Referendum, la posta in gioco

scheda referendumArticolo per Settimana
(n. 24 del 18 giugno 06)

Antonio Cecconi

I prossimi 25 e 26 giugno siamo chiamati a confermare con un sì o respingere con un no la riforma costituzionale voluta dal centrodestra nella passata legislatura. Questo tipo di consultazione referendaria ha luogo quando la modifica non viene approvata con la maggioranza qualificata dei 2/3 da entrambi i rami del Parlamento e il referendum è richiesto a norma dell’art. 138 della Costituzione. L’esito sarà valido indipendentemente dal numero dei votanti.

Il nuovo Parlamento e le sue competenze

Per capire la posta in gioco, esaminiamo i contenuti della riforma. Una prima serie di modifiche riguarda il Parlamento, le più vistose sono quelle apportate al Senato. Finisce il bicameralismo perfetto (tutte le leggi devono passare per l’approvazione da entrambi i rami del Parlamento) e il Senato diventa “federale”: i 252 (rispetto agli attuali 315) senatori vengono eletti su base regionale contestualmente all’elezione dei Consigli regionali; poiché le elezioni regionali avvengono in tempi diversi, il Senato sarà rinnovato “a pezzi”.

I senatori (per diventarlo basteranno 25 anni, rispetto agli attuali 40) si occuperanno principalmente delle leggi su cui Stato e Regioni hanno competenze “concorrenti”, cioè comuni; però il Governo ha facoltà di “passare” alla Camera quei disegni di legge ai quali ritenga necessario apportare modifiche essenziali per l’attuazione del programma del Governo stesso. I senatori non voteranno più la fiducia al premier e scomparirà la figura dei “senatori a vita”, sostituiti dai “deputati a vita”.

La Camera passa dagli attuali 630 a 518 deputati, 18 dei quali eletti dalla circoscrizione elettorale degli italiani all’estero; ha competenza nelle materie di pertinenza statale esclusiva. Sia Camera che Senato possono proporre modifica alle proposte di legge approvate dall’altro ramo del Parlamento entro 30 giorni dalla votazione. Per  materie specifiche (tra cui i livelli essenziali delle prestazioni) la competenza legislativa è esercitata congiuntamente dalle due Camere. I deputati non votano più la fiducia la Governo (v. sotto) mentre possono sfiduciarlo e nominare un nuovo Primo ministro, però con una serie di vincoli anti-ribaltone.

Abbiamo fatto una sintesi assai sommaria delle modifiche. Le varie e complicate norme di cui è composta questa parte della riforma comportano procedimenti legislativi diversificati, con la possibilità per ciascuna delle due Camere di intervenire con “osservazioni” sull’attività dell’altra, come pure di concorrere al processo legislativo mediante la convocazioni di una commissione mista paritetica ad opera dei due Presidenti delle stesse Camere.

Un Primo ministro “assoluto”

Il capo del Governo si chiamerà Primo ministro e godrà di un notevole potenziamento dei suoi poteri e competenze. La sua nomina deriverà direttamente dai risultati elettorali, in base alla preventiva indicazione della coalizione che risulterà vincente. Il Presidente della Repubblica si limiterà a ratificarne la nomina e non avrà possibilità di incidere sulle procedure di designazione e revoca dei ministri.

La composizione del Governo è competenza piena ed esclusiva del Primo ministro, a cui spetta il compito di “determinare” (anziché di “dirigere”, come recita l’attuale formula) la politica del Governo stesso. I poteri del Governo aumentano anche nei confronti del Parlamento, in materia di definizione della programmazione dei lavori.

Abbiamo già detto dei diminuiti poteri del Presidente della repubblica, in parte controbilanciati dalle facoltà di designare il Vicepresidente del CSM e di nominare i presidenti di alcune Authority. Si potrà diventare presidente a quarant’anni, dieci anni prima di adesso.

