Gli articoli apparsi su L’Occidentale a firma di Sergio Belardinelli (28 settembre) e Daniela Coli (14 ottobre) mostrano con ricchezza di argomentazioni la difficoltà italiana, che è anche quella di buona parte del mondo occidentale, di capire esattamente che cosa sia il multiculturalismo.
di Luca Codignola
Insomma, come anche per il Sessantotto, anche per quanto riguarda il multiculturalismo siamo ormai all’alba dei quarant’anni. Ma mentre del Sessantotto si parla ormai soltanto come di un evento del passato come può esserlo il Risorgimento (con la differenza che molti reduci del Sessantotto non sono ancora morti), il multiculturalismo viene tirato in ballo a ogni pié sospinto per indicarvi la causa di tutti i mali (di solito in coppia con “relativismo”) o il motore immobile dell’ineluttabile progresso dell’umanità (e qui la coppia logica viene fatta con la “tolleranza”).
In realtà ciò che sembrava molto semplice e molto bello all’inizio, vale a dire quarant’anni fa, si è terribilmente complicato e imbruttito nel corso di questi suoi quarant’anni di vita, un po’ come il bel bambino che a cinque anni è una stella del pianoforte nell’Orchesta Suzuki e che poi, invece di diventare un nuovo Glenn Gould, a quarant’anni suona in un piano-bar e supplisce alla delusione del mondo tirando cocaina.
Multiculturalismo, dunque, semplice e bello all’inizio: come ci si poteva dire contrari al fatto che le comunità etniche “nuove”, cioè non fondatrici dell’identità nazionale, potessero non soltanto contribuire e partecipare alle opportunità offerte dal paese d’adozione, ma nel contempo conservare l’identità culturale di origine?
L’idea di fondo era sostanzialmente la stessa che sottintendeva la politica di favoritismo nei confronti sia delle donne che delle “minoranze visibili”, nata anch’essa in quegli stessi anni: quella che sostituiva l’ormai antica idea di “equal opportunity” con quella apparentemente più moderna di “affirmative action”.
Multiculturalismo, invece, molto complicato e imbruttito in età adulta: come negare che le comunità “nuove” siano spesso rimaste delle entità separate all’interno del paese di adozione? Che quelle stesse comunità abbiano prodotto dei meccanismi di conflitto generazionale al loro interno proprio rispetto al livello accettabile di integrazione nella nuova cultura o di mantenimento di quella di origine?
Come negare, come ricorda Daniela Coli nel suo articolo, che quelle stesse comunità “nuove” abbiano prodotto al loro interno gruppi violenti ed intolleranti proprio nei confronti di quella società che non soltanto ne tollerava le differenze, ma anche ne apprezzava la “diversità”? E, ultimo ma non per importanza, come mai il paese occidentale in cui oggi è più alta la sintesi tra tolleranza del diverso e integrazione sociale sono quegli Stati Uniti nei quali tradizionalmente l’unica strada che si apriva davanti a ogni nuovo arrivato era quella dell’americanizzazione forzata a livello culturale (il melting pot), e quella del “rimboccarsi le maniche” a livello economico?
In effetti il Canada, nonostante il suo multiculturalismo conclamato e a suo tempo pionieristico, sta tornando rapidamente sui suoi passi. Il governo federale sta rapidamente sposando la vecchia tesi, un tempo propria soltanto dei quebecchesi della Confederazione, dei “due popoli fondatori” (quello francofono e quello anglofono), per negare la tesi della società “dalle molte culture”, inclusa quella di origine francese.
Anzi, quello stesso governo ha recentemente riconosciuto alla provincia del Québec lo status di “nazione” — una nazione che, vale la pena di ricordarlo, è al 70 per cento contraria al togliere i crocefissi dagli istituti pubblici, all’uso pubblico dell’hijab islamico, nonchè, naturalmente, a cambiare il nome alle centinaia di cittadine che sono state battezzate con il nome di un santo cattolico (Saint-Jean, Saint-Hubert, etc.).
