Con un romanzo storico Giampaolo Pansa torna sul lato oscuro della Resistenza. Stavolta dalla parte della «gente comune»
di Andrea Galli
Glielo aveva detto una ragazza, a Roma, durante uno degli infuocati dibattiti dopo l’uscita de Il sangue dei vinti, nel 2004: «Lei deve scrivere il Via col vento della guerra civile italiana».
Consiglio seguito, in un certo senso: I tre inverni della paura, l’ultimo lavoro di Giampaolo Pansa, in libreria tra pochi giorni per i tipi di Rizzoli, è qualcosa di più un corposo romanzo storico: è l’epopea di una piccola provincia del nord Italia, quella di Reggio Emilia, dilaniata tra sogni e speranze di liberazione, dopo l’8 settembre del ’43, e una realtà fatta di sangue e terrore. Terrore troppo spesso «partigiano».
Pansa, perché la scelta di Reggio Emilia come ambientazione?
«Perché Reggio mi è sempre sembrata lo sfondo di una tragedia italiana che lì si coglieva meglio che altrove. Una zona cruciale a cavallo di altre altrettanto cruciali, Bologna e Modena a est, Parma a ovest. A quel tempo era poi una terra molto povera, piena di mezzadri, dove nelle campagne si conduceva una vita di stenti e fatiche, durissima. Ma soprattutto era la sede di un Partitone Rosso che, sia durante la guerra civile che dopo, è stato assolutamente egemone sulla vita della gente, anche per gli aspetti più brutali di quegli anni. Un partito comunista pesante – nel dopoguerra, per molti anni la federazione del Pci di Reggio ha conteso a quella di Siena la primazia in Italia – le cui vicende sono da manuale per capire quanto fosse falsa la retorica sull’unità della Resistenza. Certamente c’era un obiettivo comune fra le varie forze antifasciste, quello di liberare l’Italia dai tedeschi e dai fascisti. Ma le formazioni garibaldine, che erano straripanti, con il 95% della potenza bellica partigiana, volevano altro: non solo regolare i conti con tutti quelli che non erano stati con loro, ma cominciare a sgomberare il terreno da quelli che potevano, in qualche modo, mettersi di traverso al loro programma rivoluzionario».
E cosa volevano, una nuova rivoluzione d’ottobre?
«Diciamo che volevano fare dell’Italia un’Ungheria del Mediterraneo ».
Questo è il suo sesto libro sull’argomento, partendo da «I figli dell’Aquila». Non aveva già raccontato tutto il raccontabile?
«Mancava una cosa. Avevo il desiderio di parlare, accanto alle vicende di partigiani e tedeschi, di quello che è stato il protagonista silenzioso di quegli anni: la gente comune. Quella che si trovava tra le due parti in lotta come un vaso di coccio. Donne che avevano perso i figli e i mariti in guerra e che se li vedevano portare via, a guerra finita, per motivi spesso incomprensibili o abietti: sete di denaro, desiderio di dare una lezione al nemico di classe, al piccolo padroncino, al benestante, o a chi semplicemente contestava a voce alta la violenza dei ‘rossi’. Gente terrorizzata: l’assassinio dell’avvocato liberale, di don Pessina, del sindaco socialista di Casalgrande, del capitano Mirotti, che aveva combattuto con gli alleati, A Reggio Emilia due voci cattoliche sfidarono il «terrore comunista»: quella di Giorgio Morelli, partigiano e giornalista, morto per i postumi di un attentato, e quella del vescovo Socche la provincia disseminata di fosse piene di morti – ‘necropoli clandestine’ per usare l’espressione di uno storico reggiano di cui sono debitore, Sandro Spreafico – ecco, tutto questo diffondeva una paura che è difficile immaginare per chi non l’ha vissuta».
Nel libro torna una figura eroica, di cui lei aveva già parlato in altre due opere. Un partigiano cattolico, Giorgio Morelli, del tutto dimenticato dopo la sua morte.
«Sì, Morelli, il ‘Solitario’, è stato sepolto due volte. La prima quando è morto a soli 21 anni, per le ferite di un attentato subito dai partigiani garibaldini. La seconda volta perché poi nessuno ne ha più parlato. È caduto nell’oblio. Prima di scrivere questo libro sono andato a trovare sua sorella, una donna di ferro, che oggi ha più di 80 anni. Mi ha dato tutti i numeri de La Nuova Penna, il giornale che Morelli curò con il suo compagno di battaglie Eugenio Corezzola, e dove documentò il dilagare della violenza comunista a Reggio e dintorni. Un documento impressionante: quello che il sottoscritto ha cominciato a capire con 40 anni di ritardo, Morelli e Corezzola l’avevano capito subito. Due giovanotti di vent’anni secchi, che con un coraggio fuori dal comune, e una rara lucidità, hanno sfidato i padroni di Reggio e gli squadroni della morte comunisti».
Lei parla anche di monsignor Beniamino Socche, «l’ultimo vescovo principe di Reggio» come lo chiamò un suo biografo.
«È un altro personaggio del mondo cattolico che mi ha molto colpito. Era un combattente, Socche. Aveva una profonda devozione mariana, ma nemmeno la Madonna era riuscita ad addolcire la sua grinta. E non accettava quello che stava accadendo nella sua diocesi. Uno che dopo l’omicidio di don Pessina va direttamente da De Gasperi, a Roma, per dirgli: ‘Caro De Gasperi, tu sei al governo con i comunisti però sappi che a Reggio Emilia ci ammazzano i preti’. E De Gasperi, con quella sua aria un po’ fredda, da austroungarico, che gli ribatte: ‘Eccellenza, la linea è già tracciata: oggi con i comunisti, domani senza i comunisti, dopodomani contro i comunisti’».
Leggendo degli assassinii commessi dai partigiani nel reggiano, di cui si perde il conto, uno si chiede che fine abbiano fatto i tanti responsabili.
«Sono quasi tutti rimasti legati al Partitone Rosso, il Pci, e hanno obbedito alla regola numero uno: non parlare mai, assolutamente mai, di quello che era successo. Dopo la guerra hanno fatto un mestiere, hanno messo su famiglia, sono invecchiati e poi sono morti. Qualcuno è ancora vivo, però. Erano convinti di essere nel giusto: il Partito gli aveva chiesto di fare certe cose, loro hanno ammazzato, hanno sepolto le vittime in luoghi che non hanno mai rivelato, hanno continuato la loro vita. Il che può fare impressione, ma l’ideologia politica può essere una corazza che ti difende per tutta la vita. E loro si sono difesi in questo modo».
(A.C. Valdera)
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Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti Ed Sperling & Kupfer 2005