(Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore)
1. La reincarnazione nel contesto della Nuova Religiosità
Solo qualche tempo fa l’argomento poteva ancora sembrare qualcosa di esotico, attinente alla storia delle religioni o alle vicende di qualche gruppo marginale, oggi ci rendiamo sempre più conto della sua impressionante attualità e concretezza. Anche qui l’esito fattuale della secolarizzazione ha smentito tante dotte previsioni e capovolto tante scontate aspettative. L’uomo secolarizzato non è pervenuto ad una generalizzata convinzione che questo “secolo” esaurisce tutto l’esistente, ma ha raggiunto in molti casi la convinzione che c’è altra vita da vivere oltre questa vita.
Operata la distinzione tra Nuovi movimenti Religiosi e Nuova Religiosità, si è rilevato che la dottrina della reincarnazione rappresenta il test più sicuro per diagnosticare la presenza della Nuova Religiosità in un dato contesto. Una indagine condotta nel 1991-92, limitata a due città italiane molto diverse per collocazione geografica e culturale: Massa (capoluogo della provincia di Massa Carrara) e Foggia, ha dato questi risultati: su un totale di 2652 risposte a Foggia si è pronunciato a favore della reincarnazione il 31,44% e a Massa, su 5455, il 43,42 [1].
Il dato dell’Indagine europea sui valori del 1981 fissava i credenti italiani nella reincarnazione al 21%, un dato lievemente inferiore alla media europea (25%). La stessa indagine, ripetuta nel 1990 nell’ambito della Indagine mondiale sui valori, evidenziava un dato italiano salito al 27% (più precisamente: 23% degli uomini e 31% delle donne), un dato coincidente con la media europea dell’epoca, sebbene – quanto a paesi di tradizione cattolica – inferiore a quello della Francia e della Spagna (28%) e del Portogallo e dell’Austria (29%), superiore invece di un punto a quello della Polonia (26%).
Infine, l’Indagine europea sui valori è stata ripetuta nel 1999. I dati internazionali non sono stati ancora pubblicati, ma quelli italiani sono stati anticipati nel volume curato da Renzo Gubert, “La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori”, Franco Angeli, Milano 2000. Qui, nel capitolo dedicato alla religione, Salvatore Abbruzzese scrive a proposito della risposta «credo nella reincarnazione» che «oltre un terzo degli intervistati crede in una simile affermazione e nell’ambito dei praticanti regolari la percentuale resta comunque elevata» [2].
È evidente che la presenza di una dottrina religiosa nuova in un determinato contesto non è misurabile solo sulla base del numero degli aderenti al movimento che la professa ufficialmente e questo è particolarmente vero a proposito della reincarnazione. «Un’idea religiosa nuova è come un sasso gettato nell’acqua, che determina una serie di cerchi concentrici. I primi cerchi sono più netti e visibili, ma sono anche molto più piccoli; gli ultimi cerchi sono più difficili da vedere, ma sono molto più grandi» [3].
2. Una vita precedente per spiegare il mistero della vita presente
La domanda sul “dopo” è una domanda religiosa per essenza. Insieme e indissolubilmente anche domanda filosofica. La morte è addirittura per Platone al centro della riflessione filosofica, per cui la vita del vero filosofo si risolve in un “esercizio di morte” [4]. La credenza in una vita oltre la morte accompagna l’avventura dell’uomo su questa terra, per così dire, da sempre. Matrimoni e funerali – diceva Giambattista Vico – sono le attestazioni più antiche e comuni della religiosità e della civiltà dell’uomo [5]. Segno che l’uomo, dal momento in cui è apparso sulla scena e ha preso coscienza di sé, ha concepito la vita nel suo inizio e nella sua fine come qualcosa di “sacro” e di “misterioso”, meritevole quindi di attenta riflessione.
La riflessione sulla vita dell’uomo non può poi andare disgiunta dalla riflessione sul male che la attraversa. L’uomo, anche qui – per così dire – da sempre, ha intuito che c’è un legame tra il male, anche fisico, e il male morale. Se ti comporti bene devi raccogliere frutti buoni, se ti comporti male devi raccogliere frutti cattivi. Questa constatazione però, frutto di un primo livello di riflessione, entra ad un certo punto in crisi.
È interessante notare come elementi di questa crisi si trovino in contesti culturali e religiosi molto diversi, come per esempio, Israele e l’India. In Israele la concezione di un rapporto stretto tra agire dell’uomo e retribuzione morale entra in crisi nella riflessione dei libri sapienziali, in particolare Giobbe e il Qoelet. Anche in India succede qualcosa di simile.
Una delle concezioni più tipiche del pensiero indiano è infatti quella della corrispondenza tra karma e destino, due concetti che possono essere assimilati – facendo molta attenzione al carattere semplificatorio di questa assimilazione – a quelli di azione e reazione [6]. È con le Upanishad (e siamo attorno all’VIII-VII secolo a. C.) che la riflessione religioso-filosofica si afferma ed elabora, come soluzione del problema, la dottrina della reincarnazione.
La crisi si profila mediante la riflessione su un dato ineludibile e inoccultabile dell’esperienza umana: molto spesso infatti all’agire buono non corrisponde – nell’ambito del mondo della nostra esperienza – una vita beata e all’agire malvagio una vita punita. «Ecco – canta il salmista -, questi sono gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina.
Se avessi detto: “Parlerò come loro”, avrei tradito la generazione dei tuoi figli. Riflettevo per comprendere: ma fu arduo agli occhi miei» (Sal 73,12-16). Il saggio delle Upanishad ipotizza allora che l’esistenza umana si manifesti in un insieme strettamente collegato e concatenato di diverse esistenze e che la situazione di una data esistenza presente sia il risultato di una esistenza precedente in una serie causalmente connessa. Questa prospettiva è coerente con un contesto metafisico che ignora il “principio di creazione”, concepisce conseguentemente il tempo in modo decisamente ciclico e interpreta l’esistenza del contingente e diveniente come “manifestazione” di un Assoluto non personalmente inteso.