La forma di Stato e gli organi di garanzia

La riforma costituzionale ridistribuisce le competenze tra Stato e Regioni con ulteriori modifiche, di non grande entità. Questo aspetto era già stato parzialmente modificato dalla riforma costituzionale votata dal centrosinistra nel 2001. Riprendendo quell’impostazione, che ripartiva le competenze tra Stato e Regioni secondo tre ipotesi (competenza esclusiva dello Stato; intervento “concorrente” di Stato e Regioni; potestà esclusiva delle Regioni sugli ambiti non specificamente attribuiti alle altre due ipotesi), viene accresciuta la potestà esclusiva dello Stato su alcune materie in precedenza affidate alla competenza concorrente (anche per correggere alcune difficoltà create dalla precedente riforma) mentre è attribuita alle Regioni potestà legislativa esclusiva sulle seguenti materie: assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione; polizia amministrativa regionale e locale; ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

Viene introdotto un limite all’azione legislativa regionale: il Governo ha facoltà di convocare il Parlamento in seduta congiunta per annullare leggi regionali contrastanti con l’interesse nazionale (un istituto che esisteva già prima del 2001, mai utilizzato).

Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) subisce due modifiche: una riguarda le modalità di elezione dei membri designati dal Parlamento, che probabilmente modificherà le proporzioni in favore dei membri nominati dalla maggioranza; l’altra la designazione del Vicepresidente (che di fatto svolge in larga parte le funzioni di Presidente, essendo pochi i casi in cui il Capo dello Stato esercita attivamente questa funzione) che finora spettava allo stesso CSM e che adesso diventa attribuzione diretta del Presidente della Repubblica.

Anche per la Corte costituzionale sono introdotte due novità: nella composizione aumenta il numero dei membri eletti dal Parlamento (da 5 a 7), mentre sia il Presidente della Repubblica sia le supreme magistrature eleggono non più 5 ma 4 membri per ciascuno. L’altra modifica riguarda la possibilità di ricorso alla Corte, che viene estesa a Comuni, Province e Città metropolitane.

Precedenti tentativi

Le novità sono quantitativamente rilevanti, rappresentano il più grande sforzo riformatore fin qui attuato. I precedenti tentativi di riforma costituzionale si erano avuti all’inizio degli anni ’80 con la Commissione Bozzi, poi con le commissioni bicamerali De Mita-Jotti e successivamente D’Alema. Le esigenze di modificazioni al testo costituzionale (stiamo sempre parlando della II parte, non avendo mai nessuno, al di là di qualche battuta, pensato di modificare né i Principi fondamentali, né la parte I che tratta dei diritti e doveri dei cittadini) hanno oscillato tra un’opera di “manutenzione” e impianti riformatori profondi.

Sulla mancata riuscita di tutti i precedenti tentativi di riforma pesò la scelta di modificare la costituzione con maggioranze ampie, più estese di quelle che reggono i Governi e quindi col consenso dell’opposizione. Questo criterio è già inscritto nell’attuale testo, che prevede per le modifiche costituzionali la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento e il successivo referendum confermativo nel caso che l’approvazione definitiva avvenga con maggioranze inferiori ai 2/3 dei parlamentari.

Lo spirito di queste norme sta nella volontà dei costituenti di edificare per il popolo italiano una “casa comune”, sulla cui conformazione ed uso fosse d’accordo larga parte dei soggetti politici, in maniera che ciascuna componente del sistema democratico avesse agio di svolgere il proprio ruolo, sia che i suoi rappresentanti stessero al Governo o all’opposizione. Altro criterio fondamentale è il cosiddetto “equilibrio dei poteri”, con opportuni contrappesi perché nessuna componente dell’organizzazione statale abbia a prevalere pesantemente sulle altre.

