Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori,
Anno VI, nuova serie, n.5, 22 giugno 2014
Un’ampia panoramica delle dottrine filosofiche relativistiche, dalle origini greche fino all’attuale “dittatura del relativismo”, denunciata dal pontefice, ora emerito, Benedetto XVI
di Cosimo Calasse
1. Introduzione
Papa Francesco, quando ancora non erano passati dieci giorni dalla sua elevazione al soglio pontificio, quasi a voler esprimere una continuità essenziale, seppur con stile differente, rispetto al magistero di Benedetto XVI (2005-2013), in un discorso tenuto al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, mentre spiegava perché aveva scelto quel nome, richiamandosi, ovviamente, alla cura della povertà materiale, tipica dei francescani, chiosò ulteriormente: «Ma c’è anche un’altra povertà! E la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio Predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI, chiama la “dittatura del relativismo”, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini. E così giungo ad una seconda ragione del mio nome. Francesco d’Assisi ci dice: lavorate per edificare la pace! Ma non vi è vera pace senza verità! Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso, se ciascuno può rivendicare sempre e solo il proprio diritto, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su questa terra» (1).
Da subito, dunque, papa Francesco ha messo a fuoco il problema principale del nostro tempo: il relativismo.
Cercherò di seguito di capire qual è la natura del relativismo — e anche del suo opposto, cioè la verità logica — e quale è il suo itinerario storico, dall’antica Grecia fino ai nostri giorni. Il motivo è molto semplice: il relativismo oggi domina la cultura dì tutto l’Occidente. È la cornice all’interno della quale si inscrivono le culture politiche e, purtroppo, anche quella, spesso inconsapevolmente, del proverbiale vicino di casa.
Anzi, come ha notato lo psichiatra “laico” Giovanni Jervis (1933-2009), la cultura relativistica ha permeato proprio l’uomo comune:«II relativismo— egli scrive — è dominante nella cultura secondaria, non caratterizzata dalla produzione di idee ma dal loro consumo. Una cultura, dunque, disposta a interessarsi con entusiasmo alle nuove vedute ma non altrettanto in grado di esercitare uno sguardo critico su di esse […]. In sintesi, l’orientamentorelativistico sembra aver ottenuto il suo più importante successo […] non già in ambito specialistico ma nella grande massa della popolazione occidentale di media istruzione»(2).
Naturalmente, evidenzierò anche che il relativismo è una posizione insostenibile in sede teoretica, perché auto-contraddittoria, nonché che esso ricalca un atteggiamento tipico della modernità, consistente nel far prevalere la nostra volontà sulla natura delle cose. I filosofi contemporanei spesso non si avvedono di essere niente affatto originali, ma anzi influenzati, oltre che dagli antichi greci, da pensatori più vicini a noi, come Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) e Martin Heidegger (1889-1976), i quali, partendo da un metodo relativistico, hanno “costruito”, in sede filosofica, il nichilismo teoretico, cioè la critica e la distruzione di tutti i valori, cominciando, ovviamente, da quello basilare: la verità. Non trascurerò neppure l’apporto dato, soprattutto in Italia, da Gianni Vattimo, cui risale la ormai celebre espressione “pensiero debole”.
2. Che cos’è il relativismo?
A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca: il relativismo contemporaneo, infatti, è un insieme di atteggiamenti, ma non coincide con nessuno di essi. Affonda, è vero, le sue radici nell’alveo dell’antico scetticismo greco; è stato forgiato da Nietzsche e da Heidegger, è parte integrante di varie teorie, dal post-modernismo di Jean-Francois Lyotard( 1924-1998) alla forma filosofica e letteraria del decostruzionismo di Jacques Derrida (1930-2004), senza dimenticare Richard Rorty (1931-2007).
Tuttavia, è molto di più di tutte queste cose messe insieme: è un atteggiamento del nostro pensiero, è un’ideologia omnipervasiva, che nega all’uomo la possibilità di conoscere il reale. Afferma, che tutto quello che pensiamo e diciamo è soggettivo, non essendoci alcun modo di appurare la verità in sé. Conseguenza immediata di questa dottrina è l’inesistenza di categorie fondamentali valide per tutti, in ogni tempo e luogo, quali “bene/male”, “giusto/ingiusto”, con evidenti e immediate ripercussioni negative enormi sul corpo sociale.
Rovesciando i principi del pensiero classico e portando all’estremo grado le istanze della modernità, il relativismo sostiene che non è l’uomo a doversi adattare al reale, ma viceversa è il reale a essere forgiato dal soggetto. Le cose, la natura, tutto, deve conformarsi al volere individuale. Nulla può sfuggire al dominio del soggetto. Pur nei mille rivoli del suo fluire nella storia, il relativismo ha sempre mantenuto una certa compattezza e coerenza interne nel suo modo di accostare il mondo.
Oggi esercita il suo influsso in ogni ambito del vivere comune e tenta, attraverso i mass media, di inserirsi anche fra le mura domestiche. La sua pervasività è tale, che l’allora cardinale Joseph Ratzinger nell’omelia della messa prò eligendo pontifice, celebrata dopo la morte di sanGiovanni Paolo II (1978-2005), riferendosi a esso, così ha descritto la sua presenza nel mondo contemporaneo:«Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero […]. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14).Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (3).
Nessuna legge può ostacolare il desiderio, qualunque esso sia: non essendovi più un insieme di valori condivisi e immutabili, ogni azione è moralmente accettabile, perché il giudizio dipende dal punto di vista dei singoli.
