[per gentile concessione dell’editrice Vita e Pensiero e dell’Università Cattolica]
Le tragedie dell’Africa nera sono conosciute: guerre, colpi di stato, decadenza economica, carestie, servizi pubblici a volte quasi inesistenti… Molti si chiedono, governi ed enti internazionali, ma anche associazioni e privati cittadini: cosa fare per aiutare i popoli africani? Risposta difficile perchè i problemi sono complessi e non esiste una risposta univoca.
di Piero Gheddo
Il 22 ottobre 1992 si è celebrata al Palazzo dell’ONU la Giornata per l’Africa, che ha proposto alcuni dati che fanno riflettere: dal 1980 al 1990 il prodotto nazionale lordo dell’Africa nera è diminuito da 225 a 190 miliardi di dollari, ma intanto gli africani sono aumentati del 25%; la produzione di cibo nel 1990 è stata inferiore del 15% rispetto al 1970, ma nel frattempo la popolazione è aumentata del 50% (2,5% l’anno): l’importazione di cibo, donato o acquistato, è oggi la maggior preoccupazione di molti governi africani.
I 450 milioni di persone che vivono sotto il Sahara (sempre escluso il Sud Africa) hanno complessivamente un reddito globale inferiore a quello della Svizzera, che però ha 8 milioni di abitanti. Nel 1980 l’Africa partecipava al commercio mondiale per il 3%, ma solo per l’1,3% nel 1990; il debito estero africano è passato dagli 8 miliardi di dollari del 1970 ai 221 nel 1990 (e ai più di 600 nel 1999). All’inizio degli anni novanta il quotidiano francese Le Monde scriveva: “L’Africa potrebbe scomparire negli oceani e il mondo quasi non se ne accorgerebbe”.
“Afro-pessimismo” o semplice realismo?
La tragedia dell’Africa oggi non è di essere sfruttata, ma marginalizzata, lasciata andare alla deriva. Dopo il crollo del comunismo, i paesi ricchi, le loro aziende e i loro capitali si sono orientati verso l’Europa dell’Est, l’Asia orientale (la Cina), il Medio Oriente. I missionari della Consolata in Tanzania mi dicevano pochi anni fa che gli occidentali stanno abbandonando il paese, dove tutto il possibile è acquistato con i soldi dei paesi arabi del petrolio, che non investono in opere produttive, ma usano l’economia come strumento per la diffusione dell’Islam.
Nel maggio 1995, il ministro degli esteri del Burkina Faso lamentava a Parigi che dal 1885 gli investimenti e gli aiuti internazionali ricevuti dal suo paese sono quasi dimezzati: “Gli sforzi che abbiamo fatto per uscire dal sottosviluppo e inserirci nell’economia moderna vengono mortificati e quasi ridotti a zero. L’Europa ci ricaccia indietro all’economia del baratto”.
È triste ricordare questi fatti. Di fronte ai quali mi pare diversivo e illusorio dire: “È colpa della Francia, è colpa dell’America, è colpa delle multinazionali…”. Il fatto concreto di cui prendere coscienza è che buona parte dell’Africa non è incamminata verso lo sviluppo, anzi regredisce. Lo dicono i dati dell’Onu e le persone che vivono sul posto.
Se passate a distanza di 10-20 anni dallo stesso paese (l’ho sperimentato in Tanzania, Mozambico, Zimbabwe, Guinea Bissau, Congo, Ruanda, Burundi, Etiopia, Eritrea, Somalia, Uganda, ecc.) e chiedete se il paese va avanti o indietro (come economia, stabilità politica, scuole, sanità, strade, servizi pubblici, ecc.) è difficile trovare chi affermi che progredisce!
Questi dati di fatto qualcuno li etichetta come “afro-pessimismo”! Se vogliamo essere davvero fratelli dei popoli africani, bisogna guardare in faccia alla realtà per non illuderci e illudere. Altri dicono: non vendiamo più armi! D’accordo, ma questo non risolve nulla: le armi di base ormai le producono tutti e le vendono Cina, India, Brasile, Pakistan, Iran, il Sud Africa di Nelson Mandela, che rifornisce di armi tutte le fazioni africane in lotta.