Non si dimentiche che la Costituzione repubblicana, approvata a larghissima maggioranza il 22 dicembre del ’47, fu una felice e impegnativa sintesi dei suddetti criteri: in essa si riconobbero le componenti socialiste e comuniste (fortemente legate all’ideologia marxista), quelle laico/liberali e quelle cattoliche. I cattolici diedero in particolare significativi apporti alla formulazione dei principi fondamentali (articoli 1-12) e della I parte, mettendo a frutto un lungo lavoro di riflessione avviato durante il fascismo e la guerra, favorendo l’accettazione convinta del principio democratico e operando un’intelligente traduzione dei principi della dottrina sociale della chiesa in formulazioni capaci di “tenere” nel libero dibattito politico (1)

La prima consistente riforma costituzionale giunta a compimento fu quella votata nel 2001 dalla sola maggioranza di centrosinistra a conclusione della XIII legislatura. Fu modificato il solo titolo V, principalmente il rapporto tra Stato centrale e Regioni, con una ridistribuzione di poteri in senso “federalista”. C’è da dire che i contenuti erano stati a lungo confrontati e in larga misura concordati con l’opposizione nella bicamerale presieduta da D’Alema (secondo alcuni concedendo fin troppo alle istanze leghiste). Ciò non servì tuttavia ad acquisire i voti dell’opposizione.

Una riforma blindata

Proprio in forza di quella modifica “di parte”, giustamente criticabile, il centrodestra una volta andato al potere si sentì autorizzato a una “sua” riforma – anche questa “a colpi di maggioranza” – insistendo sulla devolution, anche se il passaggio di poteri dallo Stato alle Regioni è solo una parte della riforma, certamente non la più significativa. Al contrario di quanto era avvenuto in precedenza, l’elaborazione non fu prodotta in una sede istituzionale, ma in una baita nel Cadore ove quattro “saggi” (uno per ciascun partito della Casa delle libertà) licenziarono la “bozza di Lorenzago”.

L’iter parlamentare, “blindato” dalla maggioranza, è stato una sorta di slalom tra il Senato e la Camera, con alcune iniziali modifiche dovute esclusivamente ad accordi di vertice tra i partiti di maggioranza, senza accogliere alcuna proposta né dell’opposizione né di esperti di diritto costituzionale. In sede di seconda lettura, la Commissione Affari costituzionali della Camera, competente in materia, ha dedicato ben tre ore e mezza, concentrate nell’ultima settimana di luglio 2005 (2)

Se la scelta del centrosinistra di approvare le modifiche al solo titolo V della II parte con una maggioranza ristretta era stato un errore, denunciato dal centrodestra, a parti invertite si è scelto di perseverare nell’errore, addirittura amplificandolo con la preventiva rinuncia a ricercare una sede istituzionale di elaborazione e confronto e con l’estensione della riforma pressoché all’intera II parte della Costituzione.

Problemi e pericol

Ritorniamo sulle modifiche prima descritte per una valutazione critica. Il primo e più evidente elemento di discontinuità è il cambiamento della forma di Governo, che l’ex Presidente della Corte Costituzionale Leopoldo Elia ha definito “premierato assoluto”, con prerogative analoghe a quelle degli antichi monarchi.

Sulla scia di quanto avvenuto per l’elezione di Sindaci e presidenti delle Province e Regioni (ove peraltro stanno emergendo aspetti problematici), si conferisce al Primo ministro una sorta di investitura popolare diretta; i ministri diventano una sorta di suoi collaboratori, che egli ha facoltà di nominare e revocare senza passaggio parlamentare e senza il concorso del Presidente della repubblica.

Numerosi docenti di diritto costituzionale hanno denunciato la pericolosità di questa parte della riforma, evidenziando la netta perdita di potere – a tutto vantaggio del Primo ministro – da parte del Parlamento, del Presidente e della collegialità dei Ministri; tutto questo a detrimento del fondamentale criterio dell’equilibrio dei poteri.