Tuttavia, nihil sub sole novi: rileggendo vecchi numeri de La Civiltà Cattolica, mi sono imbattuto in un articolo davvero sorprendente, che risale al giugno del 1907. Al di là dalla prosa un po’ “polverosa” vi si riscontra un contenuto attualissimo, ai limiti della cronaca. L’autore parla del rapporto fra le costituzioni degli Stati moderni e la legge naturale, da esse non più considerata vincolante. «Si fanno — vi si legge — le leggi conforme porta l’interesse di un partito, come si fanno gli abiti a seconda delle stagioni e della moda, sieno oneste o disoneste: e poi ti trombano all’orecchio il ritornello de’ prepotenti “rispettate le leggi“. Questo è il sacrosanto dettame delle costituzioni moderne […]. La legge che risponde al loro gusto, al loro interesse, al loro studio, è buona; la legge che al loro intendimento si attraversa, è pessima. E così si attaglia a costoro l’invettiva dantesca contro l’antica imperatrice di molte favelle che libito fè licito in sua legge […]. L’ultimo costitutivo della legge, né tempi novi, è la votazione de più: se ci sono 50 voci contro 49, una disposizione, quale che ne sia la moralità intrinseca, diventa legge» (4). Sembra una descrizione puntuale di quanto avviene nella Repubblica Italiana, così come in gran parte dell’Occidente, soprattutto nell’Unione Europea, in questa prima metà del 2014.
3. Ragione dell’uomo e verità
Per avviare correttamente il discorso sulla verità, così come formulato da Aristotele (384/383-322 a.C.) e Tommaso d’Aquino (1225-1274), dobbiamopartire, seppur brevemente, dalla ragione dell’uomo, cercando di definirla e di analizzarne l’operare, quella stessa ragione, che, sofisticamente, permetterebbe di dire “il relativismo è vero”. In realtà, tale enunciato è un ossìmoro, come dire un cerchio-quadrato, che nel momento stesso in cui è pronunciato si autodistrugge, perché contraddice le sue stesse premesse, nella fattispecie il rifiuto, netto, della verità come possibilità del pensiero e la soggettività di qualsiasi affermazione. Acutamente osserva Roberto Rossi:«Filosoficamente parlando, la verità appartiene a quel numero esiguo di concetti che si auto dimostrano, che si fondano, cioè, sull’autoreferenza. In effetti, comunque la si giudichi, positivamente o negativamente, essa ne esce dimostrata: è infatti, in ogni caso, “vero” che la verità esista per chi lo creda, così come è ugualmente “vero” che non esista per chi non lo creda. Ciò che, appunto, resta costante, è che “sia vero”, cioè che il vero, la verità, esiste necessariamente e precede, come criterio, qualunque seguente affermazione o negazione»(5).
Il modo per illustrare il rapporto della ragione umana con la verità è stato impostato in modo puntuale dall’Aquinate:«Dicendum quod sicut veruni per prius invenitur in intellectu quam in rebus, ita edam per prius invenitur in actu intellectus componenti et dividentis» [«Come il vero si trova nell’intelletto prima che nelle cose, così anche si trova prima nell’atto dell’intelletto componente e dividente che nell’atto dell’intelletto forma la quiddità delle cose»](6).
La nozione di verità, dunque, si trova prima nelle cose che nell’intelletto e di verità si parla, primariamente, riguardo al giudizio. Come spiega Francesco Coralluzzo:«La verità logica ha un primato su tutti gli altri significati. […]Essa trova la sua definizione nella formula “adaequatio rei et intellectus“»(7)
Riassumendo e semplificando, possiamo dire che, nell’ottica aristotelico- tomistica, la ragione è la facoltà conoscitiva dell’uomo che coglie il “perché” delle cose. In latino la “ratio” non ha un unico significato: vuole dire anche “causa”, “motivo”, “scopo”. I concetti, naturalmente, non sono oggetto esclusivo della percezione sensitiva, visiva, ma li cogliamo anche con la ragione. Alla domanda “perché ami?” non si può rispondere in maniera empirica.
La ragione come facoltà del “perché”, coglie le relazioni fra le cose; l’insieme di tutte le relazioni, di tutti i nessi causali fra le cose, costituisce l’ordine del reale. L’ordine costituisce l’oggetto proprio della ragione e, anzi, questa è il riflesso dell’ordine del reale nella nostra coscienza. La ragione, quindi, esprime questo ordine formulando un giudizio, che esprime il legame di essa con la cosa. Il giudizio è manifestato tramite proposizioni o enunciati, insiemi di concetti disposti come “soggetto” e “predicato”, con il secondo termine — il verbo — che esprime l’essenza del primo: accertare se c’è un legame reale fra soggetto e predicato, significa esprimere la verità di una proposizione.
Per esempio, nella proposizione “il triangolo ha tre angoli”, il legame è evidentissimo — soggetto e predicato si rimandano palesemente l’uno all’altro — e non è richiesta altra ricerca. Ma nella proposizione “la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi”, il legame non è immediatamente evidente e dunque c’è bisogno di trovare un termine intermedio, di effettuare una dimostrazione, che evidenzi il legame fra il soggetto e il predicato: in questo caso si parla di proposizioni mediatamente evidenti o scientifiche. Infine, vi sono proposizioni non evidenti, che per essere accettate hanno bisogno di un controllo empirico o documentale per essere accolte. Nelle prime possiamo far rientrare quelle scientifìco-galileiane.
Per esempio, se “tutti i gatti hanno la coda”, non posso saperlo a priori, devo controllarli tutti; nelle seconde, quelle storiche, per esempio “Annibale attraversò le Alpi”, per accettarle gli studiosi hanno dovuto fare ricerche, trovare documenti, testimonianze che indicassero un legame, in quella proposizione, fra il soggetto e il predicato: legame che, obbligatoriamente, è esterno alla proposizione. Quindi, più in generale, si ha scienza, conoscenza, quando i legami in una proposizione sono stretti, evidenti o dimostrati: in altre parole, quando la conclusione è dedotta da principi o per semplice ispezione dei termini o, nel caso di enunciati di stampo galileiano, per controllo empirico.
Ogni volta che indica un “perché”, dunque, la nostra ragione esprime un legame. Ma, poiché abbiamo visto che esiste una gradualità del legame nella rigorosità della motivazione, ne consegue che solo nei casi prima indicati le motivazioni sono rigorose. Diversamente, se i legami negli enunciati sono via via meno affidabili perché le motivazioni poggiano sull’opinione, sulla fede umana, allora ci troviamo di fronte solo a conoscenze probabili, possibili, non vincolanti.
Una caratteristica del relativismo odierno è proprio quella diassolutizzare contenuti opinati, relativizzando, invece, quelli dimostrati, se non corrispondono ai dettami della cultura dominante.
