AREA N° 106 Gennaio 2006
Intervista a Alfredo Mantovano
a cura di Antonio Albanese e Gian Paolo Pelizzaro
Per i fatti di Genova – durante i quali un’intera città per giorni venne messa a ferro e fuoco, devastati quartieri, alzate barricate, tirate molotov, sanpietrini, date sprangate, alimentati falò con le auto dei genovesi e intorno ai quali il “gioioso” popolo dei no global ballava e cantava a suon di chitarra le canzoni della giustizia e della libertà – ci hanno rimesso la carriera tanti uomini delle forze dell’ordine, per la maggior parte poliziotti (anche di grado elevato come l’allora direttore centrale della polizia di prevenzione, prefetto Arnaldo La Barbera), accusati (loro) di aver usato la mano pesante nel tentativo di frenare la rivolta totale, la rivoluzione, l’inferno.
Alfredo Mantovano, leccese di 48 anni, magistrato con una lunga e brillante carriera, vasta esperienza in tema di criminalità mafiosa e fenomeni ad essa associati (racket, usura, sfruttamento dell’immigrazione, appalti truccati), un uomo di solidi principi, cresciuto nell’associazionismo cattolico, conservatore convinto e coerente, di certo non poteva immaginare che tre mesi dopo il suo insediamento al ministero dell’Interno, il mondo avrebbe fatto un drastico e pericoloso giro di boa.
L’11 settembre 2001, gli attacchi combinati di Al Qaeda su New York e Washington che – nel volgere di poco tempo – avrebbero determinato la reazione americana in Afghanistan e Iraq e lo scontro frontale con il fondamentalismo islamico: fonte, questa, di gran parte delle preoccupazioni in tema di politica della sicurezza.
In questi anni di continue emergenze, di spaventosi atti di terrorismo internazionale (come le stragi di Nassiriya, Beslan, gli attentati di Madrid, Londra, Sharm el-Sheik, per citarne alcuni) minacce, ultimatum, infiltrazioni, sequestri di persona, omicidi e così via, il governo di centro destra si è trovato ad operare in un contesto di cambiamenti epocali, all’interno di nuovi equilibri, sia interni che esterni.
All’indomani dell’11 settembre, giusto per fare un esempio, il movimento no global, che tanto aveva fatto per assumere il primato dell’agenda politica internazionale, concentrando su di sé l’attenzione sofferente dei Paesi più industrializzati, attraverso una serie di operazioni di provocazione, di blitz, di assalti (ricordate le tute bianche, i black blok, i disubbidienti di Agnoletto, Casarini e compagnia cantante?) ben orchestrati anche dal punto di vista mediatico, venne spazzato via dall’ultima, grande, sanguinaria novità: il terrorismo globale.
Bin Laden e i suoi accoliti hanno egemonizzato i dei mass media mondiali (non dimentichiamo che il “megafono” dello Sceicco da anni è il canale Tv qatariota Al Jazeera), hanno dettato ai grandi della Terra la nuova agenda politica con quale fare i conti. Tutto il resto è passato in secondo piano, compresi i movimenti.
E questo ha reso ancor più difficile l’azione di governo in tema di contrasto al terrorismo, all’immigrazione clandestina, alla criminalità (comune e organizzata), ai fenomeni mafiosi. L’emergenza è stata (ed è) di tale portata che solo uno sforzo titanico ha potuto permettere all’Italia di navigare, in questi anni, in acque relativamente sicure.
Senza dimenticare, poi, che fino al 2001 le Brigate rosse ancora sparavano. E uccidevano. Le prime pagine dei giornali erano occupate dal Partito comunista combattente, di comunicati e rivendicazioni scritte sotto lo stemma della stella a cinque punte, di lotta di classe, di abbattimento dello Stato borghese, di delitti politici eccellenti (i casi di Massimo D’Antona e Marco Biagi insegnano), di Nuclei territoriali antimperialisti, di anarchici insurrezionalisti (quelli, per dire, che da anni lasciano bombe un po’ ovunque, una anche sul Duomo di Milano, si infiltrano in ogni manifestazione con l’intento di provocare scontri, degenerando tutto in rivolta ed hanno infine pestato Mario Borghezio della Lega), di ritorno del terrorismo marxista-leninista.
E anche qui, l’impegno e la qualità del lavoro svolto, soprattutto dalle forze di polizia (specie in tema di prevenzione), sono stati di primissimo livello.
E quando si è trattato di stringere il cerchio intorno ai nostalgici degli anni di piombo, ai veterani della lotta armata, il ministero dell’Interno ha dato esempio di senso di responsabilità, rispetto a certi episodi del passato (come quello legato alla fuga di notizie del maggio del 2000 su Alessandro Geri, che segnò la prima fase delle indagini sull’omicidio D’Antona) sui quali sarebbe meglio stendere un velo pietoso in nome della patria.