La vittoria referendaria del sì andrebbe di fatto a suggellare quelle che un autorevole costituzionalista ha definito “modificazioni tacite”, avvenute nel corso della XIV legislatura (2001-2006) per risolvere alcuni problemi delle forze politiche di quella maggioranza – o di qualche suo esponente – col ricorso a “tecniche assai spregiudicate di applicazione dei regolamenti parlamentari (…) le quali consentivano di velocizzare le procedure legislative, in particolare col ricorso frequente al voto di fiducia, di ridurre ai minimi termini il ruolo delle opposizioni e di conferire al Governo deleghe pressoché illimitate” (3)

Alcuni altri aspetti problematici, sopra già accennati, sono la diversificazione dei procedimenti legislativi (col rischio di veri e propri problemi di “direzione del traffico”), il pericolo della frammentazione regionale su materie delicate (con la sanità di esclusiva competenza regionale, che ne sarà di tutti coloro che si spostano da una Regione all’altra per motivi di cure mediche?), la più forte ingerenza del potere politico (e specificamente della maggioranza) nei confronti della Magistratura e della Corte Costituzionale.

Riformare, come e perché

Gli aspetti problematici evidenziati non significano che non sussista il bisogno di riformare. Però senza dimenticare prima di tutto la bontà dell’impianto complessivo della Costituzione repubblicana: sempre da parte di autorevoli costituzionalisti è stato affermato che l’impianto della II parte è coerente con i valori che informano sia i principi generali che la I parte, per cui una pesante modifica di quella significherebbe minare il senso profondo di questi.

C’è da fare memoria di che cosa significò per l’Italia che usciva da cinque anni di guerra e venti di dittatura la Costituzione repubblicana: la volontà di concorrere, nella diversità accolta e valorizzata di molteplici soggetti culturali e politici e dei “mondi” cui essi si riferivano, a un progetto condiviso nel segno del rispetto dell’altro, dell’avversario mai pensato come nemico, della convergenza di aspirazioni e valori diversi ma riconducibili al bene comune.

È un retaggio da recuperare, superando le anguste contrapposizioni tra maggioranza e minoranza per ritrovarsi su regole comuni. Successivamente ciascuno giocherà le proprie carte. Perché questo succeda, c’è bisogno di un recupero della politica come intelligenza e come speranza.

Nella comunità cristiana, i laici credenti sono chiamati a ruoli di responsabile protagonismo civile: coltivare un progetto di società, allargare gli spazi della democrazia, abitare i luoghi delle decisioni da cui dipende il futuro del paese, arricchire di senso e di qualità la vita di tutti i cittadini cominciando dai soggetti e fasce di popolazione “deboli”.

La necessità di riformare va posta al servizio di una forma-paese in cui la politica serve il bene comune, sviluppa armonicamente diritti e doveri, valorizza le diverse soggettività locali, culturali, valoriali. E che la legalità prevalga finalmente sulla furbizia, la lungimiranza sui calcoli di bottega. Perché ciò avvenga, che cosa c’è da augurarsi? Probabilmente – lasciando ai fatti ampia facoltà di smentirci – una vittoria del no seguita dalla piena disponibilità della maggioranza e del Governo attuali a confrontarsi seriamente con la minoranza per progettare insieme le modifiche costituzionali necessarie, capaci di durare nel tempo.

Note

1) Si veda a questo proposito il testo di G. Campanini Dal Codice di Camaldoli alla Costituzione in Aggiornamenti Sociali n. 5/2006. Più in generale è da segnalare il DOSSIER COSTITUZIONE ITALIANA curato dalla stessa rivista, a cui è largamente debitore l’autore del presente articolo. Il tutto è disponibile sul sito http://www.aggiornamentisociali.it/
2) V. la puntuale ricostruzione dell’iter parlamentare nell’articolo di E. Rossi e V. Casamassima – La riforma costituzionale tra passato e futuro in Studi Zancan n2/2006

3) A. Pizzorusso – Costituzione italiana: come uscire dalla crisi? in Aggiornamenti Sociali n. 2/2006