Il relativismo esasperato dischiude a noi un orizzonte davvero fosco, già ampiamente previsto con notevole acume da padre Cornelio Fabro, C.S.S.R. (1911-1995), in una sua omelia del 1968, dove, pur senza chiamarla così, previde gli esiti drammatici di una cultura moderna sempre piùrelativistica, cioè, svincolata da un quadro assiologico di riferimento, trascendente la volontà dei singoli. Egli ebbe modo di dire fra l’altro: «Dove non c’è un principio di unione della coscienza, dove gli atti della nostra soggettività, del nostro Io psicologico, non sono congiunti a un Principio Assoluto, che è Dio, viene la disgregazione, viene l’orrore, viene l’odio dell’uomo per l’uomo e all’odio segue la morte» (8)
Secondo Francesco Coralluzzo,«i termini che vengono indicati nel giudizio si chiamano in logica “soggetto”e “predicato”. Il “predicato”, a sua volta,può essere “verbale” o “nominale”; nel primo caso abbiamo l’attribuzione al soggetto di un atto, che in ultima analisi è l’atto di essere, l’esistenza, e il giudizio si chiama appunto “esistenziale “; nel secondo caso abbiamo invece l’attribuzione al soggetto di una qualità o caratteristica, e il giudizio che ne consegue è detto “predicativo” o “attributivo”. […] i giudizi esistenziali precedono e fondano quelli attributivi, perché non si può attribuire alcuna qualità a qualcosa di cui prima non si sia affermata l’esistenza»(9).
Dover ricordare l’ovvio, cioè che le cose prima esistono e solo dopo possiamo attribuire loro una qualsiasi qualità, sembra realizzare la profezia chestertoniana, vecchia ormai oltre un secolo, secondo cui le «[…]spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate» (10). Tale profezia è tanto più sorprendente, in quanto a quei tempi non si era ancora avviato quel processo di de-ellenizzazione del pensiero contemporaneo, che avrebbe avviato al progressivo distacco dell’Occidente dalla ragione metafisica, cioè quella ragione che scopre il perché delle cose attraverso i legami.
4. Breve excursus storico sulla dottrina relativistica
II relativismo contemporaneo affonda le sue radici in un terreno lontanissimo. Lo storico della filosofia monsignor Antonio Livi ascrive il relativismo al pragmatismo, rilevandone l’indole non teoretica:«II relativismo è un atteggiamento vitale talora inevitabile, è la ricorrente tentazione di abbandonare l’impegno della ricerca, è un’ideologia(in altre epoche chiaramente marginale, ma oggi apparentemente maggioritaria) che c’è sempre .stata e forse sempre ci sarà» (11). In fondo, la cifra essenziale del relativismo è il rifiuto di un ordine e di una verità precostituiti, che include anche l’uomo, a tutto vantaggio di una libertà totale, per quest’ultimo, di “farsi da sé”. Dal punto di vista storico, lo scetticismo greco è stato un atteggiamento del pensiero di tipo volontaristico, che, cioè, non teneva conto delle cose e rifiutava sistematicamente la verità come possibilità del pensiero: accettava solamente verità parziali, transitorie e relative.
Non vi è una scuola scettica vera e propria, ma è esistito un modo di pensare che a un certo punto s’insedia persine nella scuola platonica. I suoi inizi si fanno risalire a Pirrone di Elide (360 ca.-270 a.C.), secondo il quale l’uomo non può attingere l’essere delle cose: esse rimangono indifferenziate e ugualmente indiscernibili e incerte. Pertanto, il giudizio che la nostra ragione emette su di esse non è né vero, né falso, ma indifferente. All’essere, nella visione pirroniana, si sostituisce l’apparire; il saggio ha un’unica strada da percorrere: l’ “afasia”, che non vuoi dire “non parlare”, ma non esprimere alcun giudizio riguardo alla presenza o all’assenza dell’essere nelle cose. Egli può solo sospendere il giudizio.
Il gradino successivo consiste nel giungere all'”atarassia”, cioè all’imperturbabilità morale di fronte agli accadimenti del mondo. Infine, il costante e prolungato esercizio dell’atarassia porterà all’ “apatia”, ossia all’indifferenza totale e felice di fronte allo scorrere della vita. In seguito, Sesto Empirico (160 ca.-210), che in qualche modo raccoglie il testimone di Pirrone, si distanzia dal maestro “restringendo” la sospensione del giudizio dal piano generale al piano degli oggetti esteriori e anche ponendo in modo nuovo il rapporto fra soggetto conoscente e oggetto sussistente esterno.
Il nucleo essenziale del pensiero di Sesto Empirico è far apparire«l’ugual peso dei ragionamenti» nelle diverse dispute filosofiche, sicché non si possano dare giudizi negativi o positivi al proposito, ma solo sospendere il giudizio. Così si esprime Sesto: «Principio fondamentale dello scetticismo è, sopra tutto, questo: a ogni ragione si oppone una ragione di ugual valore. Con ciò, infatti, crediamo di riuscire a non stabilire nessun dogma»(12).
Come si può vedere facilmente, in questa espressione di Sesto è condensato tutto il contenuto del relativismo odierno: non esiste nessuna verità, nessun dogma. Poiché non c’è alcun modo formale per dire se ha ragione Tizio o ha ragione Caio, tutti hanno ragione; ma se tutti hanno ragione, nessuno ha ragione. Questa visione è la base su cui sarà costruito il relativismo odierno. Se non c’è alcuna verità, rimangono solo desideri, capricci, opinioni e chi, nell’agone pubblico, grida più forte o è più furbo o ha più mezzi, vince.
Naturalmente, Sesto Empirico si sbagliava, perché, analogamente al “vietato vietare”, diviene dogma il fatto che a ogni ragione se ne oppone sempre un’altra di ugual valore. Questo dello scetticismo antico è il primo attacco strutturato, nella storia, alla capacità conoscitiva dell’uomo, essendo negata al nostro intelletto l’attitudine a formare concetti aventi similitudini o analogiecon il reale, e dunque, capaci, seppur imperfettamente, di cogliere il vero.