E proprio al sottosegretario Mantovano chiediamo di fare un bilancio dell’attività svolta in questi anni, al volgere della legislatura, partendo proprio dalle eredità lasciate dai precedenti governi in tema di sicurezza.
Onorevole, al momento del suo insediamento al Viminale, quale eredità ministeriale ha raccolto?
Bastano soltanto due dati per dare l’idea della situazione che abbiamo trovato. Il primo riguarda la stima che il dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno faceva dei clandestini presenti in Italia al 2001, circa 800mila unità, una cifra enorme unita ai continui sbarchi sulle coste italiane: in Puglia, in Calabria e in Sicilia.
Accanto a questo, un secondo dato: negli anni precedenti erano state realizzate, senza la copertura finanziaria, opere per la logistica delle forze di polizia, come stazioni, commissariati e così via, per circa 512 milioni di euro, il che aveva comportato un buco di entità considerevole e quindi il blocco del pagamento sia degli affitti, della riqualificazione delle strutture logistiche che delle nuove realizzazioni di stazioni e commissariati. Questi sono alcuni dei punti di partenza, poi l’elenco sarebbe lungo…
Nel primo anno di attività come sottosegretario, quali sono state le emergenze che ha dovuto affrontare sia in termini di riorganizzazione degli assetti interni all’amministrazione sia in termini di azione di politica di governo?
Il buco della logistica, come ho detto prima, può sembrare una questione burocratica, ma in realtà, se piove dentro la stazione dei carabinieri o se non si può trasferire una compagnia da una sede disagiata ad un’altra, ne risente la funzionalità dell’intero sistema e il controllo del territorio. Questo buco è stato colmato da un piano di rientro triennale.
Oggi, con la finanziaria 2006 siamo già al terzo anno, il che ha consentito di pagare i fitti, nonché di onorare gli impegni assunti con i privati e con gli enti territoriali ma anche di poter programmare nuove ristrutturazioni e nuove realizzazioni. Inoltre, c’è stata tutta l’opera di rilancio del contrasto all’immigrazione clandestina.
Si tratta di uno sforzo notevole per testimoniare in modo tangibile, non soltanto con discorsi retorici, il nostro interesse per le forze di polizia con un doppio contratto siglato in questi anni e con tutta una serie di misure che si spera di poter proseguire nelle settimane che mancano alla fine della legislatura.
Sul fronte dell’emergenza immigrazione (parliamo di legge Bossi-Fini) che bilancio ritiene di fare al termine del mandato di governo?
Credo che il bilancio sia positivo, se si considera la posizione di partenza. Tutti noi sappiamo quello che era, e che c’era, cinque anni fa. Oggi si può dire che grazie a questa legge e non soltanto grazie ad essa, grazie all’azione di governo e agli accordi bilaterali raggiunti con i Paesi considerati “punti di partenza” del fenomeno dell’immigrazione clandestina, ci sono in Italia più immigrati regolari rispetto a cinque anni fa.
Siamo a quasi due milioni e ottocentomila immigrati regolari presenti sul territorio nazionale. In poche parole, ci sono meno clandestini. Le soluzioni adottate in Italia per affrontare quest’emergenza sono diventate oggetto di discussione positiva in sede europea, perché paiono soluzioni molto avanzate. Ci sono più immigrati regolari non solo per l’opera di contenimento della criminalità, ma anche per quell’amplissima regolarizzazione che è stata realizzata nel 2002–2003, non una sanatoria, ma un’iniziativa che ha fatto uscire dal “nero” 650mila ex clandestini, e dare loro un regolare contratto di lavoro, creando nel contempo un contesto di sicurezza perché li abbiamo poi identificati e conosciuti uno per uno.
Oltre a ciò, delle tre regioni interessate dagli sbarchi in modo massiccio cinque anni fa, oggi, due non vedono lo sbarco di un solo scafo, di un solo gommone, di una sola carretta del mare da tre anni. Resta il nodo difficile del canale di Sicilia e comunque è un nodo che si sta affrontando perché se non ci fosse stata un’azione di cooperazione soprattutto con la Libia e con la Tunisia, oggi a Lampedusa arriverebbero cinque volte i clandestini che già arrivano.
Lo sforzo di questa legislatura è stato quello di contenere l’emergenza e di tentare il più possibile di mettere in regola ciò che era irregolare. Non si tratta, ovviamente, di un disegno concluso, in verità è la prima tappa di una strada più lunga e più articolata, questo però, consente oggi, a prescindere dagli schieramenti delle forze politiche di appartenenza, di mettere al primo posto nella discussione sull’immigrazione l’integrazione non l’emergenza: cinque anni fa, la parola chiave era “emergenza”, oggi è “integrazione”.
