La Nuova Bussola quotidiana
18 maggio 2017
di Anna Bono
In un certo senso è una buona notizia. Il 5 maggio due funzionari nigeriani incaricati di assistere le popolazioni colpite da carestia nel nord est del loro paese sono stati condannati a due anni di prigione per aver venduto del cibo donato dalla cooperazione internazionale, invece di distribuirlo alle famiglie in difficoltà. Al momento dell’arresto avevano già sottratto dai magazzini 300 sacchi di riso.
Il direttore del Comitato di emergenza dell’Onu per i disastri, Saleh Saeed, il 15 marzo aveva avvisato che cose del genere sarebbero potute capitare: tuttavia, aveva detto, la situazione in Nigeria, Yemen, Somalia e Sudan del Sud (i quattro stati che all’inizio di marzo hanno dichiarato lo stato di carestia) è talmente grave che non importa se, come al solito, una parte dei fondi andranno perduti, verranno dirottati dai governi e finiranno nelle mani di gruppi armati. La buona notizia, allora, è che una volta tanto, finalmente, persone che si sono appropriate di generi di prima necessità destinati a salvare la vita a gente che muore di fame sono state arrestate e condannate.
In Nigeria è la prima volta che succede. C’è di più. Sempre in Nigeria in questi giorni sono in corso indagini su come vengono gestiti gli aiuti d’emergenza per far fronte alla crisi umanitaria nel nord est. L’inchiesta si è da poco estesa ai vertici della Nia, l’Agenzia investigativa nazionale, in seguito al ritrovamento di oltre 43 milioni di dollari in contanti in un appartamento usato dall’agenzia. Il presidente Muhammad Buhari ha ordinato la sospensione del direttore della Nia, Ayo Oke, il 19 aprile e di un suo stretto collaboratore, David Babachir Lawal, il 3 maggio.
In Kenya invece, negli stessi giorni, a essere stati sospesi sono una parte dei fondi che gli Stati Uniti forniscono al ministero della sanità. Nell’annunciarlo, l’Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale, ha fatto sapere che il provvedimento si applica a stipendi, salari, spese di viaggio e che non inciderà sui servizi sanitari essenziali e sui progetti salva vita. Si tratta in effetti solo di 21 milioni di dollari su un totale di 650, a tanto ammonta in media ogni anno il contributo Usa al ministero della sanità kenyano. Washington ha preso questa decisione dopo aver più volte chiesto al Kenya di fare chiarezza su casi di corruzione e di redigere resoconti più accurati sul modo in cui i fondi vengono utilizzati. Nel 2016 dalle casse del ministero della sanità sono spariti 50 milioni di dollari, principalmente sottratti gonfiando i bilanci dei contratti stipulati con imprese complici.
La sospensione dei contributi – si legge in un comunicato Usa – durerà finchè il governo del Kenya non darà prova di voler evitare sprechi e corruzione: lo scopo è “garantire che le spese sanitarie siano davvero destinate a chi ne ha bisogno e tutelare i contribuenti statunitensi e il loro denaro”.
Confinante con il Kenya, anche il Tanzania fa i conti con il dilagare della corruzione. Nel 2016 una verifica aveva portato alla scoperta di oltre 10.000 dipendenti statali inesistenti: costavano alle casse dello stato più di due milioni di dollari al mese. Adesso il governo ha licenziato 9.932 dipendenti assunti nel corso degli anni grazie a certificati scolastici falsi. Si è “scoperto” così che in Tanzania procurarsi documenti falsi – diplomi scolastici, certificati di nascita, licenze commerciali… – è facile, così come utilizzare i documenti di amici e parenti sostituendo il nome, ovviamente con la complicità interessata di chi quei documenti deve controllare. Il presidente John Magafuli ha dichiarato: “chi svolge un incarico governativo senza averne i titoli ruba allo stato, è colpevole proprio come qualsiasi altro criminale comune” e ha chiesto ai mass media di pubblicare l’elenco dei dipendenti licenziati.
Il primato africano della corruzione spetta comunque ancora ai somali che riescono a far sparire due terzi dei fondi che la cooperazione internazionale consegna al loro governo per assistere la popolazione, avviare lo sviluppo economico del paese, sconfiggere i jihadisti al Shabaab, consentire ai profughi di tornare a casa. Un rapporto realizzato nel luglio del 2012 dal Gruppo di monitoraggio sulla Somalia per conto dell’Onu rivelava: “su 10 dollari consegnati dalla comunità internazionale al governo somalo per la ricostruzione e il sostegno alla popolazione 7 non arrivano mai nelle casse dello stato”.
Nulla viene fatto dalle istituzioni somale – si leggeva nel rapporto – senza che qualcuno pronunci la frase: ‘io che cosa ci guadagno?’” Si capisce così come mai sia fallito il “New Deal” per realizzare il quale nel 2013 la Somalia ha ricevuto 1,8 miliardi di dollari. Si capisce meno come mai, tuttavia, la comunità internazionale abbia appena firmato a Londra, a conclusione di una conferenza dedicata alla Somalia, un patto “di sicurezza” promettendo al governo somalo un contributo che l’Unione Europea ha insistito affinchè salisse a 1,5 miliardi di dollari, 900 milioni più di quelli previsti in origine.
“E’ ora di passare all’azione. Sconfiggeremo al Shabaab entro due anni” ha assicurato il presidente somalo Abdullahi Mohamed. Il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres si è detto certo che ormai esistano le condizioni per un lieto fine perchè il paese dispone di un governo affidabile e di un piano d’azione. “Invece di preoccuparsi della siccità – commentava intanto la gente nella capitale Mogadiscio – tutti i politici non pensano che ad andare a Londra alla conferenza”.
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