3. Chi si reincarna?
Proprio quest’ultima osservazione ci induce però ad ampliare e approfondire il nostro sguardo indagatore: qual’è l’antropologia che questa soluzione necessariamente comporta? Detto in altri termini: chi o che cosa trasmigra? Evidentemente qualcosa che intrattiene con il corpo un legame accidentale, quasi casuale, comunque avventizio. Certamente non essenziale.
Un passo famoso della Bhagavadgîtâ può assurgere a testimonianza sintomatica: «A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi» [7]. Questa marginalizzazione della corporeità si accompagna ad una considerazione problematica della persona, che tende anzi in alcune scuole a dissolversi. In perfetta coerenza d’altronde con una concezione impersonale dello stesso Principio assoluto.
Nel mondo della Bibbia questa operazione è impossibile proprio in virtù dell’antropologia che le è propria: qui il corpo fa la parte del leone. In modo così marcato da fornire un certo fondamento a teorie – come la Ganztodtheorie – che relegano la sopravvivenza dell’uomo ad un fattore puramente divino senza nulla concedere alla natura dell’uomo. In questo senso il confronto con la dottrina della reincarnazione può aiutare l’escatologia cristiana a ritrovare un approccio più equilibrato al dato biblico.
Nel Nuovo Testamento si conferma e – per qualche aspetto – si accentua in virtù dell’evento centrale dell’Incarnazione del Verbo. La reincarnazione è proprio una dottrina che costituisce un punto discriminante e una reale difficoltà nell’assunzione – peraltro convinta – del pensiero platonico da parte dei Padri. La reincarnazione, in contesto giudeo-cristiano, finisce dunque per vivacchiare nell’ambito dello gnosticismo (neppure qui in posizione centrale) e nella cabbala (influenzata dallo gnosticismo).
È solo nei tempi moderni che assistiamo in Occidente ad un ampio recupero ad opera soprattutto delle società Teosofica e Antroposofica (quest’ultima in modo particolare nell’area di lingua tedesca) ed è solo nel clima postmoderno (e postcristiano) della nuova religiosità che questo recupero diventa un fenomeno di massa.
A questo punto è già risultato evidente che la dottrina della reincarnazione non è un dettaglio esotico e marginale a livello quantitativo, ma emerge anche la sua non indifferenza rispetto a tutto il complesso della Weltanschauung cristiana. Vale la pena allora far emergere con maggiore chiarezza i presupposti che la pongono in aperta tensione con la visione cristiana del mondo e della vita. Questo in una prospettiva che risulta insieme teologica e filosofica.
Premetto che queste mie considerazioni non si rivolgono direttamente alle concezioni reincarnazioniste orientali. Questo certamente per mancanza di specifica competenza, ma anche perché il mio interesse si volge in modo particolare a come questa dottrina è recepita e vissuta concretamente in occidente. È stato da tutti osservato che la concezione orientale-tradizionale della reincarnazione e quella occidentale-moderna differiscono considerevolmente su punti tutt’altro che marginali. Innanzitutto il valore da dare a questo evento.
Mentre per l’orientale il rinascere in nuovi corpi, siano essi di animali o anche di uomini è comunque visto con raccapriccio e l’ideale da perseguire è quello di uscire dal ciclo ripetitivo e colmo di sofferenza del samsâra e in ciò consiste la liberazione, la moksha; per l’uomo occidentale moderno un’altra nascita è vista come una nuova opportunità di continuare a vivere e di progredire.
Da una parte abbiamo dunque una concezione per così dire “pessimistica”, dall’altra “ottimistica” della reincarnazione. Non solo: il contesto immanentista in cui l’occidentale vive, tutto teso alla ricerca della felicità attraverso la soddisfazione dei suoi desideri terreni, lo spinge a cercare la liberazione non in un cambiamento “di livello”, qualitativamente segnato, ma in nuove opportunità di vita.
Il passato cristiano ha abituato l’uomo occidentale a coltivare aspirazioni “eccessive” che, una volta orientate nell’ambito ristretto del mondo mondano e sganciate dalla prospettiva della gratuità della grazia si sono rivelate di una tragica pericolosità: le ideologie del secolo scorso ne sono la prova. Nel contesto del crollo delle ideologie la reincarnazione “occidentale” sembra orientarle in un aldilà vissuto piuttosto come continuazione di questo mondo che come trascendimento del mondo in un’altra dimensione di vita: l’escatologia si converte in futurologia.
4. L’identità personale
Il processo esistenziale, una volta che consapevolemente non è più concepito come rapporto dialogico con un Persona che gratuitamente offre la salvezza perché venga liberamente accolta, si ritrova tradotto nella categoria ormai diventata abituale del “progresso”, frutto di un impegno soltanto o almeno principalmente umano. Qui il problema di “chi trasmigra” – così complesso e bisognoso di letture differenziate in contesto orientale – trova una soluzione ad immediata portata di mano posto il contesto culturale: è l’ anima, l’anima della tradizione cristiana, inconsapevolmente caricata di valenze cartesiane, l’”io” della mia coscienza abituale e ingenua.
Ad uno sguardo più attento però questa soluzione, accattivante nella sua ovvietà, si rivela un “falso amico”, perché induce in una prospettiva che è un vero nido di aporie filosofiche e rappresenta comunque un radicale allontanamento dalla fede cristiana in ciò che essa ha di più centrale. Non voglio qui entrare nella vexata quæstio se il termine persona possa essere attribuito con verità senz’altro all’anima (sant’Agostino) e non piuttosto al composto di anima e corpo (san Tommaso d’Aquino).
Qui la posta in gioco è il tipo di rapporto che l’anima, come componente spirituale e immortale dell’uomo intrattiene con il corpo. La mia precisa identità personale è garantita soltanto da un principio interiore di carattere spirituale o comporta una connessione non avventizia con dei dati che attengono all’esistenza corporea?
