Quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni sostiene che non si può parlare di emergenza razzismo in Italia ha ragione, ma non del tutto. È vero che gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati da parte di cittadini italiani hanno carattere episodico in un contesto sociale e culturale nel complesso libero da pregiudizi e fermamente contrario a qualsiasi forma di discriminazione. Ma se si guarda alle comunità straniere formatesi nel nostro paese, la situazione cambia radicalmente.
di Anna Bono
Caratteristica generale delle società così organizzate è la convinzione che nei confronti degli estranei non si hanno doveri di solidarietà e lealtà: vi manca il concetto di «prossimo» in ragione di una universale condizione umana. Gli «altri», per di più, sono inevitabilmente visti come rivali nell’accesso alle limitate risorse naturali e rappresentano un’intollerabile insidia per i beni scarsi e incerti da cui dipende l’esistenza di chi pratica le economie di sussistenza tipiche delle società preindustriali tribali.
Questo genere di organizzazione sociale e la cultura dalla quale ha origine favoriscono inoltre l’adozione di atteggiamenti ostili anche verso chi è considerato diverso, estraneo, per altri motivi: ad esempio, per la fede che professa. Perciò dei confini invisibili ai nostri occhi, ma evidentissimi agli occhi di chi li ha tracciati, delimitano ormai nelle nostre città i «territori tribali» occupati da differenti nazionalità ed etnie: strade, crocevia, abitazioni, attività economiche.
Non è facile dimenticare di essere un Giriama e smettere di diffidare dei Kikuyu, e viceversa, se persino le fiabe dell’infanzia raccontano quanto infidi e pericolosi sono gli «altri»; se la lotta per l’indipendenza del proprio paese è stata anche una guerra tribale per il controllo dell’apparato statale, che rischia di riesplodere a ogni appuntamento elettorale; se tuttora lignaggi e tribù combattono per impadronirsi di sorgenti e pascoli e, nelle città, di attività redditizie e degli incroci migliori per l’accattonaggio e la vendita ambulante, e di continuo giungono notizie di bestiame e raccolti razziati o persi nella fuga da un villaggio dato alle fiamme dai giovani armati di un’altra etnia.
Non tutti gli immigrati vogliono lasciarsi alle spalle tutto questo e non tutti, anche volendo, ci riescono, così come non tutti riescono a fare a meno delle istituzioni e dei valori in cui sono stati educati a credere ed essere fedeli. Tanti sono i casi di mutilazioni genitali femminili in Italia che si è resa necessaria una legge, varata alla fine del 2005 durante il precedente governo Berlusconi.
Ma è molto difficile impedire che vengano eseguite ugualmente e ancora più difficile è contrastare altre istituzioni come, ad esempio, le punizioni fisiche e la segregazione domestica. «Andate in San Salvario (un quartiere torinese fittamente popolato da immigrati di religione islamica, n.d.a.) e guardate sui tetti – diceva già anni fa lo scrittore Younis Tawkik a un pubblico incredulo – dove vedete un’antenna parabolica, lì abitano delle donne segregate che passano il tempo guardando programmi televisivi».
Proprio l’ansia di evitare qualsiasi forma di intolleranza e discriminazione nei confronti degli stranieri extracomunitari, insistendo sul fatto che basta conoscersi per capirsi, stimarsi e convivere pacificamente, induce da anni a tacere su questi aspetti fondanti delle loro società d’origine finendo per negare aiuto a chi ne è partito per liberarsi del razzismo e sottrarsi alle violenze e alle discriminazioni istituzionalizzate.