Più tardi, agli inizi del Rinascimento, a cavallo tra il XV e XVI secolo, la civiltà occidentale è scossa da una serie di profonde trasformazioni indotte dalle filosofie post-medievali. L’uomo di quel periodo è così descritto da Jean Jaques Chevallier (1900-1983): «Senza curarsi del regno dei cieli, non pensa che a prender possesso del regno della terra, con tutti i suoi piaceri: carnali, estetici, intellettuali» (13).
La cifra della modernità ai suoi albori è costituita dal progressivo allontanamento dall’ideale classico-cristiano, secondo cui la vera sapienza consiste nella contemplazione pura della verità. Così padre Fabro descrive l’atteggiamento del pensiero medievale, con san Tommaso in testa, in continuità con i grandi classici antichi, nei confronti della sapienza: «La saggezza tutta pratica di Socrate diviene — in Platone — una saggezza contemplativa, una theorìa che è attingimento dell’idea suprema del bene trascendente e insieme norma ultimadell’azione. Il termine theoròs, che nell’uso linguistico popolare designava lo spettatore partecipante alle feste religiose comunitarie, acquisisce da questo momento una pregnanza semantica straordinaria, denotando colui che contempla l’assoluto bene, principio e fondamento dì ogni essere e valore. […] Il sapiente dunque, secondo Aristotele, è il theoròs o il metafisico che si eleva sino alla conoscenza del principio primo; a questo livello della filosofia prima egli non è piùuno che ricerca, bensì uno spettatore che già possiede l’oggetto bramato» e poi, citando Tommaso,l’«[…] intelligenza, poi, è ciò che v’è di più divino in noi[…] il suo esercizio speculativo (che è la sapienza o filosofia prima) circa la più alta verità raggiunta e conosciuta, procura una felicità e dei piaceri meravigliosi» (14).
Di segno totalmente opposto appare il clima umanistico-rinascimentale nel quale l’individuo, slegato da una storia e da una tradizione, appare come il vertice del creato, con la conseguente preminenza della volontà sull’intelletto: è il trionfo della vita pratica sulla “bios theoretikos“, d’impronta classico-medievale. L’uomo si percepisce come attore primo nel mondo e usa, “impone”, la sua volontà per trasformarlo a suo uso e consumoe non più percontemplarlo, derivandone poi leggi e comportamenti. Non si cerca più l’essenza metafisica delle cose, ma si cerca di piegarle al proprio volere: sono, in nuce, i primi vagiti della modernità, del trionfo della tecnica sulla teoria. La natura si inizia a studiare dal punto di vista materiale, quantitativo, negandone i presupposti soprannaturali: i giudizi esistenziali, logicamente anteriori a quelli attributivi, sono contraddittoriamente ignorati.
Forse il personaggio che più di tutti incarna lo spirito di questa epoca è il pensatore francese Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592). Il suo sistema filosofico è la trasposizione più fedele, in epoca moderna, dello scetticismo di Pirrone, che coniuga perfettamente con l’istanza moderna dell’autocoscienza. Un’autocoscienza vista addirittura come sorgente di valori umani. Per comprendere quanto siamo lontani dall’ideale medievale, basta considerare quanto egli afferma nella sua opera più importante, gli Essais (15) descrivendo il suo ideale di vita:«È la vera solitudine, della quale si può godere in mezzo alle città e alle corti dei re; ma la si gode più comodamente in disparte» (16), quindi«bisogna avere moglie, figli, sostanze, e soprattutto la salute, se si può, ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilirela nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine» (17).
Traspare in questo modello di vita una sorta di ideale “ascetico”: un’ascesi però rovesciata, che non mira più a Dio e alla vita eterna come fine, ma è interamente mondanizzata e indirizzata ai piaceri terreni, anche carnali: difficile immaginare qualcosa di più lontano dall’ideale medievale. Montaigne studia intensamente l’opera di Sesto Empirico, Schizzi pirroniani(18), giungendo a una forma di scetticismo “raffinato” e moderno. Il succo degli Essais si può sintetizzare in questo modo: l’uomo non potrà mai essere certo di nessuna verità, perché né la conoscenza sensibile, né quella razionale possono condurlo a essa, pertanto il dubbio metodico sarà la sola via di saggezza da percorrere.
Monsignor Antonio Livi così desume l’idea di modernità dal pensiero di Montaigne: «La modernità consiste nella coscienza (o nella pretesa) di poter misurare tutta la sapienza umana con il metro della propria esperienza personale e della propria soggettiva certezza: è infatti l’esasperazione del bisogno di certezza soggettiva e psicologica ciò che caratterizza gran parte della filosofia moderna, nella continua dialettica tra razionalismo e scetticismo» (19).
Montaigne influenza direttamente l’opera di Rene Descartes “Cartesio” (1596-1650), che con il suo Discorso sul metodo(20) porta a maturazione — anche se, probabilmente, contro le sue stesse intenzioni — i frutti dello scetticismo, antico e moderno. Nel Discorso Cartesio si sbarazza, addirittura, di quello che la filosofia aveva sempre consideratoil primum cognitum, cioè lo stesso oggetto del pensiero, la realtà del mondo, dalla quale, poi, attraverso il principio di causalità, si passava direttamente a dedurre razionalmente l’esistenza di Dio. Cartesio, con il suo “volo dubitare de omnibus” — il cosiddetto “dubbio metodico” —, rovescia la prospettiva: considera dubitabili, incerte, le certezze stesse del senso comune — “io”, l’altro, il mondo —, ponendo, a base di tutto, il “cogito“, il pensiero. Ma un pensiero vuoto, perché si è voluto arbitrariamente affrancare dalla realtà dell’oggetto. Non si avvede che in questo modo fonda il soggettivismo, secondo cui l’individuo deduce la sua esistenza dal fatto che pensa, e non dal contrario. L’unica vera certezza, per Cartesio, è il “sé” del soggetto.
Egli tenta però, con un’acrobazia intellettuale auto-contraddittoria, di riprendere per via filosofica, ossia deduttiva, quello che invece è offerto alla coscienza per evidenza, attraverso il senso comune. È veramente difficile non considerare Cartesio, come l’iniziatore maturo della filosofia moderna.
