La Nuova Bussola quotidiana 16 febbraio 2015
di Andrea Bartelloni
Settanta anni fa, il 16 febbraio 1945, nel campo di Dachau, veniva ucciso con un colpo alla nuca Friedrich Reck. Nasce a Malleczewen, nella Prussia orientale nel 1884 da una aristocratica famiglia protestante. Per tradizione si avvia alla carriera militare, ma «lo straordinario amore per la libertà unito a forti interessi spirituali» lo porta ad abbandonarla presto per dedicarsi alle sue grandi passioni: la musica e la letteratura. Beethoven e Mozart i suoi autori preferiti.
Si laurea in medicina, ma altra sua grande passione è la scrittura alla quale si dedica scrivendo recensioni, saggi e, tra l’altro, anche molti libri per ragazzi. In Italia è conosciuto per il volume Il re degli anabattisti, pubblicato in Italia negli anni settanta dall’editore Rusconi; saggio nel quale racconta la storia della città di Munster (1534) dove si realizza un esperimento sociale nel quale Reck vede la prefigurazione del terrore giacobino e di quello bolscevico. Volume che, appena pubblicato in Germania nel 1937, viene subito sequestrato in quanto forse vi si vedeva una descrizione della follia costruita dall’imbianchino austriaco paragonabile a quella del sarto olandese.
Reck, entra nella Chiesa cattolica nel 1933 (anno dell’avvento di Hitler al potere) e vi vede «l’ultimobaluardo contro il crescente imbarbarimento e la progressiva irreggimentazione» si trasferisce in Baviera, vicino Monaco, la «città della giovinezza e della gioia», terra che ama profondamente e nella quale si riconosce completamente tanto da fargli dire che non avrebbe potuto lasciarla mai più. La sua vita è sempre più immersa nella letteratura e nei viaggi (Austria, Italia, Balcani, Africa dove contrae la malaria) finché, nel 1935 si trasferisce nella tenuta di Chiemgau nell’alta Baviera dove cerca un po’ di pace e tranquillità.
Ma le drammatiche vicende del suo paese e del suo popolo arrivavano fin là impedendogli di trovare pace. «Ogni giorno vedeva come le menzogne propagandate quotidianamente riuscissero a sorprendere proditoriamente la gente; e non poteva levare la sua voce. (…) Vedeva gente onorata, che conosceva, morire di crepacuore per tale situazione; amici esiliati o scacciati e sacrificati alla medesima follia collettiva; e al pari dei migliori del suo popolo, egli era costretto ad essere spettatore impotente».
Arrivò il 1938 e lo scoppio, atteso, della guerra. Dalla radio, strumento proibito, giungevano le notizie delle vittorie e dell’espandersi del potere di Hitler sulle masse che teneva in pugno. Fin dal 1934 «il capoccia locale, un contadino, aveva cominciato a raccogliere materiale a suo carico» fino ad annotare i movimenti delle auto che si recavano nella sua villa bavarese, luogo di ritrovo di molti oppositori del regime. Ma gli ottimi rapporti con i contadini locali, che lo avvertivano e lo mettevano in guardia, impedivano il suo arresto. Il 31 dicembre del 1944 poco prima del crollo del regime un “infame delatore” lo fa arrestare e viene portato nel lager di Dachau a pochi chilometri da Monaco. Dachau fu il primo campo di concentramento aperto nel 1933 e liberato il 29 aprile del 1945 quando ormai, però, tutti i detenuti erano stati trasferiti ed uccisi. La Gestapo comunicò ai parenti nel mese di marzo che era “morto” a febbraio.
Nel giardino della sua casa fu ritrovato, nascosto in una cassetta metallica, il suo diario che descrive in modo spietato gli eventi dal 1936 al 1944. È un’analisi anche ironica dove si mettono a nudo le debolezze e le molte complicità nella società tedesca, una critica ad un mondo colpevole di aver accettato e sostenuto l’ascesa del regime. Critica che viene da una delle persone più conservatrici della Germania del tempo.
«Chi ha letto la terribile testimonianza cui egli diede il nome di Tagebuch eines Verzeweifelten, “Diario di un disperato”, saprà che in lui, come in pochi altri uomini del suo tempo, le condizioni sono rimaste punti di partenza, storia contingente e accidentale, e non si sono trasformate in condizionamenti. (…) Ha capito da molto tempo che il processo di industrializzazione sottratto a finalità morali, la proliferazione dell’uomo massa, la propaganda, gli slogan, la fede cieca nella radio e nei giornali, riguardano la morale assai più che la politica e l’economia: prima di essere “esigenze dei tempi”, sono segno di una mentalità, che è mentalità irreligiosa».
La grande scrittrice e filosofa tedesca, Hannah Arendt, descrive molto bene lo spirito di questo grande aristocratico: «La coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al punto che la gente non si ricordava più di averla. Ma ci furono anche individui che si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Di pochissimi conosciamo il nome, come lo scrittore Friedrich Reck e il filosofo Karl Jaspers». L’editore Castelvecchi ripropone l’edizione di quel diario col titolo che voleva lo stesso autore, Diario di un disperato, nella stessa traduzione uscita da Rusconi nel 1970 per mantenere vivo il suo ricordo e le sue profonde riflessioni ancora di grande attualità.
In una lettera consegnata alla moglie dopo la sua morte si legge: «vogliate onorare la mia memoria, ripagate il male col bene, anzi, con l’aiuto attivo», a testimonianza di «come alla fine avesse desiderato vincere l’odio e l’amarezza, quei “cancri dell’anima” che lo avevano perseguitato negli ultimi anni, e offrire la vita a Colui che aveva sempre cercato profondamente di servire».