Introduzione dell’autore
Tra i tanti fenomeni emergenti di questi ultimi anni c’è sicuramente la crisi dell’uomo, inteso come maschio. È debole, stanco, demotivato, passivo, solo. E triste. Alcuni uomini sono depressi, insicuri, ansiosi; sperimentano un senso di inadeguatezza sia in famiglia, che sul lavoro, che con gli altri uomini; hanno una scarsa autostima e poca fiducia in sé e nelle proprie capacità; si sentono timidi, paurosi, deboli.
E’ una crisi di virilità. Intesa come disponibilità a rischiare la vita per salvarla, per salvare l’onore (cioè la dignità umana), per la fedeltà ai propri valori; intesa come assertività, coraggio, fortezza. Il termine virilità deriva dal latino, lingua che usa due termini diversi per indicare l’uomo: vir e homo; stessa cosa vale per il greco: aner e anthropos. Homo e anthropos indicano l’uomo in quanto maschio, mentre vir e aner rimandano alla persona maschile pienamente realizzata, ossia l’eroe.
La crisi della virilità è per l’uomo una crisi d’identità: egli non sa più chi è, come è, come dovrebbe essere e come lo vogliono gli altri. Ci prova, ad accontentare tutti, ma non funziona: sembra che nessuno sia contento di lui. E questo lo fa soffrire. È una crisi inedita, nella storia dell’umanità. Non è mai accaduto che così tante persone restassero senza risposta davanti agli interrogativi “Chi sono? Quale è il mio ruolo? Quale è il mio posto nel mondo?”.
È la terribile situazione in cui qualunque cosa facciano è sbagliata. Per molti significa: “Tu sei sbagliato”. Gli psicologi clinici l’hanno chiamata “doppio legame”, e hanno ipotizzato che sia alla base della schizofrenia.
Oggi gli uomini non hanno vita facile. Pare, infatti, che per la società odierna la civiltà sia femminile, la barbarie maschile. Tutto ciò che ha un vago odore di virilità suscita disgusto e disprezzo. Sembra che meno testosterone c’è in giro, meglio è. Se un uomo vuole essere non certo apprezzato, ma per lo meno tollerato, deve mostrarsi assolutamente alieno dai conflitti, per nulla risoluto, attento ai sentimenti più che al raggiungimento degli obiettivi, un po’ come l’orsacchiotto che i bambini tengono sul cuscino: inerte, passivo e perciò innocuo.
Un uomo, insomma, non virile. L’unico uomo buono è l’uomo morto; o quello castrato. Basti pensare alla forza, tipica caratteristica maschile; se ne sente parlare come se fosse un sinonimo di violenza, anziché esserne l’antidoto. Male-bashing, lo chiamano: aggressione anti-maschile.
Nelle scuole svedesi i bambini sono obbligati a fare la pipì seduti sul water, anziché in piedi, perché questa postura sarebbe “antiigienica, volgare ed evidentemente maschilista”; nelle scuole elementari britanniche è stata proibita una serie di espressioni ritenute offensive e discriminatorie, tra le quali “Comportati da uomo”.
In Italia le cose non sembrano andare molto diversamente. Risale al 2006 una campagna organizzata dalla Provincia di Brescia contro la violenza sulle donne. In tutta la provincia sono stati affissi due manifesti: nel primo era raffigurata una ragazza con una mano sul viso, con la scritta “Gli occhi neri sono di suo padre”; nel secondo l’immagine rappresentava un bambino nell’atto di picchiare una bambina, con la scritta “Lo fa anche papà”.
E’ invece dell’inizio del 2008 una campagna pubblicitaria lanciata dal fotografo Oliviero Toscani per il settimanale “Donna moderna”. Si trattava di una immagine shock che rappresentava due bambini nudi (Mario e Anna) sotto l’immagine dei quali si leggeva, rispettivamente, “Carnefice” e “Vittima”. Mario, futuro carnefice perché maschio; Anna, futura vittima perché femmina. Intervistato dal settimanale, alla domanda: “Perché non è Anna a diventare carnefice?”, Toscani risponde: “Un po’ dipende dal sangue, dal Dna, non c’è dubbio”.
Il messaggio è chiaro: il padre è un orco, il maschio è un carnefice. Dipende dal Dna, non c’è dubbio. Cos’altro dovrebbe restare da fare all’uomo, al padre, dopo una simile campagna? Vergognarsi? Chiedere perdono? Nascondersi, mimetizzarsi, tentare di convincere il mondo che lui è sì un uomo, ma non ne ha colpa? Che in realtà non è un vero uomo, e che ripudia la sua virilità?
Si potrebbe pensare che nella società attuale l’unico ruolo che l’uomo possa ricoprire senza suscitare riprovazione è quello riproduttivo, in modo da permettere all’umanità di avere nuove generazioni di donne. Riproduttivo, si badi bene, non sessuale, dato che le femministe radicali, negli anni ’60 del secolo scorso, hanno stabilito che l’orgasmo clitolideo è meglio di quello vaginale, e quindi la penetrazione è inutile. Insomma, l’uomo come il fuco, il maschio dell’ape – senza pungiglione, si badi bene – il cui unico scopo è fecondare la regina; o come il maschio della mantide religiosa, che viene divorato dalla femmina dopo (o in alcuni casi durante) l’accoppiamento.
Chissà per quanto ancora, visto che l’unico obiettivo che pare avere la biotecnologia è quello di garantire la fecondazione senza accoppiamento; con la notizia che sarebbe possibile ricavare sperma dal midollo spinale, l’uomo ha perso anche la funzione riproduttrice, e sembra essere diventato assolutamente inutile. C’è persino chi ha scritto “[…] il cromosoma Y può essere interpretato come una pura disfunzione genetica che fa sviluppare il corpo femminile standard in uno speciale, maschile”; “[…] nel giro di qualche migliaio di generazioni gli uomini scompariranno del tutto”; “[…] un adulto maturo è una donna”.