Mi pare che questo sia un passo in avanti. Si può affrontare, oggi, l’integrazione proprio perché l’emergenza è stata circoscritta.
Cambiamo argomento. Per quanto riguarda l’azione di contrasto al fenomeno del terrorismo, quali problemi sono stati affrontati e soprattutto quali soluzioni sono state adottate in questi anni?
Su questo fronte è superfluo ricordare che cinque anni fa, le nuove Brigate rosse, sia pure assolutamente più ridotte rispetto a quelle di trent’anni fa, erano però operative ed erano in libertà. Oggi sono in larga parte disarticolate e in carcere.
Purtroppo, per arrivare a questo risultato c’è stato di mezzo sia l’omicidio Biagi sia il sacrificio del sovrintendente Emanuele Petri (medaglia d’oro al valoro civile, ucciso il 2 marzo 2003 all’età di 48 anni in un conflitto a fuoco con un brigatista durante un controllo di routine sul treno Roma-Firenze insieme a due colleghi, Bruno Fortunato e Giovanni di Fronzo): un sacrificio che ha avuto dei risultati importanti perché da quel conflitto a fuoco sul treno regionale all’altezza di Viareggio, nel marzo del 2003, veniva fuori non soltanto il blocco di due pericolosi terroristi e in particolare la cattura di Nadia Desdemona Lioce, ma anche l’individuazione d’informazioni, recuperate in quella circostanza e utilizzate sul piano investigativo per disarticolare una parte consistente delle Br-Pcc.
Nei confronti della realtà anarchico-insurrezionale sono state realizzate varie operazioni di polizia e iniziative dell’autorità giudiziaria e mi pare che anche da questo punto di vista dei passi siano stati fatti per cui oggi questa non è la voce principale del terrorismo, la voce principale è un’altra.
Restando in Italia, in tema di lotta alla criminalità organizzata (soprattutto l’insorgenza camorristica nel napoletano oltre la piaga mafiosa), ritiene – come alcuni hanno sostenuto – che vi sia stato un abbassamento della guardia?
Proprio su Napoli e sulla camorra, è stato fatto un intervento qualitativo e quantitativo che non trova riscontro né in altre parti d’Italia né con il passato. Napoli e soprattutto alcuni sui quartieri sono stati letteralmente sottoposti ad una presenza, ad un controllo nonché ad una pressione fortissimi da parte delle forze di polizia.
Il problema di Napoli è che non basta la polizia, di camorristi ne sono stati catturati tantissimi, episodi anche terribili che avevano sconvolto tutti, a cominciare dall’omicidio di Annalisa, la quattordicenne di Pianura, sono stati disvelati e i colpevoli sono stati catturati. Però non dipende dalle forze di polizia, e quindi dal governo, la circostanza che la camorra continui a reclutare nel sottoproletariato di alcune periferie, è un problema d’interventi di enti territoriali, delle amministrazioni del territorio, in particolare della regione che quando deciderà di non fare soltanto concerti e manifestazioni di ricreazione e di dedicarsi un po’ di più ai problemi del lavoro nel territorio, avrà svolto la sua parte.
Rispetto alla sua esperienza (anche come magistrato) come sono cambiate le forze di polizia negli anni del governo di centrodestra?
Intanto i cambiamenti non possono essere radicali perché il periodo per quanto consistente non lo consente. Tuttavia in questi anni le forze di polizia hanno potuto contare su un appoggio da parte della politica, e della politica di governo, che non significa copertura di eventuali illegalità, significa costante rispetto e considerazione per il loro lavoro assieme a qualcosa di tangibile; come dicevo prima ci sono stati due rinnovi contrattuali che hanno incrementato le retribuzioni e lo hanno fatto in misura anche significativa.
Le retribuzioni di un poliziotto e di un carabiniere sono sempre inadeguate per difetto rispetto al lavoro che viene effettuato e al livello di rischio, c’è, comunque, una bella differenza tra i due rinnovi contrattuali che hanno riconosciuto una media di qualche centinaio di euro di aumento rispetto alle contribuzioni precedenti, e l’ultimo contratto del governo di centrosinistra, al termine del secondo governo D’Alema, che riconosceva un aumento lordo di 9 euro.
Poi ci sono stati più provvedimenti che hanno consentito di affrontare singole voci che in sé possono apparire non decisive ma in un quadro d’insieme diventano importanti: penso ad una legge organica, ad esempio, che è stata approvata con copertura, per le vittime del terrorismo, che mancava. Certamente, un elemento di novità, a parte i riconoscimenti di carattere economico e la maggiore considerazione, è costituito dalla maggiore vicinanza alla popolazione.