Un filosofo americano convinto reincarnazionista – Geddes MacGregor – imposta così il problema con molto humor e vivacità, ma non senza efficacia: «Il reincarnazionista deve vedere il sé che è rinato come qualcosa d’altro rispetto al sé che io ho di solito in mente quando dico “me stesso” o “tu stesso”. Quando io parlo di “me stesso” mi riferisco normalmente a tutta la persona che io riconosco come me, incluso il timbro della mia voce, la curva delle mie sopracciglia e anche certe caratteristiche di cui voi probabilmente non siete a conoscenza, come il dito del mio piede danneggiato. Riflettendo tuttavia, devo ammettere che certe caratteristiche del sé di cui sto parlando sono effimere anche per la considerazione più comune, come un mal di schiena o un foruncolo sul mio collo. Essi possono essere con me quando parlo con voi oggi, ma non più, spero, quando vi vedo di nuovo domani. Proprio secondo questo modo di vedere comune, dunque, il sé non è interamente costante. Se mi presento davanti a voi con alcune caratteristiche molto insolite, come un eritema su tutto il mio volto, voi potete fermarvi un momento prima di riconoscermi; poi però direte qualcosa di simile a questo: “Dì un po’, che cosa ti è successo?” Dire qualcosa del genere vuol dire riconoscere che il sé, che ritengo di essere me e che voi riconoscete come me, ha patito un cambiamento, ma un cambiamento che, al di là dell’impressione e della sorpresa, è superficiale. Voi vedete, per così dire, al di sotto dell’eritema, il sé “reale” che continua ad avere lo stesso sorriso, la stessa espressione sbigottita, lo stesso suono della voce. Anche un drammatico incremento del mio peso o una sua allarmante diminuzione non sarebbero tali da far dire ai miei amici: “Chi è lei?”» [8].
Il procedimento ci conduce a cercare, al di là di ciò che ci appare come effimero e mutevole, un principio di consistenza e stabilità in cui ritrovare ciò che fa essere quell’uomo che mi sta davanti quella persona lì e non un’altra. Esprimendo questa ricerca con la terminologia scolastica che risale ad Aristotele – e che conserva rettamente intesa tutta la sua validità – ci sforziamo cioè di distinguere la sostanza dagli accidenti.
Da ciò che è apparente, cioè manifesto ai miei sensi e che mi appare come un insieme di caratteristiche diverse, molteplici, diversamente mutevoli, a qualcosa che è oggetto del mio pensiero come il soggetto di tutte queste caratteristiche, che mi permette di percepirle come appartenenti ad una stessa realtà sia nello spazio che nel tempo. Si tratta di un cammino che ci spinge ad andare sempre più in profondità. «Fino a quanto in profondità?» si chiede MacGregor.
Immaginiamo un uomo di nome Bob: «Il poveruomo ha sofferto un incidente che ha paralizzato la sua faccia e il suo corpo e che ha reso necessario sottoporlo ad una tracheotomia, in modo tale che parla solo con un rauco sussurrio, ben diverso da quella voce intensamente baritonale che io ricordo in lui. Dico ancora, soprattutto se amo e ammiro l’uomo, che, nonostante tutte queste sventure, è “sempre lo stesso vecchio Bob”. “Vedo” qualcosa in lui che è, direi, sempre lo stesso “nel profondo”. In questo “profondo” sé io posso trovare quel vecchio senso dell’umorismo, per esempio, e i ricordi di eventi passati che abbiamo vissuto insieme.
Così, dopo tutto, ritengo che Bob sia sempre “lo stesso”» [9]. Questo andare in profondità, oltre il molteplice e il diveniente, se condotto con rigore e perseveranza porta a scoprire un principio assoluto che solo dà pienamente ragione e sottrae all’assurdo della contraddizione tutto questo che io colgo, qualora pensassi che fosse proprio tutta la realtà, senza residui. Così però, mediante un procedimento ben noto alla filosofia cristiana, dai padri greci fino alle famose cinque vie di san Tommaso d’Aquino, arriviamo ultimamente a ciò che “tutti chiamano Dio”, non a quell’io, a quel principio personale che stavamo cercando.
Continua MacGregor: «Ora ci dobbiamo chiedere: quanto di Bob dovrebbe essere tolto per arrivare al punto che non sia più riconoscibile come Bob, fino a che forse non sia più Bob? Una tale questione potrebbe essere sollevata nella sfera dell’etica medica. Supponiamo che Bob, in aggiunta a tutte le altre sue disgrazie, perda le proprie facoltà in modo tale da diventare, come spesso si dice in queste tristi circostanze, “nient’altro che un vegetale”.
Legalmente e ecclesiasticamente, i miseri resti di Bob che ancora vivono e respirano sarebbero ancora designati come ciò che era stato Bob nel fiore della sua salute; ma il sé che gli amici di Bob avevano conosciuto e amato sarebbe diventato irriconoscibile» [10].
Potremmo paragonare il procedimento da noi seguito allo sfogliamento di un carciofo – la metafora è sempre di MacGregor – «Avendo sfogliato il mio sé come si farebbe con un carciofo, posso aspettarmi di raggiungere in fondo un nocciolo non più sfogliabile che posso chiamare il mio intimissimo sé. Questo nocciolo comunque, anche se io potessi trovarlo, non è, dopo tutto, esattamente ciò che dovrebbe incarnarsi. perché questo intimissimo “me” è eterno e divino, puro e non mescolato» [11].
Partendo da un reale rilevamento fenomenologico che fu già di sant’Agostino che coglie Dio come «intimior intimo meo» [12] o di san Bonaventura che lo riconosce nascosto nel fondo dell’anima, siamo inavvertitamente trascesi dalla sfera dell’anima a quella di Dio senza cogliere la profonda ed essenziale «differenza ontologica». Questo errore di prospettiva è noto, dà ragione di tanti esiti nella storia della filosofia e della teologia; ma può anche aiutarci a rinvenire un’altra strada per cogliere il nucleo personale dell’uomo e prendere atto delle aporie della reincarnazione.
