Atlantico 1 Giugno 2021
di Andrea Venanzoni
Proprio in questi ultimi mesi, nell’infuriare della pandemia e nell’incedere sempre più pesante e pressante delle restrizioni alla libertà, l’editore Liberilibri ha nuovamente pubblicato il “Discorso sulla servitù volontaria” di Etienne de La Boétie, giurista e diplomatico francese del XVI secolo che ci ha lasciato questa opera fondamentale sul “mistero della obbedienza”.
Originariamente apparso nel 2004, dopo la prima traduzione fuori dai confini francesi operata dal Mises Institute di Auburn, Stati Uniti, e presto approdato da noi, con la pregevole introduzione curata da Murray N. Rothbard e, nella edizione italiana, con postfazione curata da Nicola Iannello e Carlo Lottieri, si tratta di un testo estremamente ridotto ma acutissimo che investiga la natura umana, il portato saliente della libertà e quella tendenza/tentazione che affiora nella civiltà umana a spogliarsi, volontariamente appunto, delle proprie garanzie, della propria sete di libertà e di massificarsi nella rincorsa cieca alla obbedienza.
Con buona pace di altre edizioni circolanti, che simbolicamente vorrebbero far apparire de La Boétie come una sorta di antesignano proto-anarchico comunista, la ricostruzione concettuale offerta è quella di un robusto liberalismo desideroso di indagare, investigare e decostruire la radice della rinuncia alla libertà, sotto le spoglie malmostose del farsi Stato: e non a caso l’autore si trova a vivere nell’incarnazione stessa, concettuale, figurata ed empirica, della montante sovranità statale, la terra patria di Jean Bodin, che assieme a Machiavelli ed Hobbes avrebbe gettato le radici feconde e tremende dello Stato moderno.
De la Boétie, al contrario, pone a vaglio critico la logica della maggioranza e la sua intrinseca tirannia, secondo uno spunto che avrebbe informato secoli dopo il pensiero liberale e libertario che nello Stato vedeva e vede una forma di coercizione, sia attraverso la tassazione sia attraverso la limitazione della libertà, mediante la finzione del patto sociale: l’apertura del testo è folgorante e sembra l’epitaffio di qualunque forma di accettazione della legittimità di uno Stato democratico basato sul principio di maggioranza. Sono le parole di Ulisse, riportate da Omero: “No, non è un bene il comando di molti: uno sia il capo, uno sia il Re”.
E se si fosse fermato a “molti”, dice l’autore, sarebbe stato un bene, e invece, certo per strategia visto il contesto della asserzione, Ulisse decise di legittimare, forse proprio per legittimare sé stesso, l’idea della tirannia regale come modalità di consolidamento del potere. La lezione di questo giovane pensatore francese è preziosa perché sfata il mito, imputridito, secondo cui la maggioranza avrebbe sempre ragione.
L’essenza stessa della democrazia è in fondo tirannia della maggioranza in danno della minoranza, delle minoranze e dei singoli individui, i quali sono spogliati, mediante tassazione, per patrocinare l’agenda politica della maggioranza stessa, secondo la linea concettuale di quel “costo dei diritti” evocato da Cass R. Sunstein e Stephen Holmes nel loro noto, omonimo libro.
Come nota acutamente Rothbard nella introduzione, il senso saliente dell’opera è l’opposizione tra legge naturale, la quale protegge e riconosce la libertà del singolo, e la servitù volontaria, per consenso, che statalizza la comunità. Non c’è alcun dubbio che lo stesso sistema democratico sia una forma di dispotismo, proprio perché basandosi su un assetto giuspositivo determina canoni di azione e di riconoscimento basati su procedure di maggioranza, le quali finiranno per estromettere le minoranze problematiche e le specificità dei singoli individui: non casualmente la democrazia tende alla ipertrofia, alla spesa pubblica in eccesso e spesso patentemente irrazionale, alla centralizzazione, allo sgretolamento delle autonomie territoriali, e tutto questo per sussidiare la servitù che appunto si basa su un assunto “volontario”.
Volontario, lo si precisa e specifica, perché la violenza che porta i molti a farsi soggiogare non è esibita, palese, sanguinaria, ma al contrario è più ellittica, suadente, liminale: si insinua nella coscienza degli individui, li corrode, li corrompe, facendo loro credere che la sete per la libertà del singolo sia solo becero egoismo. E per questo essi finiscono per prestare il consenso alla loro stessa riduzione in schiavitù.
Il consenso della maggioranza, che viene misurato mediante le tornate elettorali, è letteralmente “acquistato” mediante i meccanismi di redistribuzione delle risorse, prelevate mediante tassazione, e indirizzate per implementare determinate politiche segnaleticamente esibite per rinsaldare il proprio status quo. La democrazia, oltre che tirannia della maggioranza, è anche inno al conformismo: un peana di mediocrità che distribuendo risorse non proprie, non prodotte mediante libero scambio o ingegno, finisce per livellare tutti i cittadini verso il basso, determinando cioè la assoluta non convenienza della ipotesi dissonante, della genialità, della libera iniziativa.
Come ha ampiamente dimostrato Hans-Hermann Hoppe, qualunque flusso elettorale risolto dalla logica della maggioranza tenderà per fisiologica conservazione alla tutela esclusiva dei propri elettori di riferimento, quindi della massa stessa.
Nel cuore della pandemia, la logica cieca della obbedienza si è poi tinta di ulteriori, inquietanti sfumature: molto spesso, nonostante norme, regole e articoli dalla formulazione ambigua, dalla interpretazione ai limiti dell’arbitrio, nonostante la evanescente rispondenza al sistema delle fonti, la massa dei cittadini si è prostrata per accondiscendenza nei confronti del concetto di “salute pubblica”, nuova forma di feticcio tirannico elevato sull’altare dei dogmi contemporanei, assieme alla “democrazia”.
In questo senso il mistero dell’obbedienza è stato rinsaldato mediante una comunicazione feroce, dolorosa, ai limiti della pornografia, che attingendo a vette inumane di autentici ricatti morali, far cioè credere che chiunque mettesse in dubbio la vulgata istituzionale fosse un potenziale genocida alleato del virus, ha desertificato oltre alle libertà individuali e pure collettive anche il dibattito pubblico: esattamente come ogni critico della democrazia viene subito, ipocritamente, rubricato sotto la infamante dizione di sostenitore dei totalitarismi, allo stesso modo ogni critico della gestione pubblica della pandemia è stato fatto scomparire dal sociale, mediante la inserzione coattiva e frettolosa nella categoria dei complottisti o dei negazionisti.
E così la lezione di de La Boétie è davvero fresca ed essenziale, tanto più in un momento storico pericoloso e doloroso come il presente. Ricordando sempre, come scrive il giovane autore, che “la libertà è un diritto naturale, e a mio avviso bisogna aggiungere che siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche inclini a difenderla”.