Il genocidio in Ruanda è stato compiuto con i bastoni e il fuoco. Altri ancora tirano fuori i discorsi sui “valori africani”: la solidarietà di villaggio, la capacità di condividere il poco che c’è, l’intelligenza e l’umanità degli africani… Ma qui non si parla dei ‘valori’, ma del come funzionano lo stato e i servizi pubblici, se c’è pace e crescita economica.
In una situazione di pace, gli africani hanno immense capacità e possibilità di sviluppo: ma in paesi in guerra, dove lo stato non esiste o non funziona, la situazione è tragica. L’Angola è in guerra dal 1975, anno dell’indipendenza. “La guerra ha fatto almeno 500.000 morti, 4 milioni di profughi, 100.000 mutilati su 12 milioni di angolani. Grande produttore di cereali, cotone, zucchero e caffè prima dell’indipendenza, oggi il paese non può nutrire i suoi abitanti, un terzo dei quali dipendono totalmente dall’aiuto internazionale. L’agricoltura e l’industria sono paralizzate da 40 anni di guerra: 1961-1975 guerra per l’indipendenza, 1975-2000 guerra civile…” (1).
Non è che in Africa manchino segni positivi: l’affermarsi di sistemi democratici, la scomparsa dell’apartheid e delle dittature socialiste (o comuniste), la crescita della coscienza dei diritti dell’uomo, la nascita di gruppi e associazioni, sindacati e cooperative, stampa libera, ecc. La tragedia è che non aumenta la produttività di cibo e non diminuisce il pericolo di guerre e colpi di stato.
Si prenda la Costa d’Avorio, fino a qualche anno fa citata come esemplare e in crescita. Dopo la morte di Houphouet-Boigny, il ‘padre della patria’ (1993), il paese è finito in mano ai militari: gli stranieri fuggono, le ditte e gli investimenti si dirigono altrove, gli africani che possono se ne vanno… Così anche in Guinea Bissau: il contrasto fra presidente e capo delle forze armate ha portato alla guerra civile (giugno 1998 – maggio 1999), che ha distrutto quel poco di moderno che c’era.
Si potrebbe dire: “diamo tempo al tempo”, lasciamo che gli africani trovino da soli la loro via. Il fatto è che fra dieci anni la popolazione africana sarà aumentata di circa 160-180 milioni e non ci sono segni forti di una ripresa della stabilità politica, degli investimenti e della produttività, soprattutto in campo agricolo. Dobbiamo accontentarci di mandare aiuti (che non si sa dove vanno a finire) e protestare contro la globalizzazione, le multinazionali, l’imperialismo americano, ecc.? Protestiamo pure, ma poi dobbiamo assistere impotenti alla deriva di un continente o si può fare qualcosa?
L’India esporta cibo, l’Africa ne importa
La maggioranza dei paesi africani importano dal 30 al 40% del cibo che consumano, mentre negli anni sessanta ne esportavano. E non si venga a dire che questo è a causa delle monoculture da esportazione. Ormai l’Africa esporta ben poco in campo agricolo. La causa radicale è la politica sbagliata seguita dopo l’indipendenza: privilegiare le città invece delle campagne, le forze armate invece dell’educazione del popolo.
Poco dopo l’anno dell’indipendenza africana (1960) René Dumont, agronomo francese a servizio di vari governi africani, profetizzava: “I governi a sud del Sahara stanno sbagliando tutto: l’agricoltura è all’ultimo posto nelle loro preoccupazioni, mentre dovrebbe essere al primo. Oggi producono cibo a sufficienza e ne esportano, ma continuando a privilegiare le città rispetto alle campagne ben presto non potranno più nutrire i loro popoli” (2).
