La «Spe salvi», la Chiesa e l’Occidente
di Ernesto Galli della Loggia
Solo se l’Occidente, infatti, l’antico teatro geografico e storico che primo accolse il messaggio proveniente da Gerusalemme per farne anima e forma della sua cultura, intenderà tutta la profondità del rapporto con le proprie origini cristiane, solo a questa condizione, sembra pensare il Papa, la religione della Croce potrà reggere la sfida lanciatale dai tempi nuovi, continuando a tenere il suo animo fermo all’antica promessa del non praevalebunt.
Da qui la spinta a ripercorrere in qualche modo l’intero arco della vicenda cristiana, a ripercorrere le molte vie attraverso cui essa non solo ha plasmato l’Occidente dopo essersi mischiata alle sue radici classiche, ma, contrariamente a una convinzione diffusa, ha anche preparato e perfino favorito l’avvento della modernità.
L’obiettivo ambiziosissimo è quello niente di meno, come si legge, di “un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo” nella quale peraltro “confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno”, cioè, se capisco bene, di una sorta di “nuovo inizio” segnato da quello che appare il vero obiettivo di questo pontificato: la riconciliazione tra religione e modernità.
Nel procedere in questa direzione mi sembra che il Papa operi una svolta decisiva non tanto rispetto al Concilio in quanto tale, ma certamente rispetto alla vulgata che ne è circolata largamente negli anni seguenti. Benedetto XVI, infatti, sembra porre al centro dell’attenzione – si badi bene: all’attenzione non politica, ma teologica – della Chiesa non più genericamente il “mondo”, bensì l’Occidente, il problema dell’Occidente.
Di conserva egli individua con sicurezza i termini teoricamente cruciali per il discorso cristiano sulla modernità non più, come aveva fatto il Vaticano II, nella “giustizia”, nella “pace” e nell’autodeterminazione individuale e collettiva, ma nella “ragione” e nella “scienza” (la seconda in specie sostanzialmente assente nella tematizzazione conciliare).
Tutto ciò è ben visibile nell’ultima enciclica del Papa.
Se con la Deus caritas est Joseph Ratzinger aveva esplorato alcuni dei mutamenti rivoluzionari introdotti dal messaggio evangelico nel mondo dell'”intimità morale”, in particolare nei rapporti con l’altro, tra quei due “altri” per antonomasia che sono l’uomo e la donna, con la Spe salvi egli concentra la propria attenzione su un aspetto altrettanto decisivo di quella che Benedetto Croce chiamò la “rivoluzione cristiana” che è all’origine del mondo moderno: vale a dire il rapporto assolutamente nuovo rispetto alla dimensione del futuro che quella rivoluzione significò per le culture in cui ebbe modo di affermarsi.
Con ciò l’analisi di Benedetto XVI prende il taglio, che in questa enciclica è propriamente suo (ma che già si affacciava in quella precedente), di una declinazione della prospettiva teologica che tende continuamente a configurarsi come filosofia della storia. Anzi meglio, per chi come chi scrive guarda queste cose dall’esterno: a porre la religione cristiana come l’origine prima della storia quale dimensione tipica del pensiero occidentale.
Se infatti, come l’enciclica non si stanca di sottolineare facendone il proprio asse, la fede cristiana è per l’essenza speranza, cioè fede in un futuro (“i cristiani hanno un futuro”; “la loro vita non finisce nel vuoto”); se essa, come scrive icasticamente il Papa, ha “attirato dentro il presente il futuro”, e lo ha fatto, egli aggiunge, avendo in mente il futuro non di questo o quel singolo ma dell’intera comunità dei credenti, ebbene come non vedere proprio in ciò, allora, la premessa per quella più generale tensione al domani e all’oltre che ha segnato così intimamente tutta quanta la nostra civiltà?
Ma per l’appunto in questa tensione sta l’origine dell’idea che l’oggi prepara il domani, che il senso di quanto accade oggi è in questa preparazione, e quindi che la vicenda umana nel suo complesso possedendo una direzione, un fine possiede anche un senso, un significato.
Sta insomma qui l’origine, per dirla con una sola parola, dell’idea di storia. E per conseguenza della frattura di cui si sostanzia la modernità: dal momento che è proprio nell’ambito della “speranza”, del “futuro”, del significato della storia – lungo un percorso che dall’attesa del Paradiso ha condotto all’attesa del progresso – che si è sviluppato forse il principale momento di laicizzazione della mentalità collettiva moderna.
Lo scritto di Papa Ratzinger -mai come in questo caso assolutamente suo: a un certo punto si legge un “io sono convinto” del tutto inusuale per il testo di un’enciclica – è per una buona parte la ricognizione nel campo della storia delle idee delle cause che hanno portato all’espulsione della speranza cristiana dal mondo a opera specialmente del binomio scienza-libertà.
Per ribadire naturalmente che però né la scienza, né le sempre parziali realizzazioni politiche della libertà, saranno mai in grado di soddisfare il bisogno di giustizia e di amore che si agita in ogni essere umano e che è invece la sostanza della speranza cristiana, garantita da Dio ai credenti: “solo Dio può creare la giustizia”, così come solo l’amore può bilanciare la cupa “sofferenza dei secoli”.
Anche chi è privo della fede, come chi scrive, non fa fatica a convenire sull’esistenza di questo irreparabile “di più” che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare. Ma questo accordo – che non ha né vuole avere nulla di formale, e del resto dovrebbe essere nella sostanza quasi scontato – non può mettere a tacere un’osservazione critica che investe l’insieme dell’analisi dell’enciclica, pure così convincente in molti passaggi: perché la storia dell’Occidente cristiano è andata così? Perché essa sembra concludersi con uno scacco della religione che pure l’ha così intimamente forgiata?
La risposta sta forse in quella che a un certo punto, l’ho già ricordato, l’enciclica stessa chiama la necessaria “autocritica del cristianesimo moderno”: indicazione alla quale però non viene dato alcun seguito.
Mi domando se sia lecito aspettarsi da Benedetto XVI ciò che avremmo senz’altro chiesto al professor Ratzinger. Non lo so. Ma sono certo che se mai in un domani il Pontefice volesse far sentire la sua voce per rispondere a questo interrogativo, quella voce susciterebbe forse un’eco non destinata a spegnersi nel tempo.
(A.C. Valdera)