L’altro punto nodale, sul quale non s’insisterà mai abbastanza, è l’assoluta arbitrarietà della scelta di Cartesio: nel porre il “cogito” come prìmum cognitum, non era necessitato da niente, se non dalla sua volontà personale, dunque, soggettiva. A tale proposito, nota puntualmente il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: «In Cartesio, come nota Fabro, l’atteggiamento fondamentale dello spirito, intelletto e volontà nella forma dell’autocoscienza (cogito), è bensì un‘adaequatio, ma sulla base di una volitio, di una decisione, di una scelta immotivata ed assurda: il rifiuto dell’adeguazione, al sensibile esterno, per un’arbitraria esigenza di libertà, che rifiuta che l’intelletto sia necessitato dall’evidenza dell’oggetto, per cui si pone come punto di partenza della conoscenza non l’adeguazione intenzionale alla realtà sensibile esterna, ma un supporto apriorico oggetto di coscienza, idea o impressione, senza peraltro chiedersi da dove vengono questi oggetti e perché ne poniamo l’esistenza»(21).
Il successivo gradino per arrivare al relativismo contemporaneo è rappresentato dalla filosofia kantiana. Partendo dal presupposto cartesiano che la vera conoscenza è quella di sé, Immanuel Kant (1724-1804), nella sua Crìtica della Ragion pura(22), sostiene la tesi che la verità non solo si trova partendo dal soggetto, ma si risolve interamente in esso. L’essere, perciò, si trova fuori dalla sua conoscenza immediata. Celebre resta la sua distinzione fra il “noumeno”, la cosa in sé, l’essere appunto, e il “fenomeno”, cioè ciò che ci appare. Per il filosofo tedesco, poiché noi indossiamo gli “occhiali” della nostra soggettività, non potremo mai giungere a conoscere l’essenza delle cose.
Per esempio: se indossiamo degli occhiali con delle lenti rosa, vedremo tutto colorato di rosa. Famoso è questo suo passaggio: «Le cose ci sono date come oggetto dei nostri sensi, esistono fuori di noi, ma nulla sappiamo di ciò che esse siano in sé, bensì conosciamo solo i loro fenomeni, cioè le rappresentazioni, che esse producono in noi, affettando i nostri sensi»(23). Chiaramente, il non accedere all’essere delle cose comporta l’invalidità della metafìsica e, dunque, dell’accesso a Dio mediante la conoscenza razionale: si tratta di “fenomeni”, ma che non appaiono ai nostri sensi, e li recupererà, poi, attraverso la “ragion pratica”.
Kant, tuttavia, non dimostra quello che dice, ma ne pre-suppone la dimostrazione. Egli pone una perfetta alterità fra il pensiero, o ragione, e la “cosa in sé”, l’essere. Ora, quando io affermo una “cosa in sé” — il che è richiesto dalla conoscenza —, sto affermando qualcosa che quella stessa conoscenza, prima, ha dichiarato impossibile, pertanto, mi contraddico. Il sistema kantiano è “autofagico”, si distrugge da solo e quindi deve essere rifiutato in relazione alla verità del discorso.
Dopo Kant, Georg Friedrich Wilhelm Hegel (1770-1831), il massimo esponente dell’idealismo tedesco, parte dal vicolo cieco in cui si era cacciato Kant affermando l’impossibilità per noi di conoscere qualcosa e, per superare quest’ultimo, realizza, in realtà, un sistema di pensiero ancora più “chiuso” al reale, totalmente autoreferenziale.
L’intenzione di Hegel è semplice: uscire dall’assurdità della gnoseologia kantiana, costruendo un sistema che trovi in se stesso l’inizio assoluto e all’interno del quale tutto sia conoscibile. La realtà, nella concezione hegeliana, non è altro che l’auto-dispiegamento della ragione o, meglio, dello spirito, che non ha un’essenza stabile e definita, ma è puro svolgersi, nella storia, dell’idea secondo la legge della contraddizione. Si tratta della teorizzazione perfetta della realtà come processo della dialettica razionale, motore necessitante e inarrestabile della “Storia”. Nulla esiste al di fuori di esso e nulla può essere definito, riconosciuto identitariamente, se non per un determinato periodo temporale, per essere poi “superato”, travolto, dal meccanismo dialettico, dove ciò che si pone come “tesi”, cui si oppone necessariamente una “antitesi” sarà superato dalla “sintesi” delle due, che costituirà a sua volta la “tesi” di un nuovo momento del processo dialettico.
Per Hegel sia l’arte, sia la religione sono forme sì importanti nella storia dell’uomo, ma che oggi si sono risolte, ovvero dissolte, nella ragione umana. Punto di partenza dell’intero sistema hegeliano è la cosiddetta “coscienza infelice” dell’Io” individuale, che vuole emergere fra le mille contraddizioni della storia, attraverso il processo dialettico, che si attua attraverso l’azione, la prassi. Così, mediante la prassi, realizza l’Assoluto nella Storia: non c’è una verità stabile, la verità si scopre solo vivendo, facendola.
Avvicinandoci ai nostri giorni, un “gigante” del pensiero relativistico, uno che raccoglie e “potenzia” quanto abbiamo visto sino ad ora, è Friedrich Nietzsche. Il filosofo sassone rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia della filosofia: il Novecento — e non solo —, come egli stesso ebbe a dire, è stato il “suo” secolo. Raccogliendo l’eredità dell’idealismo tedesco, centra tutto il suo pensiero sull'”io” e sulla sua “volontà”, ponendosi in radicale contrapposizione con la filosofia dell’essere, con la metafisica classica. Due sono i principi-cardine della sua filosofia a base volontaristica: il “volere/creare” e la “volontà/gioia”. Da queste coordinate, tutto si sciorina in modo concatenato: nella storia non c’è nulla, crea tutto l'”io” mediante la prassi.