Forse l’uomo dovrebbe ringraziare l’industria pubblicitaria, che ne preserva la sopravvivenza trasformandolo in un consumatore; di prodotti tipicamente femminili, ovviamente. Cosmetici, trattamenti di bellezza, lampade abbronzanti, depilazione, shopping, abiti ed accessori trendy, palestra: queste sono le caratteristiche dell’uomo metrosexual (trasformato poi, perché il mercato ha sempre ingordigia di novità, in übersexual): ossia “gay quel tanto che basta”, cioè femminile sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista fisico, con una pelle morbida, liscia, depilata, profumata… Il suo corrispettivo giovanile è il ragazzino emo, ossia “emotivo”: “Si tratta di maschi che hanno imparato alcune lezioni molto positive dal loro lato femminile, ma a spese della loro spina dorsale”.
La virilità pare un virus ormai quasi completamente debellato, che ogni tanto, non si capisce bene perché, si ostina a fare capolino nel mondo maschile e a provocare tutti i guai di questa terra. Pochi la considerano un frutto magari un po’ aspro ma buono e salutare; e, soprattutto, che non cresce in modo così spontaneo, ma che necessita di cure e attenzioni. Un frutto del quale la nostra società ha bisogno.
Il 41 Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese, ha descritto la società italiana con le parole “poltiglia di massa”, “mucillagine”, costituita da “ritagli umani” caratterizzati “da una sempre più generalizzata volgarità plebea” e da una “diffusa povertà psicologica”; questi ritagli umani sono attratti dall’“arricchimento facile con mezzi facili” anziché dal lavoro, dal “credito al consumo” anziché dal risparmio, sono guidati da “pulsioni” ed ossessionati dall’apparire.
Questo ritratto sembra la fotocopia di quello che aveva tracciato monsignor Bagnasco nella sua prolusione d’apertura della sessione del Consiglio Episcopale Permanente, pronunciata nel settembre 2007: “Come non intravedere qui l’atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi sociale, in cui a prevalere sono il divismo, il divertimento spinto ad oltranza, i passatempi solo apparentemente innocui, il disimpegno nichilista e abbrutente la persona, giovane o adulta non importa, ché, tanto, verso il peggio le differenze si annullano?”.
Non è forse questa la descrizione di una società di bambini viziati, di Peter Pan, un “paese dei balocchi” abitato da tanti Lucignolo dediti al divertimento senza responsabilità? I “nuovi diritti” dei quali si sente sempre più frequentemente parlare, non sono fondati (anziché sulla natura umana, come i “vecchi”) sui desideri, portandoci a quella “dittatura del desiderio” più terribile di qualsiasi altra?
E la locuzione “dittatura del desiderio” non è sostituibile con il termine “capriccio”, usato nel caso di bambini viziati, egocentrici, che non riconoscono altra autorità che non sia il proprio desiderio, che non si sono mai sentiti dire “No”? Ucciso a martellate il padre-grillo parlante, fatto tacere il suo richiamo al sacrificio, alla pazienza, alla perseveranza, è un caso se la nostra società, una società senza padre, non ha più strumenti per affrontare il dolore e la morte, di fronte ai quali reagisce con la difesa più primitiva che esista, la negazione?
Ma in ogni “paese dei balocchi” c’è un risveglio con le orecchie d’asino. Per alcuni questo triste risveglio è stata la preghiera collettiva tenuta da fedeli musulmani in piazza Duomo a Milano, davanti alla cattedrale di san Petronio a Bologna e in altre piazze d’Italia e d’Europa nel gennaio del 2009, commentata così su Il Giornale da Michele Brambilla: “Ed è di questo che abbiamo paura. Non dei musulmani, la cui aggressività in tutto il mondo è piuttosto, probabilmente, un segno di debolezza e di declino.
Abbiamo paura dell’ignavia, della viltà, dei contorcimenti mentali di un Occidente che soffre di infiniti complessi e sensi di colpa. Di un mondo che per non offendere i musulmani cancella i presepi, i riferimenti a Gesù nelle canzoni di Natale e il prosciutto dalla mensa dell’asilo: ma che non ha nulla da eccepire se il Duomo è costretto a chiudere. Che cosa avremmo letto sui nostri giornali se quattro cattolici tradizionalisti fossero andati a pregare davanti alla moschea di Segrate?
È il nulla dell’Occidente che spaventa. Il vuoto pneumatico di valori e ideali che lascia campo libero a chi, invece, si nutre di un pensiero forte e di uno spirito di conquista. Non ce ne frega nulla di rinunciare al presepe perché al Natale non crediamo più, così come non crediamo più in niente: né in una filosofia che non sia quella del godersi la vita, né in una morale che non sia quella del secondo me. L’Occidente tace, di fronte all’avanzata dell’islam, perché non ha niente da dire: la stessa Chiesa sembra spesso rinunciare, per paura chissà di che, ad essere se stessa”.
Parecchi sembrano essersi accorti della mancanza di un novello Marco d’Aviano, di un odierno Jan Sobieski che possano difendere l’Europa e la sua cultura dall’invasione dei barbari. Li abbiamo disarmati della croce e della spada, li abbiamo costretti a vergognarsi della loro forza, li abbiamo obbligati a chiedere perdono. E adesso siamo inermi, in balia di chiunque. Non c’è più un uomo disposto a sacrificarsi per noi, a usare la sua forza per difendere i deboli, a rischiare la propria vita per salvare quella degli altri.
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Quello che gli uomini non dicono. La crisi della virilità Roberto Marchesini, SugarCo 2010 – pagine 160, Euro 14.50