Il popolo rurale africano è rimasto troppo indietro, non ha avuto educazione né assistenza da parte dello stato. Nell’agricoltura tradizionale africana si ignora la ruota, la carriola, il carro agricolo, l’uso dei fertilizzanti animali, la rotazione delle colture, la produzione di verdure, l’allevamento di animali da cortile, la trazione animale (le donne portano tutto sulla testa), la possibilità di riparare una pompa per l’acqua: durante la siccità nel Sahel, i due terzi delle pompe nei villaggi erano ferme perchè nessuno sapeva come ripararle o mancavano i pezzi di ricambio.
Le vacche producono 1-2 litri di latte al giorno (invece dei 20-25 in Italia), nei terreni risicoli si raccolgono 4-5 quintali di riso all’ettaro (invece dei 70-75 di Vercelli). Le industrie impiantate dall’Occidente producono meno del 50% o sono ferme: a Bissau, anche prima della guerra, le 15 industrie erano assolutamente ferme, arrugginite, saccheggiate dalla gente; la grandiosa riseria costruita dall’Italia, capace di produrre, se ricordo bene, 1.000 o 2.000 tonn. di riso al giorno, non ha mai funzionato: dico, mai funzionato!
L’economista tedesco Johannes Augel, che ha studiato per alcuni anni la Guinea Bissau, scrive: “Il problema di fondo dell’economia nazionale sta nel fatto che il paese produce pochissimo, quasi nulla, al di fuori dell’economia di sussistenza che permette al popolo di sopravvivere: deve importare quasi tutto quello che consuma, anche quei prodotti per i quali esistono in Guinea le migliori condizioni per raggiungere l’autosufficienza, a esempio il riso”. (3)
L’India, nell’anno dell’indipendenza (1947), con circa 340 milioni di abitanti, importava 2.900.000 tonnellate di cereali; 50 anni dopo, nel 1999, ha superato il miliardo di abitanti, non importa più cereali ma ne esporta in Medio Oriente, in Africa e persino in Russia. I governanti indiani hanno promosso la democrazia, l’educazione e l’assistenza alla gente dei campi: i risultati sono evidenti.
La produttività agricola è aumentata in media, dal 1950 al 1990, del 3,2% l’anno, mentre la crescita demografica non è mai stata superiore al 2,7% e oggi è dell’1,7%. Altro esempio: l’urbanesimo selvaggio, che assume proporzioni tragiche in Africa, in India quasi non esiste: il 75% del miliardo di indiani vive nelle zone rurali (o in cittadine sotto i 30.000 abitanti), perchè il governo ha portato ovunque strade, elettricità, scuole, assistenza sanitaria, mercati, credito agevolato per i contadini, democrazia, giustizia.
Al contrario, gli africani abitano per il 60% nelle città e, con le immense risorse naturali di cui godono, importano cibo e muoiono di fame (l’India è estesa 430.509 kmq. meno di Sudan ed Etiopia assieme che hanno solo 80 milioni di abitanti!).
E non si venga a dire che tutto questo è colpa delle multinazionali e dell’imperialismo americano!
Nel 1965 India e Pakistan soffrivano ancora di gravi carestie. Dopo la ‘rivoluzione verde’, hanno incominciato a esportare cereali. Dal 1965 al 1970 la produzione pakistana di grano è aumentata da 4,6 a 8 milioni di tonnellate, quella indiana da 12,3 a 20 milioni (4). È possibile in Africa simile rivoluzione agricola? No, poiché mancano tutte le condizioni per l’educazione del popolo all’agricoltura moderna: pace, servizi civili funzionanti nelle campagne, stabilità politica, investimenti nell’educazione, ecc. Fin che non si creeranno queste condizioni nelle campagne africane, la fame e il debito estero non potranno che aumentare e non per colpa dell’imperialismo e della globalizzazione!
Una tutela internazionale per l’Africa?
Come aiutare i fratelli africani? Negli anni novanta è venuta alla ribalta una soluzione proposta da autorevoli commentatori: una ‘tutela internazionale’ per quei paesi in preda alla guerra, che non riescono ad assicurare ai loro popoli stabilità, educazione del popolo, funzionamento dello stato e dei servizi civili. Dal 1960 al 1998 ci sono stati in Africa 72 guerre (20 delle quali ancor attive) e 112 colpi di stato.