Bene e Male non esistono in sé: li creiamo noi; ciò che nella storia è chiamato bene, non è altro che il contenuto generato, nel corso dei secoli, dalle masse deboli, per difendersi dai pochi potenti: quei valori, soprattutto cristiani, sono «umani, troppo umani»(24). Uno dei brani più famosi e influenti di tutta la storia della filosofia è certamente il frammento n. 125 dell’opera La gaia scienza(25), quello concernente l’assurda ipotesi del filosofo sassone sulla morte di Dio: «Gott ist tot!». Monsignor Livi ne fornisce una felice interpretazione, quando scrive: «La figura della morte di Dio viene presentata esplicitamente per la prima volta come la chiave per interpretare l’eclissi dei valori tradizionali […] il nichilismo è dunque il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali — Dio, la verità, il bene — perdono il potere sulle coscienze e periscono»(26).
Tutto va abbandonato, secondo Nietzsche: in uno dei suoi libri più noti e influenti, Così parlò Zarathitstra(27), usa l’immagine icastica dello “spezzare” le tavole della Legge, per significare l’abbandono di ogni remora morale. L’individuo, può e deve realizzarsi contro gli altri. Il contenuto del bene coincide con la “volontà di potenza” dell’individuo, che deve far emergere l’uomo dal caos della vita mettendolo in condizione di generare egli stesso nuovi valori e virtù. Le nuove categorie morali sono per Nietzsche “al di là del bene e del male”.
Si tratta dunque di un nichilismo “forte”, il quale — a differenza di quello “debole”, che si limita a costatare il declino dei valori e a crogiolarsi nel nulla — crea esso stesso, appunto, finalità nuove che aiutino l’uomo ad accettare la vita con nuovo entusiasmo, nonostante i suoi inevitabili lati oscuri. Questo nichilismo “forte” è realizzato secondo Nietzsche dall”Ubermensch, il “superuomo”, o “oltre-uomo”(28), secondo la traduzione più recente e più letterale proposta da Gianni Vattimo. L’unica cosa che conta veramente è la volontà del singolo, che è altresì l’elemento strutturante del pensiero. Ciascuno si realizza solo nel fare ed è questo il trionfo del pragmatismo più malevolo nei confronti del trascendente.
Al vertice di questo percorso storico troviamo l’altro “gigante” del pensiero relativistico, Martin Heidegger, diretto continuatore dell’opera nietzscheana, tanto da far partire la sua riflessione filosofica proprio dal “Gott ist tot!” di Nietzsche.
Heidegger ha il merito, riconosciuto da Fabro, di ripartire, rimettendola al centro della problematica filosofica, dalla questione dell’essere. Solo che l’essere heideggeriano approda, anziché alla metafisica, al porto del nulla. Nella sua opera fondamentale, Sein und Zeit, Essere e tempo(29), il filosofo tedesco conclude che l’essere va compreso all’interno dell’orizzonte temporale. L’essere di cui parla Heidegger è un semplice “Da-sein“, “esser-ci”, nel mondo, è una mera presenza, che non richiama nulla oltre (meta) se stesso. L’uomo si realizza come “essere-nel mondo”, totalmente immanente e chiuso verso il trascendente: è un uomo che deve darsi un senso da solo, progettandosi da sé. Tutto il mistero dell’uomo è racchiuso nella sua esistenza — da qui il nome di esistenzialismo per la corrente heideggeriana — senza alcun riferimento a una essenza trascendente.
Alla fine di una ricerca complessa e ricca di molti spunti interessanti dal punto di vista dell’esistenza, tuttavia Heidegger giunge a una conclusione “tragica”, emblema del Novecento: l’uomo è un “essere-per-la-morte”. Uno dei suoi allievi più celebri, il tedesco Karl Lowith (1897-1973), ha sintetizzato in modo efficace in poche righe l’esito della ricerca cui giunge il suo maestro: «Proprio Sein und Zeit […] non rivela al lettore in nessun luogo che ad Heidegger importi di raggiungere qualcosa di fermo, duraturo, indistruttibile, permanente — salvo informa di quell ‘assoluto punto fisso che è la certezza della morte e quindi della nullità»(30). Eccetto la morte e il nulla, tutto il resto è relativo, cangiante.
Considerando l’influsso che Heidegger ha avuto, per loro stessa ammissione, sui maggiori teologi del Novecento, il luterano Rudolf Bultmann (1884-1976) e il cattolico Karl Rahner (1904-1984), non deve meravigliare la precaria condizione della fede, oggi in Occidente.
5, II relativismo filosofico attuale
Dopo aver scorso le radici filosofiche del relativismo possiamo capire meglio le forme contemporanee con le quali esso innerva la nostra cultura. Una cultura che, a sua volta, permea le istituzioni, educa i nostri figli, alimenta i mass media, insomma contribuisce a creare quell’ambiente vitale nel quale viviamo e che, volenti o nolenti, ci condiziona.
Solitamente, l’uomo “medio” dei nostri anni da molto più importanza alla scienza galileiana, della quale apprezza, più immediatamente, i frutti, soprattutto, tecnologici, mentre ritiene, a torto, del tutto ininfluenti, per la sua vita quotidiana, le idee filosofiche circolanti.
Il filosofo liberale Marcello Pera mette in guardia da questo atteggiamento: «Non si pensi che le filosofie siano lussi per iniziati che si consumano nelle università. Sono potenti strumenti dì penetrazione e diffusione di idee-forza, veicoli di opinioni influenti. Così è sempre stato. E perciò non si pensi che il relativismo non faccia male a nessuno, o addirittura che sia il massimo della tolleranza teorica, dell’eleganza politica, della raffinatezza filosofica. È vero il contrario» (31).
Abbiamo già visto che il relativismo del passato non è riconducibile a una unica sfumatura: quello contemporaneo non fa eccezione. In esso possiamo riconoscere varie correnti: post-modernismo, contestualismo, decostruttivismo, ermeneuticismo, pensiero “debole” e così via. Esaminerò da vicino alcune di queste posizioni, evidenziandone limiti e contraddizioni, non prima, però, di aver enunciato una legge logica, che tutti utilizziamo, spesso in modo irriflesso e che i relativisti, consapevolmente o meno, ignorano: «ab esse ad oportere non valet consequentia»(32), ossia fra essere e dover essere non c’è obbligatorietà di implicazione formale.