Non che i quebecchesi siano improvvisamente tornati cattolici come prima della Rivoluzione Tranquilla degli anni sessanta. Semplicemente essi rifiutano di riscrivere la loro storia a uso delle minoranze islamiche che hanno accolto a casa loro (di queste infatti soprattutto si tratta).
L’Australia, altro paese tradizionalmente aperto e tollerante (un quarto dei suoi abitanti sono nati altrove), si sta muovendo nella stessa direzione del Canada. Gli scontri della marina di Sydney del 2005 hanno convinto il governo della necessità di imporre ai nuovi arrivati l’adesione a un certo numero di “valori australiani”, quali la tolleranza, la parità tra i sessi e la libertà di espressione, nonché di verificare il loro grado di conoscenza della lingua inglese e dei fatti basilari della vita del paese da effettuarsi tramite questionari a risposta multipla.
Per rimanere nell’ambito dei paesi di lunga tradizione di accoglienza, la Gran Bretagna, com’è noto, sta cercando soluzioni ai suoi non piccoli problemi lungo percorsi consimili a quelli delle sue due grandi ex colonie. Ma anche in questo caso è più che evidente la concomitanza, apparentemente paradossale, tra multiculturalismo inteso come politica governativa propositiva e normativa, e intolleranza nei confronti del paese di adozione da parte di gruppi che provengono dalle comunità “nuove” e che propongono soluzioni nichiliste (anche qui la matrice islamica è fondamentale, senza però dimenticare altre minoranze variamente attive quali i Sikh e i Tamil).
Le stesse comunità etniche e religiose a cui appartengono questi gruppi nichilisti hanno un atteggiamento spesso giustificatorio e comunque contradditorio. Eppure la Gran Bretagna ha una lunghissima tradizione di accoglienza delle minoranze”visibili”, provenienti soprattutto dalle sue ex-colonie, il cui livello di “integrazione” è stato certamente superiore a quello delle minoranze arrivate in epoca di multiculturalismo.
Quanto all’Italia, basti qui dire che nonostante il bla-bla-bla sulla bellezza del multiculturalismo e sulla cittadinanza universale di cui nessun esponente politico ha il coraggio di fare a meno, se un amico dell’ex Terzo Mondo chiedesse il nostro parere, gli consiglieremmo sinceramente di non venire. Gli diremmo che non troverebbe che difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, nessuna tradizione o struttura di accoglienza (se non da parte della Chiesa cattolica), una burocrazia spaventosa, un mercato immobiliare impossibile, un sistema bancario antiquato.
Soprattutto, lo metteremmo in guardia nei confronti di quel mondo illegale, parallelo e alternativo rispetto a quello istituzionale, che senza dubbio gli aprirebbe la strada verso la ghettizzazione e la criminalizzazione. Forse consiglieremmo al nostro amico la via dell’Italia soltanto perché è qui è più facile entrare (o quantomeno rimanere), per poi eventualmente proseguire verso gli altri paesi dell’Unione Europea.
Peraltro nell’Unione Europea non è che la situazione complessiva sia sostanzialmente diversa dall’Italia — Scandinavia inclusa ed escluso forse il Portogallo — anche se per la vita di una persona proveniente da chissà quali sofferenze anche differenze apparentemente impercettibili ll’occhio occidentale possono essere molto apprezzate da chi le sperimenta su di sé.
Si potrebbe obiettare che è sempre stato così; che nella storia del mondo qualunque comunità “nuova” ha pagato il suo prezzo iniziale di violenza e disumanità, nonché di razzismo e di diseguaglianza, per preparare la strada all’integrazione delle generazioni future. Ciò è senz’altro vero. Ma tra il passato e il presente c’è una differenza importante, per non dire sostanziale: quella tra multietnicità e multiculturalismo.