L’intervento umanitario si è già realizzato con i ‘caschi blu’ dell’Onu, o con altre forze internazionali, in Somalia, Sierra Leone, Liberia, Congo, Guinea Bissau, Mozambico, nel conflitto fra Etiopia ed Eritrea… La proposta vuole assicurare stabilità e giustizia, per permettere ai popoli interessati di vivere una vita normale. Quando i militari di varie nazioni, sotto l’egida dell’ONU (operazione Restore Hope, restaurare la speranza), sono stati un anno e mezzo in Somalia (dicembre 1992 – aprile 1994), hanno portato la pace e avviato le scuole, i commerci, la coltivazione dei campi, addirittura il campionato nazionale di calcio!
Sono stato due volte in Somalia, nel 1978 e 1994 (quest’ultima volta con i militari italiani): le distruzioni della guerra civile erano spaventose (peggio di tutto è il saccheggio!), ma in un anno di pace il paese si stava riprendendo, i somali all’estero stavano ritornando. Se l’intervento straniero fosse durato dieci, vent’anni, ci sarebbe stata qualche possibilità di ridare al popolo un paese vivibile. Invece, appena partite le forze dell’Onu, la guerra è ricominciata e oggi non esiste più uno stato somalo.
In tali situazioni, i discorsi sui ‘valori’ africani e sul diritto all’indipendenza (che nessuno nega) non hanno senso. Non si può permettere che le guerre e il caos distruggano i popoli e l’immagine dell’Africa: bisogna adottare soluzioni concrete! La proposta della ‘tutela internazionale’ è però difficilmente realizzabile: quali sono quei paesi ricchi che si impegnerebbero ad assicurare la pace per dieci, vent’anni, con proprie forze armate e personale civile che aiuti i locali a organizzare e mantenere i servizi pubblici e lo stato funzionante?
Il disastro dell’ideologia ‘tutto e subito’, che negli anni sessanta ha preteso l’indipendenza immediata dei popoli africani in grandissima parte ancora analfabeti, oggi viene al pettine della storia. Due le colpe dell’Europa nei confronti dell’Africa: un colonialismo di rapina, poco preoccupato di educare i popoli africani e tirarli fuori dalla preistoria (è anche vero che la colonizzazione ha introdotto l’Africa nel mondo moderno, portando scuola, strade, sanità, il concetto di diritti dell’uomo e della donna, ecc.); e poi la concessione dell’indipendenza immediata quando quei popoli non erano preparati a governarsi.
Il Congo Belga è diventato indipendente nel 1960 con soli 14 laureati, in un territorio esteso sette volte l’Italia e con 15 milioni di abitanti! L’Africa rappresenta oggi la massima sfida per l’Europa: non possiamo procedere nella ricerca dell’Europa unita, con a fianco un continente senza pace e tormentato da fame e dittature, verso il quale abbiamo gravissime responsabilità storiche e attuali.
Anche l’Africa ha bisogno di Gesù Cristo
C’è ancora un discorso da fare, che spesso viene ignorato o sottinteso dalla stessa stampa e animazione missionaria. Diceva Madre Teresa, “la prima povertà dei popoli è di non conoscere Cristo”: perchè, quando noi cristiani parliamo di quel che si può fare per aiutare i fratelli africani, Gesù Cristo e la missione della Chiesa a volte non sono nemmeno nominati?
Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio
Prendiamo la campagna Chiama l’Africa lanciata negli ultimi anni da istituti e riviste missionarie, centri missionari diocesani, organismi di volontariato cattolico, ecc. Ottima idea rilanciare il tema Africa e aiuti all’Africa. Ma l’impostazione è parziale, crea confusione nell’opinione pubblica (5). Ho raccolto opuscoli e articoli, testi di conferenze e temi di convegni della campagna sull’Africa: si parla solo e sempre di problemi economici, rapporti commerciali, prezzi delle materie prime, debito estero, multinazionali, vendita di armi all’Africa.