Per esempio, dal fatto che io sono cattolico non discende necessariamente che anche tu sia obbligato a esserlo. Per il relativismo, invece, devo “nascondere”, obbligatoriamente, il fatto, cioè, il mio “essere” cattolico, per non prevaricare te che non lo sei. Ai relativisti basta il solo fatto di “essere” qualcosa per far scattare obbligatoriamente — ma del rutto arbitrariamente — l’implicazione formale: poiché non si può “essere” qualcosa, ecco concretizzarsi l’adorazione coeva per il nulla.
Il relativismo pensa, per esempio, che per il solo fatto di “essere” cattolici, almeno sociologicamente, nel sensocrociano, si imponga agli altri di diventarlo e ciò porta a esiti grotteschi. Perciò è vietato rappresentare pubblicamente la Natività e i suoi personaggi, con tutti i valori positivi da essi simboleggiati, mentre poi si chiede ai bambini di recitare vestiti da alberi, patate, carote. È come se, per il fatto di essere tifoso di una squadra, fan di un cantante, amante di un dato vino e così via, si deve obbligare anche l’altro a esserlo.
La legge logica, ripeto, dice che fra “è” e “deve essere”, non c’è nessuna implicazione formale.
6. II contestualismo
Come sempre, il nucleo essenziale di ogni relativismo, soprattutto dopo esser passato sotto le “forche caudine” del duo Nietzsche-Heidegger, è l’idea che i nostri valori non avendo un fondamento naturale, metafìsico, per ciò stesso non possono essere colti, neppure in linea di principio, con la ragione da ogni uomo, qualunque sia la sua cultura di provenienza. Corollario di questa idea-forza è che non vi sono criteri che ci permettono di affermare che una qualsiasi cosa è meglio di un altra. La conclusione relativistica, ovvia, è che le varie culture, con i rispettivi valori, non sono in alcun modo confrontabili: ognuna risponde a se stessa, all’interno del proprio quadro assiologico di riferimento. Quest’ultimo, a sua volta, proprio perché non presenta alcuna valenza metafisica, è relativo esclusivamente alla cultura di appartenenza.
Uno dei capostipiti di questa scuola culturale è certamente il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951). A tal proposito, la studiosa Anna Boncompagni, commentando la sua opera postuma Ricerche filosofiche (33), del 1953, ha scritto: «Ecco una delle affermazioni più significative eppure più difficili da decifrare di Wittgenstein: “Ciò che dobbiamo accettare, il dato, sono —potremmo dire —forme di vita”.[...] Nel momento in cui per spiegare il linguaggio perde importanza la prospettiva corrispondentista della verità, per la quale a ogni parola corrisponde un oggetto e la frase rispecchia una situazione del mondo reale, assume rilievo l’idea che il senso delle parole venga non tanto dagli oggetti ai quali corrispondono, quanto dall’uso che di tali parole facciamo nel parlare quotidiano. Così, il significato della mia espressione non lo andrò più a cercare nel mondo là fuori, ma ali ‘interno del contesto comunicativo nel quale essa è inserita. […] La forma di vita è plurale e trascendentale: ogni cultura è a sé stante. Ognuna ha il proprio metro di giudizio è non è possibile alcun dialogo neutrale tra di esse, perché ogni cultura è in grado di vedere le altre solo a partire dal proprio linguaggio» (34)
Similmente, oltre tre decenni prima, si era espresso, in una opera celeberrima, Il Tramon to dell’Occidente, il filosofo della storia tedesco Oswald Spengler (1880-1936), scrivendo: «A tal riguardo ogni civiltà ha una sua propria misura, la cui validità comincia e finisce con essa. Non esiste una morale umana valida per l’umanità in generale» (35).
Dunque, le varie culture sono come degli insiemi finiti, non comunicanti, per i quali non vi sono criteri interculturali per mezzo dei quali confrontarsi, giudicarsi e così via, ma solo infraculturali. Pertanto, non vi è un buono, un cattivo, un bello, un brutto, validi per tutti, ma valutazioni estetiche e morali, dunque criteri di giudizio, unicamente contestuali all’universo culturale di riferimento. Naturalmente, se si prendono sul serio le posizioni dei relativisti contestualisti, si arriva a dover ammettere tutta una serie di situazioni davvero imbarazzanti, che non solo noi occidentali, ma nessun uomo accetterebbe.
Per brevità, illustrerò una sola confutazione, ma lo farò sul piano logico, che è il più stringente. Dobbiamo ricordare un’elementare legge logica: «Se una tesi p implica una conseguenza q, e q risulta falsa, allora è falsa anche p»(36). Applichiamo questa legge, che tutti usiamo, ai casi concreti e subito apparirà evidente l’assurdità di alcune situazioni che si danno, se si rifiuta l’esistenza di una legge e di una morale universali. Il sospetto è venuto anche al già citato Jervis, che scrive: «Altre volte, invece, è più arduo porsi altrettanto serenamente in una prospettiva relativìstica. Questo vale, per esempio, quando si prenda in esame la condizione femminile. Se ci informiamo per capire in cosa consiste la mutilazione genitale, ritualmente imposta a tutte le bambine in alcune zone dell’Africa[…]qualcosa si ribella in noi.[…] Il fatto è che alcuni valori non sono neppure occidentali, sono universali. Nessun adulto, in nessuna parte del mondo, neanche la più sperduta, preferisce le carestie alla possibilità di costituire riserve di cibo, le malattie alla salute, una breve vita di stenti alla longevità, e neppure l’analfabetismo dei figli alla possibilità di mandarli a scuola. […] Alla prova della realtà, si scopre che la teorìa relativistica dell’equivalenza fra le culture non ha il minimo fondamento» (37).
Sintetizzando, dunque, se certe culture p producono certi risultati q, rifiutati anche dai più tenaci relativisti, e culture come quella giudaico-cristiana, non li producono, allora possiamo dire che questa è migliore di quella. La riprova? Il fatto, incontestabile, che tutti i flussi migratori vanno verso l’Occidente e, last bui non least, che gli stessi relativisti, pur criticando ferocemente la cultura occidentale ed esaltando le altre, rimangono, però, tenacemente in Occidente…: sembrano alcuni intellettuali filocomunisti degli anni 1960 e 1970 che esaltavano il sistema sovietico o quello cinese di Mao Zedong (1893-1976), rimanendo, però, altrettanto tenacemente attaccati alle loro comode dimore in Occidente.
