Il Giornale sabato 4 gennaio 1997
La cultura da cui discende il 117
Enrico Nistri
Dunque otto italiani su dieci condannano l’utilizzazione di denunce anonime nelle indagini tributarie e più della metà non ritiene né lecita né opportuna l’introduzione di un numero telefonico per le delazioni fiscali. Queste percentuali – rilevate da un recente sondaggio d’opinione – fotografano in maniera quasi perfetta lo stato d’animo degli italiani: divisi in due, in sede di comportamenti elettorali, ma accomunati da una secolare ripugnanza per l’invadenza dello Stato nella vita privata dei cittadini, figlia di un’altrettanto secolare, cattolica tolleranza, se non per i peccati, per i peccatori.
La notizia non può non fare piacere. Ma solo fino a un certo punto, per un motivo molto semplice. In una democrazia parlamentare non contano le opinioni del popolo, ma quelle della maggioranza dei suoi delegati. E ormai dal 21 aprile scorso gli italiani – questo popolo troppo intelligente per essere progressivo, come lo definiva ai primi del secolo lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton, l’inventore di padre Brown – hanno una maggioranza parlamentare progressista, in cui si riconoscono tre culture portate a dignificare la delazione.
Una di queste culture è quella del comunismo, che, per quanto ripudiato o rivisitato criticamente da neo o postmarxisti, come cultura di governo è sempre stato una cultura del 117. D’Alema e Bertinotti oggi militano in due partiti avversi, anche se contigui. Ma, da giovani aderenti alla gioventù comunista, entrambi si sono visti proporre come modello di vita l’eroe del Konsomol un ragazzo come loro che con una delazione alla Gepeù aveva fatto fucilare il padre, e per questo era stato ucciso dallo zio. Le ideologie passano, gli esempi, purtroppo, restano.
Non a caso, già vent’anni fa, quando si sentiva prossimo al potere, il Pci propose di utilizzare i portinai per fornire informazioni sui redditi degli inquilini. E il ministro della Pubblica istruzione Berlinguer non ha trovato nulla da ridire sul fatto che l’odierna carta dei servizi d’istituto preveda per il preside la possibilità di procedere a indagini disciplinari sugli insegnanti anche sulla base di denunce anonime.
L’altro grande referente dell’odierna coalizione di governo è il cattocomunismo, che di cattolico, per la verità, Pia ben poco, visto che in realtà è un cristianesimo evirato di ogni legame con la grande cultura occidentale – dalla lingua latina alla filosofia greca -, oscurato dalla sua dimensione trascendente e ridotto a mero profetismo veterotestamentario. Sostanza di questa cultura è l’odio nei confronti del «ricco» e del «potente», la convinzione che – come sfuggì detto un giorno a don Lorenzo Milani, il vero ispiratore del nostro ’68 – «non si possono amare tutti gli uomini, ma solo una classe».
Denunziare l’evasore, vero o presunto, di commerciante agiato, il professionista o il padrone di casa, sono per il cattocomunista un ottima occasione per sublimare quel peccato capitale che è l’invidia in una forma di giustizia. Tanto più che, a mano a mano che il cristiano progressista vede affievolirsi la fede in un altro mondo, si rafforza in lui il desiderio di far scontare al peccatore le sue colpe in questo. Le Fiamme gialle prendono il posto delle fiamme infernali.
C’è, infine, un terzo grande filone culturale in cui si riconosce l’odierna maggioranza di governo: È il filone dell’azionismo, che da Gobetti giunge, attraverso l’esperienza, del «Mondo», a quel grande giornale-partito che è «La Repubblica». Si può discutere a lungo sull’esattezza di questa genealogia, visto che non tutti coloro che la sera andavano in via Veneto – né un Panfilo Gentile, né l’ultimo Pannunzio – sarebbero felici di vedere i postmarxisti al governo.
Eppure c’è nel filone dell’ azionismo una componente in linea con la cultura del 117: è l’ansia di «moralizzare l’Italia» — in termini di morale laica e civile, naturalmente -; è il rimpianto che la. Riforma luterana non sia scesa al di qua delle Alpi è l’ossessione di «portare in Europa.» la penisola, protestantizzandola. Si può obiettare che il protestantesimo non è una cultura della delazione e che la più grande democrazia del mondo, la democrazia statunitense, è figlia, com’è noto, della cultura puritana.
Resta il fatto che non c’è stata città più intollerante della Ginevra di Calvino, in cui, col pretesto della fraterna correzione, tutti i cittadini erano spiati dal Concistoro e i delatori erano pronti a denunziare anche le coppiette sorprese nei pagliai. Ancor oggi l’America è un paese libero, sì ma squassato da periodiche ondate di un moralismo puritano non più fondato su precetti evangelici, ma sulla moderna etica laica del politicamente corretto.
Forse non vi s’invita alla delazione fiscale, ma la delazione sessuale è un comportamento ampiamente incoraggiato dal moderno concistoro della stampa progressista. La caccia alle streghe è un tipico sport calvinista e la sua ultima vittima eccellente non sono stati i coniugi Rosenberg ma Richard Nixon.
Figlio di questi tre grandi filoni ideologici, diffìcilmente il governo Prodi rinunzierà a incoraggiare la delazione fiscale: farebbe violenza a se stesso. Non è una questione di soldi, è un fatto di cultura. Finché regge l’attuale maggioranza, tenuta insieme più di quanto non si creda dall’etica del 117, i moderni sicofanti telefonici possono dormire sonni tranquilli; purtroppo non li possiamo dormire noi.