di Fiamma Nirenstein
Esiste ancora, ha un senso la parole “anticomunismo”, dopo che i suoi fuochi si sono spenti, le sue bandiere sono state ammainate nella nebbia dell’Est solcata dalle scie di fumo dei cannoni? Ha ancora un senso vagheggiare un guerriero anti impero del Male quando il Male è stato sconfitto? Ha un significato, dopo che è morto Bettino Craxi, l’unico anticomunista attivo della storia dell’Italia di sinistra?
Se non lo capite voi, bisogna farvelo capire con una lotta politico-culturale. Quindi, anche se il referto per il comunismo è di morte certa, pure ancora ci vorrebbe un raffinato “ghostbuster” postanticomunista, armato più degli strumenti della cultura che di quelli della politica.
“Non si tratta certo di agitarsi dentro un Jurassic park del comunismo” dice per esempio Enzo Bettiza, scrittore e giornalista, “quello in cui a volte Silvio Berlusconi invita ad una partita di caccia. Piuttosto, quando si guarda ai postcomunisti, si individua subito un immarcescibile dna che discrimina e condanna, una prepotenza genetica che alle volte si cela dietro finti apprezzamenti o riabilitazioni. E’ tipica della storia comunista la riabilitazione selettiva: Craxi era bravo per quel che riguarda l’Europa, ma pessimo nel suo anticomunismo; un uomo moderno e di sinistra, ma gaudente e ladrone.
Gli ex comunisti si dedicano ad un chiaroscuro caravaggesco che mostra solo quello che essi vogliono mostrare. Bucharin, Trotzkij, Silone, ora Craxi: i postcomunisti scevrano la parte buona per loro. Il resto non merita rispetto. Il dna di cui parlo contiene l’automatismo di una quantità di atteggiamenti umani e culturali e giustifica quindi una critica attiva, una reazione di difesa. Se vogliamo chiamarla anticomunismo, facciamolo pure. Oggi però è un atteggiamento differenziato: antiassistenzialismo, anticollettivismo, antipopulismo. Più che altro, direi, anticonformismo, visto che la loro cultura è quella dominante: è il puro e semplice, talora sciocco, senso comune”.
“Anticomunisti nel senso di paragonare D’Alema a Stalin non lo si può più essere” è l’opinione di Giovanni Sabbatucci, storico dell’università di Roma. “Ma è chiaro che se eterna è la categoria dell’antifascismo, cosa che io non credo, allora lo è anche quella dell’anticomunismo. I postcomunisti vogliono eternizzare l’antifascismo, renderlo regola etica: in realtà, antifascismo e anticomunismo sono parte della storia.
L’uso dell’antifascismo come categoria sempre attuale, mentre si nega l’attualità dell’anticomunismo, è un segno della presupposta disparità morale fra chi sta a destra e chi sta a sinistra. Concetto ovviamente arbitrario, intollerabile, che fornisce alla sinistra un alibi per un altro tic: quello di fare comunella, di darsi di gomito stringendosi a coorte contro gli altri. Nell’università si vede spesso il raggruppamento politico di sinistra. Per la sinistra, l’occupazione dei posti in gruppo è quasi un ordine morale”
Come è stato grande il comunismo! ” Le sue fronde si protendono verso il cielo, e le sue radici verso il basso si espandono nel passato, e si nutrono del succo oscuro dell’antichissimo humus degli avi” scriveva Arthur Koestler parlando della fede che il comunismo ispira nell’uomo. E’ così grande e durevole che, pur essendo morto almeno in gran parte del mondo e nella zona razionale della coscienza, pure è ancora ben vivo per quello che ha gemmato.
Gli ex comunisti hanno un’idea della vita, della decenza, del buono e del bello molto particolare: sull’onda del disprezzo per il denaro, per la “vita loca”, per certe supposte indegnità comportamentali, hanno saputo nuotare via a grandi bracciate dal Titanic che affondò nel 1989. Essere stati comunisti è oggi la matrice originaria di gran parte della classe dirigente e intellettuale italiana, determina la configurazione di gran parte dei mezzi di comunicazione di massa, dell’editoria, dell’università.
“Alla Rai, per esempio” spiega Giovanni Minoli “oggi si applica il principio che chi è diverso, creativo, più libero, invece di essere un necessario punto di riferimento, diventa pericoloso. La gestione controllata della diversità è un dovere socioculturale degli ex comunisti. La Dc, al tempo del 38 per cento dei suffragi, era assi più democratica: creò spontaneamente tre canali da spartire con chi era diverso da lei”
“La prepotenza degli ex comunisti è culturale ed è basata sulla convinzione di essere superiori sia culturalmente sia moralmente. Ma perché mai?” si chiede Vittorio Feltri, brillante editorialista e polemista fuori dagli schemi. “Così si permettono di mostrare una continua, altezzosa intolleranza verso i giornalisti: vedi il caso D’Alema-Forattini.