La missione della Chiesa è del tutto ignorata. Anche l’Africa ha bisogno di Cristo! I 7.000 missionari e missionarie italiani in Africa si limitano a scavare pozzi e curare i lebbrosi? No, annunziano con la parola e la testimonianza di vita che la salvezza viene da Cristo, il Messia atteso anche dagli africani. A forza di tacere quello in cui crediamo, presentiamo la missione come una specie di Croce Rossa di pronto intervento dove ci sono piaghe da sanare, profughi da assistere, affamati da nutrire.
Giovanni Paolo II scrive nella Redemptoris Missio (n. 11): “La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una graduale secolarizzazione della salvezza, per cui ci si batte sí per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale. Noi invece sappiamo che Gesù è venuto a portare la salvezza integrale, che investe tutto l’uomo e tutti gli uomini…”.
L’Africa ha bisogno di una ‘rivoluzione culturale’. Le culture africane, pur apprezzabili per i loro valori, non portano in sé i germi dello sviluppo, hanno troppi elementi incompatibili con i diritti dell’uomo e della donna. Enrico Bartolucci, per lunghi anni direttore di Nigrizia (poi vescovo in Ecuador), scriveva: “Gli africani, prima che venissero tratti fuori dal loro isolamento, non cercavano il progresso, ma l’equilibrio, il mantenimento dello status quo. Non si preoccupavano di progredire, ma di non cambiare.
Non si trattava di dominare la natura, ma di adattarvisi. Voler trasformare la natura all’africano sembra un atto di arroganza contro le forze misteriose che dominano la natura stessa” (6). Si legga l’ultima biografia del beato Daniele Comboni e le relazioni sull’Africa dei suoi tempi (7), per capire l’estremo degrado umano del continente prima dell’incontro-scontro con la colonizzazione europea: il mito ‘terzomondista’ di un’Africa felice prima del colonialismo è radicalmente contro la realtà dei fatti.
Alioune Diop, direttore di Présence africaine, scriveva nel 1951: “Le nozioni di progresso, di rivoluzione, di cambiamento sono specifiche del genio europeo. Né la Cina né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i cambiamenti” (8). Axelle Kabou, camerunese, ha scritto: “Noi africani diamo la colpa ai bianchi perché non vogliamo guardare e correggere le nostre colpe; non ci sviluppiamo non per colpa dei bianchi, ma perché nella nostra cultura non accettiamo il principio dello sviluppo, del cambiamento” (9).
Il contributo più importante che la Chiesa offre ai popoli africani è l’annunzio del Vangelo. Giovanni Paolo II scrive nella Redemptoris Missio (n. 58-59): “La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale, ma dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa, sull’uomo, applicandola a una situazione concreta.
Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica”.
Bellissimo! Non si può impostare tutto il discorso sullo sviluppo in Africa centrandolo solo sui temi economico-tecnici! Continua la Redemptoris Missio (n. 58): “La Chiesa educa le coscienze, rivelando ai popoli quel Dio che cercano ma non conoscono, la grandezza dell’uomo creato a immagine di Dio e da lui amato, l’eguaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio, il dominio sulla natura creata e posta al servizio dell’uomo…” (10).
I missionari applauditi ma non imitati
L’unica via per lo sviluppo dell’Africa è l’educazione: una via lunga, ma non ci sono scorciatoie, non si passa dalla preistoria al mondo moderno in pochi decenni! Ad un dibattito svoltosi a Roma nel gennaio 2000, per la presentazione del fascicolo della rivista Limes dedicato a L’Impero del Papa, il ministro Giuliano Amato ha detto: “L’Africa è stata abbandonata da tutti, da Usa e da Urss. Fra le leve utili per sovvertire la deriva del continente africano c’è quella di entrare a far parte dell’impero del Papa, che può fornire uno dei pochi tessuti su cui ricostruire pace e speranza, ma anche i rapporti col mondo” (11).