5. Identità e corporeità
Chi ha visto il film Blade Runner, da molti considerato il capolavoro del regista Ridley Scott, ricorderà certamente come i “replicanti”, gli uomini artificiali frutto delle avanzatissime biotecnologie del ventunesimo secolo, nel disperato tentativo di diventare pienamente e veramente “umani” fossero alla caccia di “ricordi”. Fotografie, nomi, vicende tali da costituire un plausibile passato. Il ricordo vuol dire un legame concreto con un effetivo hic et nunc, con una precisa collocazione spazio temporale.
Ciò che fa l’uomo uomo non è solo la capacità di trascendere i dati materiali, corporei, sia nella sfera del conoscere che in quella del volere. Quella capacità che faceva dire ad Aristotele che «l’anima è in qualche modo tutte le cose» [13], ma anche il fatto che questa capacità che lo proietta verso l’infinito è situata spazio-temporalmente. Io non sarei più io se mi fosse – per assurdo – tolto non solo l’esercizio del pensiero e della volontà e quindi della libertà (atto secondo), ma anche la radicale capacità di pensare e volere (atto primo), diventerei un animale. Ma non sarei neppure più io se – sempre per assurdo – mutassero il luogo e la data della mia nascita e i miei genitori.
Tornando ai “replicanti” alla caccia di ricordi, si potrebbe obiettare che in questo modo – se bastasse un qualunque ricordo, vero o falso che sia, per conferire identità umana – si rischierebbe di ridurre l’identità ad una mera questione di consapevolezza, di “autocoscienza”. In realtà un “ricordo” vero nomine è qualcosa di più di una pura esperienza psicologica soggettiva, non coincide con la mia possibilità di accedervi che può essere fattualmente compromessa da fattori estrinseci, ad esempio il fatto che la necessaria strumentazione fisiologica è compromessa, come in un malato che ha perso totalmente la “memoria” o in un portatore di grave handicap che non l’ha mai potuta esercitare. Il ricordo è oggettivamente lì come legame reale con quella situazione che si concretizza nella mia dimensione corporea ed entra a costituire essenzialmente il mio essere uomo ed essere “questo” uomo.
Si potrebbe anche pensare che diversi ricordi appartenenti a vite diverse potrebbero svolgere la stessa funzione. Sappiamo come oggi è nata tutta una letteratura su presunti ricordi di vite passate. Certamente essi non possono essere invocati come prova empirica della reincarnazione, perché sono suscettibili di svariate interpretazioni [14]. Soprattutto però perché la reincarnazione comporta sempre un necessario azzeramento della memoria per dar ragione della vita così come noi la sperimentiamo.
Il mito di Er a conclusione della Repubblica di Platone, dove le anime avviate alla nuova nascita bevono al Lete, il fiume della dimenticanza, ce lo ricorda [15]. Costituisce anzi un topos della polemica cristiana antireincarnazionista il rilevamento che una memoria chiara e indubitabile di vite precedenti non c’è (il che non è certamente smentito da confusi presunti ricordi ottenuti magari sotto ipnosi) e che se il senso di una nuova nascita fosse la soddisfazione per colpe passate, l’obiettivo sarebbe strutturalmente fallito, perché non si dà vero pentimento senza consapevolezza.
Se dobbiamo riconoscere nella dimensione corporea un elemento imprescindibile della identità umana, diverse esistenze che non intrattengono nessun legame oggettivo a quel livello che è il loro, cioè corporeo, e che quindi non sono oggettivamente sperimentabili come interconnesse, neppure per il soggetto che presuntamente le dovrebbe vivere, non possono soddisfare alla bisogna. Il ricordo psicologico ha senso solo se c’è qualcosa di oggettivo da ricordare, altrimenti non è più propriamente ricordo, ma fantasticheria, proiezione di un inconscio desiderio di radici.
6. Identità e persona umana
Abbiamo visto che il contesto in cui si è sviluppata la dottrina della reincarnazione è quello della retribuzione. Ciò è significativo non solo nella prospettiva del rendere ragione di una situazione dolorosa in cui l’uomo si trova senza che ciò sia il frutto e quindi la giusta retribuzione di un suo agire malvagio, ma anche in ordine al significato ultimo di una perfezione morale umana.
Ciò risulta sempre legato alla concezione della persona. È noto come il concetto di persona sia uno dei frutti filosofici più maturi e significativi della speculazione teologica cristiana. Il dover rendere ragione del fatto che Gesù è il Figlio di Dio in senso vero e pieno, senza attentare all’unicità di Dio ha portato ad elaborare concetti altamente sofisticati rispetto al livello di riflessione del tempo come quello di natura e di persona. Tre persone in una natura e due nature in una persona costituisce la sintesi dogmatica dei due principali misteri della fede cristiana, una sintesi che è costata secoli di dispute, lotte e un aspro e complesso discernimento terminologico-dottrinale.
La perfezione morale della persona dipenderà da ciò che essa è nel suo profondo. Certamente la persona è qualcosa di unico e irripetibile, ultimamente incomunicabile. Ma ciò non è sufficiente per qualificarla nel suo essere proprio. Anche una volgare goccia d’acqua è – nel suo essere qui hic et nunc – qualcosa di unico e irripetibile: questa goccia d’acqua non può diventare quella goccia d’acqua senza cessare di essere appunto “questa”, qui e ora. Persona non è neppure soltanto un sussistente, un soggetto autonomo.
La definizione di Boezio ha riempito di sé tutto il Medioevo: «persona est naturae rationalis individua substantia» [16]. Non si può certamente dire che essa non colga nel segno, tuttavia ci si può e ci si deve chiedere se chiarisca veramente ciò che nella persona vi è di più essenziale. Così parrebbe che si tratti soltanto di una individualità dotata di una grande dignità. Resta però da determinare meglio la natura di questa dignità. Proprio la speculazione trinitaria ha messo sulla strada della categoria decisiva, soprattutto per opera di sant’Agostino: la categoria della relazionalità [17].
