Quante divisioni ha la verità?

Victor Zaslavsky

Victor Zaslavsky

Tempi 10 dicembre 2009

Victor Zaslavsky, lo storico che ha svelato il fardello ideologico che pesa sulla politica italiana. Quello del comunismo dell’Urss

di Marco Respinti

«È arrivato il tempo di studiare gli effetti sulla coscienza popolare e sull’idea di democrazia in Italia dello straordinario successo del Pci nel mantenere per anni compattamente schierati dalla parte dell’Unione Sovietica sia il gruppo dirigente che larga parte della classe operaia italiana».

Il contributo, enorme, dato da Victor Zaslavsky (sue queste parole) agli studi storiografici sul comunismo sovietico sono una miniera d’oro che ancora a lungo si continuerà a scavare. Ma ancora maggiore è la limpida chiarezza che lo storico russo ha portato sulla dimensione morale, quindi politica, del fardello ideologico che troppo a lungo ha pesato e ancora pesa proprio sull’Italia, il paese che Zaslavsky ha eletto, dopo anni di peregrinazioni in Occidente, a sua nuova casa.

Nato a San Pietroburgo il 26 settembre 1937, e scomparso a Roma il 26 novembre scorso, Zaslavsky si è laureato in storia nell’università statale della sua città natale e poi ha scelto l’Occidente, per la precisione il Canada, divenendone pure cittadino; quindi ha svolto intensa attività di ricerca sull’Unione Sovietica e sulla politica ideocratica che l’ha caratterizzata per lunghi decenni, ma pure sulla Russia postcomunista, spesso, troppo spesso divisa fra revanscismi e nostalgie, ritorni di fiamma e confusioni etico-politiche, insomma sempre ancora alla ricerca e di se stessa e di una collocazione stabile sullo scenario internazionale.

Zaslavsky ha poi optato definitivamente per l’Italia, sposandosi con la collega storica Elena Aga-Rossi (le parole sopra citate portano, a onore del vero, la firma di entrambi), compagna di vita ma anche di studi, e assumendo la cattedra di Sociologia politica nella facoltà di Scienze politiche dell’Università Luiss-Guido Carli di Roma. E così il suo interesse professionale e umano per le vicende del marxismo-leninismo internazionale sono vieppiù divenute l’attenzione specifica e particolare alla storia del comunismo italiano.

D’importanza fondamentale sono infatti le opere che lo storico russo-canadese ha dedicato all’Urss, come l’imprescindibile Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo (Carocci, Roma 2001), o i volumi Il consenso organizzato. La società sovietica negli anni di Breznev (il Mulino, Bologna 1981) e Dopo l’Unione Sovietica. La perestrojka e il problema della nazionalità (il Mulino, 1991), così come decisivi sono alcuni suoi lavori monografici, per esempio il giustamente noto Pulizia di classe: il massacro di Katyn (il Mulino, 2006); una ricerca, questa, che finalmente documenta quanto nessuno o aveva il coraggio di dire o riusciva a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio, ma che comunque i sovietici hanno negato fino al 1953: l’eccidio di 4.500 ufficiali polacchi fatti prigionieri, in nome di un’aberrante dottrina sociale.

Il mito della purezza morale

Ma la questione per cui il nome di Zaslavsky andrà sempre ricordato con profonda riconoscenza e pure affetto è il contributo supremo che lui, straniero innamorato del nostro paese, ha offerto alla storia dell’Italia contemporanea, principalmente a quel suo lungo tratto che, dopo la Seconda guerra mondiale e con l’avvento della repubblica antifascista, una parte considerevole, anche numericamente, delle forze culturali e politiche in campo ha avuto buon gioco nello sfigurare a suon di bugie colossali.

La storia, cioè, del Partito comunista italiano, che, imitando lo stalinismo, si è accreditato come l’unico detentore della necessaria purezza morale adatta a guidare la neonata repubblica, e questo in nome del passato di lotta antifascista. Affermando, cioè, che l’antifascismo è la condizione sufficiente a guadagnarsi la patente di democraticità, ovvero che il comunismo, in quanto antifascista e antifascista per eccellenza, è automaticamente sinonimo di democrazia.