Naturalmente la Chiesa non ha alcuna intenzione di assumersi le responsabilità che spettano agli stati. Ma questo dimostra quanto “oggi i missionari sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi” (RM n. 58). Il Vangelo è una critica radicale all’antropologia africana: i risultati che si ottengono nello sviluppo di un popolo sono dovuti proprio alla purificazione evangelica delle culture tradizionali.
Il dramma è che i missionari sono applauditi, ma poco aiutati e soprattutto non imitati nel loro approccio fraterno e disinteressato agli africani. Se, accanto ai missionari per vocazione, ci fossero non 300 volontari laici come oggi, ma 50.000 giovani di grandi ideali e disposti a sacrificarsi per qualche anno, naturalmente sostenuti dal proprio paese, forse l’Africa non sarebbe così lontana da noi.
“L’attenzione alla persona è alla base di ogni progresso”
Perché la Chiesa è fattore di sviluppo in Africa, soprattutto col messaggio del Vangelo? Un esempio concreto: in Guinea-Bissau, nel 1952 i missionari del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) sono stati i primi a vivere e lavorare tra i Felupe, non toccati dalla colonizzazione e ancora viventi secondo le loro tradizioni e sotto i capi locali.
Padre Giuseppe Fumagalli, sul posto dal 1968, afferma (12) che in passato fra i villaggi c’era un perenne stato di inimicizia e di guerra. Si combattevano con frecce, coltellacci e bastoni, imboscate nelle campagne, incendio di raccolti. Si viveva nel terrore di assalti notturni. In un’inchiesta fatta nel 1996, è risultato che il cristianesimo ha fatto superare le antiche inimicizie tra i villaggi e le famiglie.
Una donna anziana dice che quando lei era bambina, i suoi genitori non la portavano mai nel villaggio vicino, perché era considerato nemico. “Oggi ‘ dice ‘ i bambini giocano assieme e questo è grazie a Gesù”.
Tra i Felupe i missionari sperimentano che i cristiani, a parità di condizioni, si sviluppano più rapidamente degli altri. La spiegazione la fornisce ancora padre Fumagalli: “Le condizioni di vita dei Felupe sono sempre state di pura sopravvivenza. Coltivano quasi solo riso e manioca; producono anche un po’ di fagioli, ma solo per alcuni riti. Noi insistiamo perché facciano degli orti e altre colture, ma è difficile convincerli, perché non si va facilmente contro la tradizione, che non aiuta lo sviluppo”.
“Per ogni momento della vita dei campi c’è una serie di riti, che a volte frenano il progresso agricolo. Noi abbiamo alcune macchine agricole che usiamo solo per i campi della missione, perché anche per i cristiani è difficile andare contro le usanze, per paura di vendette e ritorsioni. Se si fa qualcosa cosa contro la tradizione, c’è sempre la paura di offendere gli spiriti. Certe colture nuove sono rifiutate per questo motivo. È l’elemento culturale che blocca o favorisce lo sviluppo. Nel mondo pagano c’è paura di qualsiasi novità”.
“Leggendo la Sollicitudo rei socialis (1987) ‘ continua padre Fumagalli ‘ mi ha colpito una frase di cui sperimento la verità: “Quando la Chiesa adempie la sua missione di evangelizzare, essa dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo” (n. 41). Ogni giorno tocco con mano che quando i Felupe diventano cristiani migliorano la loro vita, sia personale che familiare e di villaggio… (perché) progrediscono anzitutto nell’attenzione alla persona: questo è alla base di ogni progresso”.
“Vivendo in Europa, in ambiente di cultura cristiana (anche se siamo tutt’altro che buoni cristiani!), è difficile rendersi conto di cosa vuol dire una mentalità e una cultura pagana. Il cristianesimo dà sicurezza, serenità di spirito, perché il cristiano sa che Dio è Padre e ci vuol bene. Per svilupparsi, l’uomo ha bisogno di sentirsi amato, protetto, perdonato da Dio: il Felupe non conosce Dio, vive nel terrore delle forze misteriose che ci circondano, di cui ignora la natura e le intenzioni” (13).
Note
(1) “Jeune Afrique”, 5-11 dicembre 2000, p. 54.