Essere persona è capacità di stabilire relazioni, è porsi come io davanti ad un tu. Il disporre di facoltà elevate come l’intelligenza e la volontà comporta la libertà e la libertà la capacità di amare. La relazione fondamentale e fondante risulta così essere l’amore.
7. La realizzazione morale della persona umana
Se così stanno le cose la perfezione morale non consiste di per sé nell’accumulo di qualità buone, quanto nel coltivare la relazione fondamentale, come relazione di amore, dove l’io umano risponde all’appello del Tu divino che lo interpella come suo Principio, suo Creatore e suo Salvatore: « Ascolta, Israele: […] Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze » (Dt 6,4).
Il problema non è “autoperfezionarsi” o “autorealizzarsi”, per cui il tempo a disposizione – per quanto lungo esso sia, o si speri che sia – appare necessariamente esiguo, perché « le sofferenze del momento presente non sono paragonabili (ouk áxia) alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18; cfr. 1 Cor 2,9). La parabola degli operai chiamati a lavorare alla vigna esprime con forza questo concetto. È stato notato come alle parabole appartiene di assumere come medio comunicativo una situazione ben nota agli ascoltatori, presa da un’ovvia esperienza quotidiana. In questo quadro però c’è spesso un dettaglio che stona, anzi che scandalizza.
Non è un errore nello svolgimento di un canovaccio retorico, ma qualcosa che appartiene pienamente alla sua strategia. Un padrone va a cercare in piazza gli operai per la sua vigna: li ingaggia in diversi momenti della giornata, contrattando con loro la paga di un denaro. I primi chiamati lavorano tutto il giorno, gli ultimi un’ora soltanto. Giunto il momento della paga ci si aspetterebbe un trattamento differenziato, invece tutti ricevono lo stesso. Ecco il momento di rottura, che cozza contro la prassi ovvia degli uomini. Attraverso questa fessura però siamo invitati a scorgere il nocciolo dell’insegnamento.
Si tratta appunto di chiarire che il rapporto non è un mero rapporto di lavoro, ma una relazione di amore, dove il “calcolo” non ha luogo [18], dove invece essenziale è la chiamata e la risposta. Ciò ovviamente non significa che questo rapporto non determini un cambiamento anche in termini di progressi qualitativi (le virtù). Il rapporto è per sua natura totalizzante e non tollera di essere relegato ai margini. Dal centro, che è il suo luogo naturale, è chiamato ad investire tutto l’essere della persona che in questa relazione si lascia liberamente coinvolgere.
L’uomo intuisce lo scarto tra le aspirazioni eccessive del suo cuore e le forze e il tempo che ha a disposizione, la soluzione reincarnazionista sembra fornire una facile via di soluzione, in quanto la realizzazione si dispiega in un indefinito numero di esistenze. In realtà essa cela l’illusione di risolvere quantitativamente un problema che è di natura qualitativa: una relazione di amore con la Persona assoluta ed infinita non si costruisce mediante degli sforzi umani, per quanto ripetuti e numerosi essi siano.
Questa sarebbe la torre di Babele. Certamente lo sforzo, nel senso di un impegno decisivo e totale della libertà appartiene strutturalmente a questa relazione che – essendo relazione dialogica e personale – è incontro tra libertà, tra la libertà assoluta e quindi infinita di Dio e la libertà partecipata, limitata e fragile dell’uomo. Il dialogo tra persone presuppone che le persone si incontrino e si fronteggino – volto contro volto -, siano ciò distinte e l’unico modo per distinguersi realmente dalla Persona infinita è quella di esser posti nel limite. Il limite allora, la creaturalità, lungi dall’essere un handicap, risulta essere proprio il presupposto di possibilità di quella relazione d’amore che è la perfezione propria della persona umana; dove il corpo, oltre ad essere il garante del limite in quella situazionalità spazio-temporale che gli è propria essenzialmente, è anche lo strumento indispensabile della relazionalità umana.
Per l’uomo il proprio corpo è la condizione del suo essere nel mondo e della sua apertura al mondo e all’altro. Paradossalmente voler diventare Dio – il che può essere espresso in formule accattivanti, come il dissolversi nell’Uno-Tutto, il perdersi nell’armonia universale di tutte le cose, ecc. – inteso in senso stretto e proprio – vorrebbe dire voler cadere nel nulla, desiderare nihilisticamente l’estinzione di qualunque consistenza del proprio io e della propria identità personale.
Nulla di fatto succederebbe in Dio che da sempre è e sempre sarà, mentre la mia vicenda sarebbe solo quella di un annientamento del mio essere e della mia coscienza di me… C’è da chiedersi se questo sia possibile non solo da un punto di vista metafisico, posto che l’appetito dell’essere è connaturato all’essere, ma anche da un punto di vista antropologico: si può dire di desiderare l’annientamento, ma come ammonisce Aristotele «non è necessario che tutto ciò che uno dice lo pensi anche» [19]. Altro invece è vivere la propria relazione con Dio come partecipazione a relazioni sussistenti in Dio stesso, che sono le divine persone della Trinità.
Ci sono come due capi di una catena: l’assolutezza del dono e il nostro sforzo concreto, che si esprime necessariamente in un coinvolgimento corporeo; entrambi vanno saldamente afferrati e trattenuti, se non ci si vuol lasciar sfuggire il mistero. Anche qui ci può essere di aiuto la rimeditazione di un passo evangelico. Gesù si trova davanti ad una folla di persone che lo hanno seguito ed ascoltato tutto il giorno, «erano circa cinquemila uomini» (Mt 14,21; Lc 9,14; cfr. Mc 6,44).
I discepoli lo esortano a congedarli perché si procurino da mangiare, ma la risposta di Gesù è sconcertante: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). Neppure un grande albergo moderno sarebbe in grado di dar da mangiare lì per lì, senza preavviso a cinquemila persone (di fatto, con tutta probabilità, il numero designa solo i capi famiglia…). Che cosa avete? Chiede Gesù. «Cinque pani e due pesci», cioè la scorta per sé e per il maestro. Gesù li prende e li dà ai discepoli perché li distribuiscano. Il risultato lo conosciamo.