La vulgata ha per esempio spiegato in questi termini la decisione, presentata come storica, di Palmiro Togliatti, nel dicembre 1944, di guidare i comunisti italiani alla convergenza con i partiti non comunisti in nome della lotta antifascista e quindi alla costituzione del Comitato di liberazione nazionale.

Apparentemente prova di enorme buona volontà, la manovra di Togliatti è stata però smascherata da Zaslavsky, il quale ha lucidamente dimostrato quanto e come essa fosse solo una mossa del tutto concordata con Mosca, anzi esattamente confacente alla strategia di Stalin, il quale si era reso conto di come fosse giunta l’ora di abbandonare, in Italia, ogni velleità insurrezionale onde iniziare un lungo ma più proficuo cammino di conquista del potere per via democratica dentro le istituzioni.

Fu così che la mossa acutamente gramsciana e perfettamente staliniana del “Migliore” legittimò, per i decenni a venire, il Pci quale interlocutore politico affidabile e alla fine pure titolato, esso o i suoi discendenti diretti e ancora comunque debitori al paese di una qualsiasi forma di autocritica, della titolarità del potere politico o della direzione dei vertici delle istituzioni nazionali. Zaslavsky lo ha illustrato sagacemente in opere quali Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di di Mosca (il Mulino) pubblicato con Aga-Rossi nel 1997 e in versione accresciuta nel 2007, e Lo stalinismo e la sinistra italiana. Dal mito dell’Urss alla fine del comunismo, 1945-1991 (Mondadori, Milano 2004): i dirigenti comunisti italiani erano di fatto agenti inviati da Mosca in Italia a svolgere ordini precisi. Nessuna differenza, se non, appunto, di tattica, peraltro studiata a tavolino.

Il Pci non è mai stato cioè, come falsamente preteso troppo a lungo, autonomo da Mosca. Ogni azione del comunismo italiano, sia di svolta sia di continuità, è sempre stata architetta assieme al Pcus. Alla faccia della propria pretesa superiorità morale sbattuta perennemente addosso agli avversari, il Pci ha vissuto di rendita moscovita per decenni, ma in realtà non può essere in alcun modo considerato come fatto della medesima pasta, democratica, delle altre forze politiche italiane. Obbediva infatti a una regia straniera, prendeva ordini e denari dalla casa madre del peggior totalitarismo che esistesse all’epoca e svolgeva mera funzione strumentale all’avanzamento delle prospettive e delle politiche del comunismo sovietico.

La liberazione dalle leggende

Zaslavsky ha scritto, ha documentato, ha puntato il dito con la serenità che contraddistingue i forti; ma l’operazione di purificazione della memoria la sinistra italiana, che nei suoi gangli dirigenti e pensanti affonda le proprie radici in quel passato di menzogna e dolore, non ha neppure accennato a volerla intraprendere.

Quando finalmente si deciderà a farlo, potrebbe opportunamente partire meditando in cuor proprio la frase con cui Zaslavsky e Aga-Rossi concludono il loro Togliatti e Stalin: «Il momento di una sobria ed equilibrata analisi dell’esperienza totalitaria del XX secolo è arrivato. L’appoggio dato dagli intellettuali allo stalinismo è stato un aspetto importante di questa esperienza e non può e non deve essere cancellato dalla memoria storica.

Esso rimane l’esempio più clamoroso di “tradimento dei chierici” e la sua comprensione e interpretazione richiedono non soltanto nuovi strumenti di analisi e di valutazione, ma in primo luogo un atteggiamento culturale diverso e una ripresa della ricerca storica liberata dai miti, dalle leggende e dalle ideologie create dallo stesso stalinismo».

Fino a che questo non succederà, l’Italia resterà un paese zoppo.

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