della storia nazionale ed è però naturalmente inaccettabile per chi ricostruisce la storia d’Italia secondo una lettura sostanzialmente classista, vivendo quindi, e volendo farci vivere, in un cartone animato di guerra civile senza fine.