Con multietnicità intendiamo la contemporanea presenza in uno stesso luogo di comunità di origine etnica diversa. In questo senso, dunque, la multietnicità è sempre esistita — nella Genova del Duecento così come nella New York dell’Ottocento o nella Milano del Duemila. Si tratta di uno di quei fenomeni “ineluttabili” della storia dell’umanità che (al pari del fenomeno delle migrazioni, individuali o di massa, o di quello più recente della globalizzazione), non è mai stato prevedibile, pianificabile, e ancor meno controllabile. La multietnicità, dunque, è un dato di fatto.
Con multiculturalismo invece intendiamo una politica, vale a dire una scelta cosciente operata dalla classe dirigente, la quale vorrebbe affrontare la realtà della multietnicità per risolverne i problemi sul terreno culturale (qual è quello dell’identità). La logica politica del multiculturalismo è però intrinsecamente contraddittoria. Da una parte, i problemi delle società multietniche vengono attribuiti, quasi non ce ne fossero altre, a cause “economico-sociali” (o “economiche e sociali”), secondo lo il classico schema ideologico proposto dal marxismo ormai ampiamente condiviso nonché banalizzato.
Dall’altra, poiché nessuno ha ancora trovato il modo di eliminare rapidamente tali cause economico-sociali – e chi ha provato a farlo con utopie rigeneratrici ha provocato soltanto ulteriori e ancor più gravi disastri – ecco che con altrettanto utopismo i leader “progressisti” del mondo occidentale si sono inventati la soluzione “multiculturalista”.
Il multiculturalismo, dunque, non è un dato di fatto, ma una scelta cosciente.
Ma se si tratta di una politica cosciente e non di un evento incontrollabile, fino a che punto il multiculturalismo è stato utile ad alleviare i problemi delle comunità multietniche? La mia personale opinione è che la funzione del multiculturalismo nei paesi che per primi l’hanno adottato non sia stata negativa, ma nemmeno fondamentale. Nella pratica, quei paesi che non hanno adottato quella politica sono arrivati sostanzialmente agli stessi risultati.
Nessuna “causa” è stata rimossa. Nessun problema è stato eliminato. In effetti, Canada e Australia stanno abbandonando il multiculturalismo. Stati Uniti e Gran Bretagna (quest’ultima soprattutto con il primo ministro Gordon Brown) ci stanno ripensando. In Europa, paesi socialmente “avanzati” come quelli scandinavi o i Paesi Bassi da tempo si chiedono dove mai abbiano sbagliato.
L’Italia è arrivata buona ultima al multiculturalismo. (Il centro-sinistra, ora incarnato soprattutto dal Partito Democratico, ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia.) Ma l’Italia arriva al multiculturalismo soprattutto per via ideologica, confondendo cioè il lato morale (“nessuna cultura deve essere discriminata”) con il lato pragmatico (“il multiculturalismo migliora la vita delle persone?). È questa tra morale e pratica un’ulteriore confusione che si va ad aggiungere a quella tra multietnicità e multiculturalismo.
Quarant’anni di esperienza ci consentono invece di fare chiarezza su due punti fondamentali che dovranno essere tenuti presenti dal prossimo governo. Il primo punto è che, per quanto riguarda la multietnicità, bisognerà impegnarsi non tanto a “pianificare l’avvenire” (altra utopia deleteria), quanto piuttosto a far fronte a quelle crisi che periodicamente si verificano e che derivano da eventi e movimenti che, bisogna avere il coraggio di ammetterlo, sono nel loro complesso tanto incontrollabili quanto lo è l’eruzione di un vulcano.
Il secondo punto è che il multiculturalismo, in quanto politica cosciente, va abbandonato, sia perché non serve più a soddisfare le nuovi crisi nelle quali si dibatte l’Italia insieme al resto del mondo occidentale, sia perché la sua presenza impedisce di voltare pagina e di aprire nuovi spazi. Questi consentiranno di immaginare soluzioni volte non tanto a rimuovere utopisticamente le “cause dei problemi”, quanto piuttosto ad alleviarne le conseguenze.
In fondo, il multiculturalismo è stato immaginato quarant’anni fa proprio per il bisogno di voltare pagina. Se è stato utile, ora non lo è più. Giriamo la pagina, e inventiamo qualcosa di nuovo.