30 Luglio 2019
di Dino Capofrancesco
Leggendo sui giornali e ascoltando in tv i dibattiti suscitati da problemi complessi come lo jus soli o il dovere di accoglienza, rimango colpito dall’aggressività degli interlocutori, che non si risparmiano le accuse più infamanti e irreali (razzisti, fascisti, stipendiati da Soros, asserviti alla cricca di Bruxelles…), ma ancor più dal fatto che non ci si rende conto dello spartiacque epocale che divide il nostro tempo dal secolo scorso.
È come se non ci si accorgesse dello sconvolgimento etico e culturale di cui siamo spettatori o, a seconda dei punti di vista, vittime o beneficiari. Mi riferisco al tramonto della “comunità politica”, che nell’Europa continentale, aveva assunto le forme dello stato nazionale che fondava la nostra identità etico-sociale, facendo dell’appartenenza, del “noi”, quasi una necessità naturale e indiscussa.
Oggi ci si vergogna quasi a parlare di “noi e loro”, e i confini che delimitano i vari paesi e stati ci sembrano peggio che delimitazioni di proprietà, autentiche prigioni, che violano i diritti universali degli individui, ciascuno dei quali è sacro, irriducibile agli altri, in ciò che ha di singolare, e nello stesso tempo eguale a tutti gli altri, in quanto figlio di Dio o di una Natura, madre benigna e pia, che le divisioni politiche, religiose, culturali economiche tendono a calpestare.
Assistiamo oggi all’incontro tra l’universalismo cristiano – si veda il messaggio paolino per il quale non ci sono più greci, ebrei, romani etc. giacché tutti possiamo essere redenti nel segno della Croce – e l’universalismo illuministico – per il quale gli Stati e le loro guerre non nascono dal “legno storto dell’Umanità”, come ancora pensava Kant, traducendo in termini laici l’idea del peccato originale, ma dagli appetiti di potenza di monarchi e di sacerdoti.
Forse con una variante, non poco significativa che, prima della secolarizzazione, erano gli illuministi che si legittimavano richiamandosi a un cristianesimo privo di superstizione, nella nostra epoca, invece, sono i cattolici che vogliono essere accettati da una società che vede le chiese sempre più vuote, richiamando le benemerenze acquisite con l’avere instillato nei cuori umani l’idea dell’eguaglianza.
Si tratta di un universalismo portato a guardare chi non ne condivide i valori alla stregua di un essere asociale – chiuso nel suo egoismo familistico, di classe, di nazione – per nulla disposto ad aprire le porte di casa a quanti sono privi del pane quotidiano. Ma soprattutto ci troviamo dinanzi alla santificazione dell’individualismo: sia dell’individualismo del mercato – gli uomini stanno tutti sullo stesso piano in quanto si scambiano utilità reperibili nell’intero pianeta – sia dell’individualismo dei diritti – gli uomini, in quanto tali, hanno le stesse libertà di movimento e debbono avere le stesse tutele giuridiche.
Come spesso ho fatto rilevare anch’io, l’Economia (Adam Smith) e il Diritto (i Lumi, Voltaire) hanno estromesso dal mondo umano la politica e hanno reso il diritto interno degli Stati un diritto inferiore, che deve retrocedere dinanzi a istanze etiche e umanitarie superiori. In altre parole, a fare le leggi dev’essere soprattutto Antigone nel senso che gli “agrafoi nomoi” impressi dagli dei nel cuore umano vanno considerati come le norme primarie che invalidano le leggi di Creonte (sempre più tenuto sotto controllo) ogni volta che siano in contraddizione con esse.
In tal modo, noto incidentalmente, vien meno il senso della tragedia antica che, come aveva visto Hegel spesso citato in proposito, consisteva nel conflitto tra due ragioni non tra una ragione e un torto. Questa filosofia della buona samaritana non è un parto della follia buonista che si sta impadronendo di tante persone (e soprattutto di quelle colte), ma è un portato della rivoluzione culturale che a macchia d’olio sta invadendo tutta l’area atlantica e, soprattutto, l’Italia, per diverse e complesse ragioni storiche.