L’iniziale esperimento che poi è diventato uno strumento ordinario, cioè il poliziotto di quartiere, non è stato, come afferma la sinistra, uno spot propagandistico. Di poliziotto e carabiniere di quartiere se ne parlava da diversi anni, noi l’abbiamo realizzato: è presente in tutte le città capoluogo, è presente in tutti i centri con più di trentamila abitanti, ovviamente è presente in quei centri che hanno determinate caratteristiche, ha avuto risultati importanti: stabilire un rapporto di fiducia che ricade positivamente sulla relazione tra il cittadino e le forze di polizia…
Onorevole, veniamo a episodi più vicini. Ritiene che la drammatica esperienza del G8 di Genova abbia consentito di affrontare l’esperienza anti-Tav in val di Susa con strumenti e modalità più efficaci?
Non si può neanche lontanamente fare un confronto con il G8, nel senso che il G8 aveva dei numeri di gran lunga superiori sia come dimensione della contestazione sia come dimensione della protesta violenta, in certi casi paraterroristica, sia come procedure nel contenimento e nella reazione delle forze dell’ordine:
A me sembra che, nel caso della Tav, la qualità e lo spessore della protesta siano naturalmente più circoscritti. Certo, esiste un gruppo di “sciacalli” che ogni mattina si sveglia, vede qual è sul territorio nazionale il luogo dove c’è una protesta, magari motivata legittimamente, si avventano su aree e su situazioni di crisi non per risolverle ma semplicemente per esercitare una protesta violenta.
Sono, poi, anche le stesse persone fisiche che si spostano da un evento all’altro ed anche gli stessi tutori ideologici che poi pontificano nei talk show televisivi. Si interessano di tutto dal passante di Mestre, alla Tav, al ponte sullo Stretto, veri professionisti della violenza, della provocazione e dell’odio che si servono delle situazioni di disagio ed utilizzano questo disagio per altri scopi.
A me è capitato un contraddittorio, ad esempio, con Dario Fo, sulla Tav, in cui la cosa più decorosa credo fosse andarmene, e Fo sbagliava tutti i nomi dei paesi della val di Susa, non ne conosceva neanche uno, tale era la sua conoscenza del territorio. Però non ha perso l’occasione per gettare fango e odio sulle forze di polizia. Sto parlando lui, ma potrei parlare di qualsiasi altra persona di questo genere
Un’ultima domanda: la grande emergenza del terrorismo internazionale e i principi della certezza del diritto. Come vanno conciliate queste due realtà?
Le risponderò con quello che potrà apparire un slogan, ma poi lo motiverò: da Guantanamo alla dottoressa Clementina Forleo, si può trovare una via equilibrata, conforme alla nostra civiltà, ma adeguata al tipo di minacce e di aggressione. L’arma principale in questo contesto non è una pistola o un tipo di esplosivo.
L’arma principale, la più letale, è la persona che si converte ad una prospettiva violenta. In questo “rito” di passaggio incidono molto i predicatori di odio e violenza. Questo, che è uno degli attuali profili del terrorismo islamico, non può essere trascurato in una risposta, anche di carattere giuridico e non soltanto culturale.
Non a caso, nel decreto Pisanu, convertito in legge alla fine di luglio, esiste un reato, quello di addestramento al terrorismo, e ne esiste un altro, quello di arruolamento per il terrorismo, che mancavano nell’ordinamento. Esiste un aggravamento sensibile di sanzione per l’istigazione a delinquere, quando ha per oggetto l’attività terroristica di questo tipo. Sono norme ordinarie che descrivono una condotta vietata e stabiliscono una sanzione, non sono norme speciali o da stato di polizia.
Sono nel pieno rispetto dei cardini del nostro ordinamento: un adeguamento ci deve essere, vale dal punto di vista sostanziale, vale dal punto di vista del processo penale. Non può continuare il fatto che la nostra legislazione non abbia una Procura nazionale antiterrorismo, da sola come sezione dell’antimafia, con competenze che sono da definire, ma ci vuole un coordinamento delle indagini, così come non può continuare che non ci siano come interfaccia giudicanti della Procura nazionale antiterrorismo e delle Procure distrettuali, dei giudici specializzati in questa materia, perché il problema non è inventarsi norme speciali o giudici speciali, ma è avere dei magistrati che conoscano le fonti del diritto internazionale ed europeo in modo da evitare distinzioni assolutamente infondate come quello, ad esempio, come terrorista e resistente.
Basta scorrere le risoluzioni dell’Ue o dell’Onu per accorgersi che le cose stanno diversamente. Quindi, credo che non ci sia incompatibilità tra i principi cardini della civiltà giuridica, qual è anche la nostra e la lotta la terrorismo. Però un approfondimento ci deve essere, perché di eccesso di garanzia si può anche morire.