Ipotesi sulle origini dell’umanità
Giuseppe Sermonti
Quando recensisco un saggio, talvolta cerco fra i nomi citati se ci sono gli «amici» miei. Negli Italiani nell’età della pietra di Giovanni Maria Pace (Longanesi), la ricerca è andata delusa.
Non ci sono due signore antropologhe, da cui ho appreso tanto, la francese Genet-Varcin e l’americana Landau. La Genet-Varcin si rifiutò all’idea di mettere gli uomini fossili in successione progressiva, errore già fatto (e rimediato) a proposito degli equidi, e la Landau ha scoperto che le teorie paleoantropologiche sono tutte versioni della storia dell’eroe universale nel folklore e nel mito, secondo gli studi sulla favolistica di Propp.
Mancano anche Bolk, cioè tutte le supposizioni sull’uomo come condizione fatale della scimmia, e Pilbeam che riconobbe che i caratteri umani sono primitivi e quelli della scimmia derivati. Mancano anche Goodman e Templeton, che su basi molecolari stabilirono che l’uomo era più antico delle scimmie quadrumani.
Templeton lo definì il Peter Pan dei primati, il bambino che non volle crescere.
Nessuno di questi autori si è occupato particolarmente dei fossili italiani, ma il libro di Pace, che descrive compitamente quei fossili, pone la loro storia in un quadro generale, che egli deriva dalla interpretazione ufficiale dell’origine dell’uomo. Questa interpretazione, se ignora tutti gli autori che ho citato (e tanti altri) rimane la visione ottocentesca, ideologicamente viziata, scientificamente arbitraria.
Pace si sarebbe giovato della lettura della Landau, carenza di cui non gli si può far colpa, perché l’antropologa americana è sconosciuta da noi. Pace però sembra intuire la tesi della Landau (che l’origine dell’uomo sia una favola), quando afferma introduttivamente che «le vicende del primo popolamento dell’Italia (…) sono di per sé un romanzo», o quando descrive gli eventi emersi dal giacimento di Isernia (736.000 anni fa) come «una telenovela durata giorni ed anni».
Ma come si può prendere sul serio per un solo minuto l’ipotesi di Lieberman (il padre della glottogenesi) sull’origine del linguaggio? Al tempo dei neandertaliani, secondo Lieberman, gli uomini parlavano troppo lentamente, e per dire «attenti alla tigre» impiegavano un tempo così lungo che la tigre poteva mangiarli con comodo. Oppure il loro linguaggio era cosi povero che era come se avessero una sola vocale e il grido d’allarme ittinti illi tigri! risultava confuso. L’Homo sapiens moderno, che parlava più svelto e con più vocali, prevalse sul predecessore.
Molte ricostruzioni del processo di ominazione indugiano tra favola e barzelletta. Johanson, scopritore del discutibile fossile noto come Lucy, soffre di mal di schiena. «Accidenti a quando ci siamo messi in piedi!», si lamenta. L’acquisizione della «scomodissima» stazione eretta si può spiegare solo se compensata da «buone, anzi ottime, ragioni»: usare le mani e fabbricare strumenti.
La scimmia appoggiata sulle nocche dovette avere una preveggenza inaudita. Stupida e ignorante com’era, ebbe l’idea di alzarsi sulle zampe posteriori e iniziare il viaggio verso l’umanità. Ci sono buone, anzi ottime, ragioni per ritenere che questa erezione non ci sia mai stata. Goodman, iniziando la sua analisi da osservazioni molecolari, tende ad attribuire al comune ascendente dell’uomo e della scimmia «una forte tendenza verso certi aspetti umani, come il bipedismo»: in altre parole pensa che la stazione eretta precedette quella inchinata.
Templeton è ancora più esplicito: «Gli uomini non si sono evoluti da ascendenti ambulanti sulle nocche: è molto più probabile che l’andatura degli scimmioni si sia evoluta da un particolare bipedismo». Johanson dovrà imputare il suo mal di schiena all’essere stato troppo chino sui suoi fossili. O troppo seduto in automobile.
Chi, confrontando il caracollare dello scimpanzé e la falcata di un atleta può pensare che quest’ultimo abbia assunto l’andatura sbagliata? Goodman e Templeton, le più serie mancanze della lista di Pace, sviluppano il loro argomento sulla base della considerazione che «l’ascendente comune» aveva il Dna quasi eguale a quello dell’uomo e cromosomi umani ed era quindi sostanzialmente un uomo.
Pace, che ha scritto un ottimo libro, ben documentato e tratto da fonti autorevoli, si è purtroppo messo sulla strada dei meno affidabili e dei più fantasiosi degli scienziati, i paleoantropologi. Ogni riferimento a fatti avvenuti e a personaggi realmente esistiti è puramente casuale.