Anche qui vediamo una radicale sproporzione: ciò che è insufficiente diventa sufficiente, in virtù della parola di Cristo e della fede dei discepoli. Il miracolo, cioè il risultato per cui sono sfamate cinquemila persone, non è causato dai cinque pani e due pesci, ma non sarebbe stato possibile senza di essi, non di una impossibilità metafisica dal punto di vista di Dio, ma di una impossibilità economica, cioè ipotetica, posta la volontà di Dio di coinvolgere l’uomo, in Cristo, nel suo piano (economia) di salvezza. Questa è quella che potremmo chiamare la struttura sacramentale dell’esistenza umana, già per così dire prefigurata nella sua costituzione di composto di anima e corpo e inclusa nella scelta economica dell’incarnazione del Verbo.
La persona umana è unica e irripetibile. Non soltanto unica e irripetibile nel suo essere (abbiamo già preso atto che anche una goccia d’acqua è unica e irripetibile), ma unica e irripetibile nel suo agire libero e nella sua relazione con Dio che entra in modo determinante nel suo costitutivo di persona.
Ancora una parabola. La famosa parabola delle dieci vergini: cinque sagge e cinque stolte. Nel contesto di una cerimonia di nozze, devono attendere con le lampade la venuta dello sposo per entrare con lui in corteo nel luogo del banchetto. Nell’attesa le stolte rimangono senza olio e lo chiedono alle sagge. Ecco il punto di rottura: sono sagge, quindi buone, quindi altruiste… Invece no: negano il favore e indirizzano le loro compagne dai venditori. È qui allora che dobbiamo cercare la morale, o meglio il mistero. Questo olio non può essere “prestato”, esso rappresenta quell’apporto personale che è unico e irripetibile, quell’atto di libertà che nutre la luce della fede e che è il mio e solo il mio.
8. Materia signata quantitate
La relazione si situa e questa situazione è ciò che la rende possibile e la qualifica. È noto come i dottori scolastici hanno trattato un problema che a noi moderni può apparire strano: quello del principio di individuazione. Mi ricordo che la prima volta che ho parlato in pubblico della reincarnazione, un vecchio professore di teologia fondamentale mi diede questo consiglio: mi raccomando, lasci perdere il principio di individuazione, non sarebbe capito…
Mi permetto ora di parlarne, con la precauzione di non porlo “al centro” dell’argomentazione. Per san Tommaso d’Aquino il principio di individuazione di una forma corporea è la materia signata quantitate [20]. Una stessa forma dà origine a corpi distinti, in quanto informa parti di materia distinte, quantitativamente distinte, porzioni diverse di quantità. La questione diventa particolarmente delicata nel caso dell’uomo, perché la posta in gioco è quella irripetibilità e unicità, che pur non essendo il costitutivo della persona, entra tuttavia come elemento irrinunciabile dell’essere persona.
All’esser persona compete un quid incomunicabile, qualcosa che è mio e solo mio, che mi permette di pormi di fronte al mondo e alle altre persone con una mia identità. La forma uomo è unica, per cui tutti gli uomini hanno uguale dignità e si riconoscono nella comunità di una unica specie. Tuttavia all’uomo, per la sua essenza, compete di essere forma immersa (anche se non in modo tale da esaurire in questo tutte le proprie virtualità) nella materia, l’anima dell’uomo è forma corporis.
L’essenza dell’uomo quindi non è l’anima, ma l’anima in questo suo rapporto necessario con il corpo. «Licet corpus non sit de essentia animae, tamen anima secundum suam essentiam habet habitudinem ad corpus, in quantum hoc est ei essentiale quod sit corporis forma. Sicut ergo de ratione animae est quod sit forma corporis, ita de ratione huius animae est quod habeat habitudinem ad hoc corpus» [21].
La diversità allora non può venire dall’anima soltanto, ma da questo rapporto necessario (essenziale) con il corpo. Questo rapporto unico è quello – secondo san Tommaso – che è significato dalla quantità in quanto essa si esprime in dimensiones interminatæ, cioè in dimensioni che non hanno determinate misure. È evidente che il peso, l’altezza, la larghezza e altro di una persona possono cambiare e cambiano continuamente.
Oggi noi abbiamo conoscenze scientifiche incomparabilmente più approfondite di san Tommaso, che in questo caso (ma anche in moltissimi altri casi) non fanno però che confermare l’esperienza comune su cui il nostro teologo e filosofo ha fondato le sue deduzioni. Componenti del corpo umano sono in continuo movimento e ricambio, senza peraltro che questo autorizzi a dire che il corpo diventi altro, nel senso di un’altro corpo. Che cosa sono dunque queste dimensioni indeterminate? Sono quelle sufficienti a situare spazio-temporalmente il corpo e quindi, qualora questo corpo per la sua unione essenziale, perché individuante, con un’anima sia capace di scelte libere, a situarlo storicamente [22].
9. Una volta per tutte
Nel tentativo di “acclimatare” senza traumi il reincarnazionismo nel nostro Occidente (che – lo si voglia ammettere o no, – trova il suo costitutivo formale solo nelle sue origini cristiane) si è cercato di trovare punti di appoggio per la dottrina della reincarnazione nei testi del Nuovo Testamento e anche in quelli degli antichi scrittori ecclesiastici. Non è difficile mettere in luce l’inconsistenza di questo tentativo [23], mentre è facile addurre almeno un testo in cui in modo chiaro si fa un’affermazione che contrasta diametralmente con la prospettiva di una pluralità di esistenze dello stesso soggetto umano su questa terra: «E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza» (Eb 9, 27-28).
Franz-Josef Nocke ritiene che questo brano non sia realmente probante, perché si tratta solo di un paragone che serve ad esprimere l’unicità del sacrificio di Cristo che costituisce l’argomento effettivo del testo in questione. Un termine di paragone è qualcosa di secondario, non inteso per sé stesso, dal quale non si può ricavare nessuna conclusione in ordine alla reincarnazione[24]. Forse ciò è vero se assumiamo il versetto nell’ottica della metodologia dei dicta probantia, cioè come argomento probatorio in sé stesso, staccato dal contesto.