Ci sarebbe da rallegrarsene se a farne le spese non fosse la capacità di guardare al mondo e alla storia in modo realistico, dimenticando che la “pianta uomo” affonda le sue radici nel passato e nella tradizione e che i suoi rami tanto più rigogliosi si protendono verso il cielo – cioè verso il progresso – quanto più robuste sono quelle radici.
Gli uomini e le loro tribù sono corpo e anima, kratos ed ethos, comunità e società, egoismo e apertura al prossimo. Sottovalutare o ignorare bisogni e interessi non universalizzabili perché riguardano solo una famiglia, un territorio, un paese – significa esporsi alla reazione violenta e primitiva del rimosso.
La grandezza dell’Occidente, non lo si ripeterà mai abbastanza, è consistita nell’arte di tenere in equilibrio (un equilibrio sempre precario) il particolare e l’universale, il momento economico e quello etico – per dirla col vecchio Croce – la materia e lo spirito. È agli imperi antichi, che hanno conquistato popoli e città – da quello informale ateniese a quello romano – che si deve la grande cultura di cui ancora ci nutriamo spiritualmente.
La Francia diventata “grande potenza” grazie a Richelieu, ci ha dato il siècle de Louis XIV e, prima ancora, la Spagna il suo siglo de oro. Le grandi produzioni dello spirito nascono da una poderosa civitas che si traduce in humanitas e le guerre vittoriose, assieme all’egemonia politica, portano quella culturale – v. l’invasione, spesso deprecata, di tutto ciò che viene dall’America, da Hollywood al jazz.
Si può sciogliere il “particolare” in un insieme più vasto (ad es., lo stato nazionale in uno stato europeo, federale o no) ma rimarrà sempre una realtà politica dura, irriducibile, che non potrà appartenere a tutti e che dovrà essere difesa da quanti bussano alla porta in nome del “diritto cosmopolitico”.
In un denso saggio sulle democrazie illiberali, “Un’altra Europa”, pubblicato sul Foglio il 4 agosto dello scorso anno, lo scienziato politico tedesco-americano Jan-Werner Mueller giustamente metteva in guardia dal populismo e dai suoi leader euro-orientali ma mostrava di non cogliere minimamente le ragioni del loro successo, ricercate, sostanzialmente, nell’abilità demagogica.
Dalle degenerazioni di quelle che chiama le “democrazie danneggiate”, a suo avviso, si esce solo rendendosi conto che lo stato nazionale è incompatibile con la vera democrazia. Ne erano consapevoli i democratici cristiani che “storicamente hanno considerato la sovranità dello Stato-nazione con profonda diffidenza. In Italia e in Germania, in modo particolare, durante la seconda metà del XIX secolo, i cattolici erano molto scettici nei confronti dei nuovi stati nazionali unificati.
Non è un caso che i promotori dell’integrazione europea durante agli anni Cinquanta fossero democratici cristiani che non riconoscevano alcun valore particolare allo Stato-nazione in quanto tale”. In realtà, la faccenda è molto più complessa. Lo stato nazionale è stato il ponte lanciato tra le due sponde della comunità chiusa e della società aperta.
Da una parte, ha “escluso”, fissando frontiere che dividevano francesi e spagnoli, italiani e svizzeri etc.; dall’altra, ha “incluso”, rendendo giuridicamente irrilevanti le vecchie appartenenze di genere, di religione, di territori, di etnie. In quanto nazionali, si è italiani e non tedeschi, portoghesi etc., ma in quanto italiani non si è più siciliani o lombardi, toscani o trentini, cattolici o ebrei e, col tempo, è indifferente essere uomini o donne.
Il simbolo del coté societario dello stato nazionale è l’apertura del ghetto romano e prima ancora lo Statuto albertino, in ricordo del quale non pochi ebrei piemontesi venivano chiamati Carlo Alberto. È superfluo, forse, ricordare che il fascismo e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale hanno screditato agli occhi degli italiani lo stato risorgimentale ma sarebbe imperdonabile dimenticare che senza stato (luogo privilegiato della politica) i diritti non troverebbero nessuna palafitta di sostegno e in mancanza di questa a farne le spese sarebbero i più deboli, esposti alle vicende alterne dell’economia globale e a emigrazioni incontrollate, certo non temibili dai “quartieri alti”.