L’informazione libera è estranea alla loro cultura e gli usi e i costumi italiani hanno consolidato questa caratteristica genetica: i direttori dei giornali, fin dagli anni Settanta, erano terrorizzati dai comitati di redazione, che hanno fatto il bello e il cattivo tempo. I direttori venivano nominati e ballavano al ritmo del comitato, che imponeva anche le assunzioni e scartava quelle non gradite. Quando arrivai all’Europeo nel 1989 mi sono beccato due mesi di sciopero, sempre in base ad una pura supposizione di indegnità morale.
Già al Corriere ero un appestato: nell’80 Franco Di Bella mi aveva nominato caporedattore, ma il comitato di redazione utilizzò il suo potere ostativo. Persino nella scrittura venivo bloccato: Bruno Rossi, caporedattore, cancellò un servizio che mi aveva già chiesto. Gli avevano imposto in corsa di commissionarlo a qualcuno più gradito di me. Anche in seguito niente è molto cambiato. Ero e resto un giornalista fuori del club, un tipo che oggi come ieri considera indispensabile la battaglia contro il conformismo di sinistra, il vero pericolosissimo lascito del comunismo, quello per cui devi sempre pronunciare alcune formule rituali sui neri, gli immigrati, le donne, gli omosessuali, la giustizia…”
Il j’accuse più duro è quello del filosofo e commentatore di destra Marcello Veneziani: “All’università di Bari mi imbattei per la prima volta nella mentalità giacobina finalizzata al potere, che è il succo del postcomunismo: che cosa studiare, come studiarlo, chi doveva insegnare… tutto era già predeterminato con un sistema di cooptazioni senza spiragli dalla cosiddetta “Ecole barisienne”, un gruppo di comunisti che faceva della facoltà di filosofia un feudo. Lo stesso vale per l’Istituto di studi filosofici di Napoli. E anche per tutti gli Istituti della Resistenza: denaro pubblico che solo gruppi ristretti gestiscono, al chiuso. Sono loro che amministrano la cultura nelle istituzioni pubbliche e private. Così la sinistra è arbitra, decide che l’avversario è impresentabile, lo sbeffeggia, lo scomunica. E il salotto buono non gli dà la patente di circolazione”.
Le patenti tuttavia si ottengono con esami più ragionevoli: nella storiografia è passata ormai l’idea, prima odiata e combattuta, che il fascismo fosse un regime di massa e non il putsch di una manica di banditi sostenuta da biechi capitalisti, come scoprì Renzo De Felice.
Lo storico Ernesto Galli della Loggia tira le fila di decenni trascorsi in un dialogo-scontro con il mondo comunista e postcomunista: “Non ci sono più comunisti. Non c’è più anticomunismo. Restano gli uomini in carne e ossa, compreso D’Alema, che non hanno mai disconosciuto il Pci storico che finisce nel 1989. Non è più quindi la storia del comunismo astratto ma quella del Pci il vero interrogativo: gli ex comunisti sconfessano, sì, l’occupazione dell’Ungheria o della Cecoslovacchia, ma mai hanno rivisto il loro fortissimo ingiustificabile antiamericanismo, il fiancheggiamento dell’azione antiamericana dell’Urss e la politica conseguente, pesantemente antisraeliana e filoaraba”.
Anche se queste zone oscure saranno prevedibilmente esplorate, data la politica atlantista del governo, resta cupamente nello scuro caravaggesco tutta la zona della cultura: “Ma questo è naturale: la destra ha elettori, non ha un pubblico. La sinistra legge, sente musica, va al cinema, scrive libri e recita. La destra, poco. Il Pci ebbe grandi intellettuali come Gramsci e Togliatti (l’unico tra tutti i politici italiani che abbia mai scritto un libro importante come Momenti della storia d’Italia) tra i suoi leader”.
“Per spiegare quanto i postcomunisti sono avvantaggiati” conclude Galli della Loggia “basta pensare che in un mio editoriale sul Messaggero, se sono d’accordo con D’Alema, scrivo e basta. Invece se do ragione a Berlusconi, devo spiegare che non sono un berlusconiano, che non mi va che lui sia insieme l’uomo più ricco d’Italia e l’aspirante primo ministro. Cose giuste, ma mettiamo che invece il capo dell’opposizione fosse qualcun altro. Oggi qualcosa mi dice che la sinistra troverebbe un altro modo di delegittimarlo e ci riuscirebbe. L’abilità e l’impegno nella delegittimazione è un tipico tratto postcomunista”.