Non più se lo leggiamo in una prospettiva storico salvifica, dove interpretare non è solo cogliere il significato di singoli asserti, facendo uso di una strumentazione storico-filologica, ma ripercorrere con il pensiero l’ordine in cui il testo si dispiega, che è – per le Scritture – un ordine eminentemente storico. Non è quindi secondario il fatto che venga usato quel paragone: unicità dell’esistenza, unicità del sacrificio (una volta per tutte) e unicità dell’evento Cristo non sono casualmente in connessione.
Se il mondo è nato da una decisione libera di Dio – e non potrebbe essere altrimenti, se non si vuol cadere nell’assurdo di un Assoluto che in realtà dipende, non è sciolto (non è solutus ab) dal mondo, perchè il mondo da lui necessariamente promana – allora ciò avviene secondo un progetto. In un progetto ad un inizio corrisponde una fine e un fine. Al mondo così concepito compete dunque una unicità strutturale (lasciando impregiudicata la possibilità di altri universi distinti e diversi tra di loro [25]) di cui l’unicità di Cristo e della vicenda di Cristo, al cui centro sta la sua morte salvifica, è la norma fondante.
Contro Nocke mi pare dunque di poter dire che l’autore della lettera agli Ebrei non ha in vista solo l’ «una volta per tutte» [26] del sacrificio di Cristo, ma tutta la logica economica che vi è connessa, a cui l’unicità dell’esistenza umana è assolutamente essenziale.
La persona di Cristo è la persona del Verbo. Per l’unione ipostatica però diventa la persona di un uomo. Non la persona divina che si unisce ad una persona umana, ma la persona divina, assumendo in pienezza la natura umana, acquisisce anche quel modo di unicità che compete all’ essere persona che è proprio dell’uomo. Quando noi diciamo che «Dio si è fatto uomo», con quell’espressione “uomo”, non intendiamo più la persona del Figlio di Dio «nuda», ma in quanto sussiste nella natura umana [27] ed essere un sussistente di natura umana non vuol dire altra cosa che essere una persona umana [28].
Bisogna cioè dire che il Verbo incarnato, vero Dio e vero uomo, è ormai per sempre Gesù di Nazaret, all’interno di quel progetto, che è quello dell’universo reale che noi conosciamo e a partire dal quale hanno senso anche tutte le nostre speculazioni su ipotetici mondi possibili. Come non ci possono essere diverse esistenze umane di un unico uomo, così non ci possono essere diverse “incarnazioni” di Dio [29], diversi «Dio-fatto uomo».
10. Un itinerario post mortem
Il corpo non è il «teatro» delle mie azioni, il luogo estrinseco in cui una «scintilla divina» si trova come imprigionata e da cui tutt’al più ricava solo occasione di crescita e di perfezionamento, in vista di una definitiva liberazione, che si risolve in una «liberazione dal corpo» intesa come uscita dalla «scena di questo mondo» [30]. In realtà il corpo non è neppure solo uno strumento, fosse pure coniunctum, ma co-soggetto dell’agire libero dell’uomo [31].
Le mie coordinate spazio-temporali entrano in quel composto spirituale-materiale che io sono come costitutivi del mio essere-me. Da ciò ne deriva un particolare modo di darsi dell’unicità e irripetibilità che sono proprie dell’essere persona: questo unico ed irripetibile è in relazione unica ed irripetibile con Dio e vi entra a partire da una unica e irripetibile situazione spazio temporale.
L’esistenza dell’uomo su questa terra non può essere dunque che unica. Qualche teologo, in particolare Karl Rahner, hanno voluto vedere nella dottrina cattolica del Purgatorio un corrispondente cristiano della problematica connessa alla reincarnazione e quindi anche un terreno di possibile dialogo [32]. Qui in realtà non si parla di successive esistenze terrene, ma di fasi ulteriori dell’esistenza umana post mortem, in un itinerario a cui non compete più la libertà in ordine alla scelta decisiva e anche alle scelte relative al progresso morale dell’uomo, ma solo il progressivo dispiegarsi della vita divina ormai accolta, in virtù delle scelte fatte durante la vita terrena, in tutte le pieghe, le profondità e le dimensioni del proprio essere a cui corrisponde anche un necessariamente doloroso processo di rettificazione e purificazione. Qui il passaggio non è più però attraverso diverse tappe all’interno dell’esistere terreno in senso orizzontale, ma una ascesa attraverso livelli dell’essere in senso verticale.
Si può parlare di tappe anche in senso orizzontale? Certamente e questo è un dato comune dell’esperienza dell’uomo. L’uomo può cambiare e forti cambiamenti – in ordine ai parametri dei giudizi e delle azioni – comportano un “cambiar vita”, un “nascere” o “rinascere” ad una vita nuova. Qui allora il termine “vita” o “esistenza” ha un senso metaforico. Nel caso della vita della grazia ha un senso analogico e rimanda ad un percorso verso “l’alto” che incomincia qui, ma non può consumarsi qui e non conosce altri livelli essenziali che non siano quelli relativi alla consumazione finale.
L’escatologico cristiano non si identifica puramente e semplicemente con il “futuro”, ma ha a che fare con la “vita eterna”. L’idea dell’uomo che riproduce in sé tutti i caratteri essenziali del mondo, vero “microcosmo”, la cui natura è aperta nella libertà a infiniti esiti esistenziali, che diventa ciò che ama e può farsi quindi minerale, pianta o bestia, oppure diventare veramente uomo, angelo o Dio è un tema antichissimo di cui Henri de Lubac ha tracciato magistralmente la storia [33].
Si tratta però di un tracciato metaforico, simbolico, mitico. Un “mito” nel suo pregnante significato platonico, per cui ci si è chiesti sovente nella storia se anche il reincarnazionismo di Platone – o addirittura lo stesso preesistenzialismo di Origene [34] – non abbiano questa collocazione ermeneutica.
11. Una scelta definitiva
Last but not least, c’è il farsi della persona nell’esercizio della libertà, a cui compete la scelta. Se l’esser persona umana è costituito da questo esser posti in relazione con Dio a partire da una data situazione spazio temporale e se questa relazione si consuma nella libertà e nell’amore, allora ad essa compete la definitività della scelta. Alla scelta non si può sfuggire, neppure scegliendo di non scegliere, perché è anch’essa una scelta.
«L’uomo è un certo esistente nel tempo, che vive nel tempo e che deve decidersi nel tempo; mediante una decisione presa nel tempo deve decidersi rispetto all’eternità che l’attende, perché come spirito è rivolto all’eternità» [35]. «Davanti all’avvenimento decisivo della venuta di Dio nella carne, davanti al Dono assolutamente gratuito e sovrabbondante – o anche soltanto nella sua prospettiva -, non resta spazio che per la scelta, da consumarsi nell’hic et nunc di questa propria concreta esistenza terrena. Da ciò dipende tutto il significato dell’esistenza cristiana.
Il senso della vita secondo la visione del mondo cristiana è racchiuso in una avventura decisiva della libertà. La vita è per una decisione, che per l’uomo non è puntuale, ma si dispiega nel tempo. Non è innanzitutto la realizzazione di un proprio progetto, ma il consenso ad un progetto che è proposto da Dio. L’uomo intuisce che il progetto da realizzare è troppo grande per lui. Supera le sue forze e le possibilità di realizzazione di una vita.
Lo scarto fra la sua realtà e i suoi ideali è troppo grande. […] L’uomo ha insieme la percezione confusa di quella realtà negativa che è il “peccato originale” e di quell’altra positiva che è l’infinita apertura dell’uomo. Una difficoltà congenita a seguire le aspirazioni della ragione e gli ideali eccessivi che la ragione riesce a concepire. E questo viene confermato dalla Rivelazione che ci parla a più riprese da una parte della straordinaria gravità del peccato e della insanabilità della situazione umana e dall’altra della soprannaturalità del fine a cui l’uomo è chiamato.
La soluzione reincarnazionista sembra apparentemente risolvere con facilità il problema. In realtà lo rimanda solo. E’ l’illusione di risolvere quantitativamente un problema che è nella sua essenza qualitativo. Non è moltiplicando le vite che si scala l’infinito. Il problema fondamentale non è allora la costruzione, ma chi la compie (o con chi la si compie). E’ la decisione di affidarsi, di accompagnarsi al costruttore. “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 127 [126], 1).
La costruzione potrà poi anche essere lunga e laboriosa e articolata, quando però è prima fondata sul consenso a Dio e sulla cooperazione alla sua grazia. Qui vi è un certo punto di convergenza con la visione reincarnazionista. Nel senso di un itinerario che, se si incomincia qui, non si compie però sempre qui. Questo è il senso della dottrina del purgatorio. Un itinerario per giungere a Dio di cui però Dio è l’agente principale. Dove non c’è più spazio per la scelta, ma solo per la continuazione del processo di purificazione ed elevazione che essa ha avviato.
Non si può cioè più meritare oltre la vita presente: “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Mt 5, 25-26). “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2 Cor 6, 2). “Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore” (Fil 2, 12).
La scelta, la drammaticità della scelta, la sua unicità, è quella per es. che Kirkegaard ha difeso così bene contro il tentativo hegeliano di dissolvere il dramma dell’esistenza umana in una vicenda impersonale in cui il singolo è inghiottito. Qui è vero che la vita si gioca in un drammatico aut-aut e non in un et-et destinato ad annacquarsi in una sintesi astratta.
La Chiesa ha respinto anche la proposta di un soluzione finale a tutti i costi positiva per tutti. Questa risolverebbe e annullerebbe la drammaticità della decisione, non solo: annullerebbe di fatto la libertà, perché il fine risulterebbe in definitiva precostituito. Il travaglio lungo, lunghissimo, di tempi, di ere o di cicli che può precedere l’inevitabile esito, non è in grado di salvaguardare la verità e la serietà della scelta. Anche qui un problema qualitativo non è risolto quantitativamente.
La verità della scelta e la sua libertà è salvata solo dalla reale possibilità del rifiuto. […] Tutta la vita è in fondo una scelta. Un complesso di scelte solo in apparenza, in realtà una scelta. Una scelta che si snoda in una storia, in una vicenda, fatta di alti e di bassi e di ripensamenti. Ma è la nostra unica scelta personale che si fa – umanamente – così. Pensare di risolverla rimandando è una illusione. E’ già anch’essa una scelta. “Ora è il momento favorevole” (2 Cor 6, 2).
Il successo della teoria della reincarnazione si spiega così anche per il fatto che incontra una disposizione previa, un humus favorevole, che è quello della fuga dalla responsabilità di essere persona. Dal concreto riconoscimento della persona e della sua dignità che è anche responsabilità. La reale possibilità dell’inferno è la garanzia negativa della realtà di questa dignità. La dignità di chi trova affidato alla propria libertà il suo destino. E non un destino da poco. “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2, 9)»[36].
Bibliografia
Adler, Gerhard, Wiedergeboren nach dem Tode? Die Idee der Reinkarnation, Verlag Josef Knecht, Frankfurt a. M. 1977.
-, Auferstehung des Fleisches oder Reinkarnation?, in: Vobiscum 4 (6, 2002), pp. 15-24.
NOTE
[1] Cfr. M. Introvigne, Reincarnazione e nuove religioni, in: Idem (a c. di), pp. 15-19 (15-57); Massimo Introvigne – Ernesto Zucchini, I primi dati di un’indagine sulla reincarnazione fra gli alunni delle scuole medie superiori di due diocesi italiane, Ibid. pp. 91-93; Massimo Introvigne – Pierluigi Zoccatelli – Nelly Ippolito Macrina – Verònica Roldán, Enciclopedia delle Religioni in Italia, Elledici, Leumann (TO) 2001.