7. Il decostruttivismo
Un’altra strada percorsa dal relativismo contemporaneo è quella cosiddetta del decostruttivismo, anch’essa derivante da Nietzsche e Heidegger. Cardine di questa corrente filosofica è mostrare l’intrinseca contraddittorietà dei concetti supposti universali, dunque comuni alle diverse culture. In realtà, anche questa forma di relativismo è aporetica come la precedente.
Iniziatore e massimo teorizzatore del decostruttivismo è il francese Jacques Derrida (1930-2004). Egli stesso in una intervista concessa al matematico e logico italiano Piergiorgio Odifreddi, così descrive il concetto-chiave della sua filosofìa, ossia il termine “decostruzione: «La parola deriva da un’espressione di Heidegger, “Destruktion “, da intendersi come “destrutturazione” e non come “distruzione” [cui si oppone l’] affermazione di ciò che è rimosso, più che [la] ricostruzione» (38) Secondo lo studioso francese, il reale che normalmente prendiamo per vero è solo il frutto di uno stereotipo culturale preesistente. Pertanto occorre assumere l’habitus di chi utilizza il criterio del “sospetto” quale lente attraverso cui filtrare ogni cosa, ogni enunciato. Una volta depurato l’enunciato dagli stereotipi culturali e dalle rimozioni, è possibile iniziare a de-costruire i presunti enunciati universali. Ricordiamo che “destrutturare” significa «[…] scomporre una struttura negli elementi che la costituiscono, sia alfine di smantellarla, sia per avviarne una riorganizzazione» (39).
Questa idea basilare lentamente s’instilla sempre più nel mondo contemporaneo, condizionandone i comportamenti: non c’è campo del sapere in cui non sia penetrata, dalla politica, alla teologia, dall’architettura alla sociologia, al diritto, non c’è un concetto del quale non si è avviata la de-co-struzione. Analizzerò la tecnica di de-costruzione di due concetti cruciali per l’Occidente, a ragione considerati universali, cui Derrida applica la sua“tecnica” per mostrarne, a suo dire, l’intrinseca contraddittorietà.
Il primo investe l’asse portante dei nostri Paesi, la democrazia. Derrida si chiede se dobbiamo lasciare libertà a coloro che, se tiranni, userebbero la democrazia per poi attentare alle libertà demo-cratiche e usa l’esempio dell’ascesa di Adolf Hitler (1889-1945), che conquista il potere attraverso delle libere elezioni democratiche.
L’altro è il concetto d’integrazione, che Derrida decostruisce mostrando come noi diamo ospitalità a uno straniero solo nella misura in cui cessa di essere un “lui” e diviene un “noi”; pertanto, l’ospitalità che noi pratichiamo nei confronti di un altro, è solo una forma, se vogliamo raffinata e mascherata, d’imposizione.
Derrida, commette l’errore di non fare scelte di valore; in particolare, di non scegliere valori disancorati dal Moloch del relativismo contemporaneo ovvero l’ “io” e le sue voglie. Infatti, l’apparente aporeticità segnalata da Derrida nella democrazia “funziona” solo se si considera la democrazia come un bene assoluto sganciato dalla verità, da una legge morale obiettiva valida per tutti e, dunque, riconoscibile dalla ragione umana. Chiaramente, se il principio di maggioranza può decidere tutto, inevitabilmente, si finirà nelle aporie, rischiando il peggiore dei totalitarismi.
Su queste visioni ha espresso in maniera netta le sue critiche già san Giovanni Paolo II (1920; 1978-2005) nell’enciclica Evangelium vitae, al n. 70: «Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate aggettive e vincolanti, porterebbero all’ autoritarismo e all’intolleranza. […] In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale”non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità delfini che persegue e dei mezzi di cui si serve.[…]Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindìbili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica. Alla base dì questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli “maggioranze ” di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto “legge naturale” iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse, a porre in dubbio persino iprincipi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a impuro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi» (40).
Questa enciclica risale al 1995, ma, nel frattempo, il processo di sovvertimento dell’ordine del reale è andato cosi avanti, che sembrano giunti i tempi di quel “tragico oscuramento della coscienza collettiva”, paventati da papa Giovanni Paolo II: oggi, lo “scetticismo” è giunto a porre in dubbio la legge morale stessa.
8. Ermeneuticismo e linguaggio
II linguaggio, orale e scritto, assieme alla logica e alla capacità di fare scienza in senso galileiano, per studiare gli aspetti quantitativi del creato, è ciò che maggiormente ci distingue dal resto del regno animale. Il de-costruzionismo, nella sua volontà di “rifare” il mondo, cerca continuamente di decostruire il linguaggio, perché esso conserva la nostra cultura, ne rende possibile la trasmissione, è la base della nostra comunicazione. Cambiare il linguaggio, equivale a cambiare il mondo, come più di una rivoluzione moderna c’insegna. Basti pensare all’impatto quasi “violento”, accelerato, che hanno avuto sulla nostra vita i cosiddetti social network, che hanno cambiato profondamente il nostro modo di comunicare e quello di essere presenti nel mondo: di fatto, oggi, essere assenti dal mondo dei social, equivale quasi a scomparire dal mondo tout court, nel bene e nel male.
La storia insegna che ogni ideologia, che abbia la pretesa di dominare il mondo, ha la necessità di ridurre o di annullare la memoria storica. Per esempio nella Cambogia comunista — ricorda lo storico francese Jean-Louis Margolin — gli intellettuali erano costretti a una vera e propria abiura, se volevano salvare la vita. «Gli intellettuali — scrive — andarono incontro ad un destino di volta in volta diverso. In alcuni casi furono perseguitati per il loro ruolo, ma più spesso, a quanto pare, la rinuncia a ogni pretesa di competenze specifiche e agli attributi simbolici (libri, e persino occhiali) bastò a far si che venissero lasciati stare» (41)
Certamente più “soft” è stata l’esperienza italiana, che, tuttavia, ha visto, almeno fino al 1989 ed anche oltre, una storiografia completamente egemonizzata dal marxismo, che ha lasciato intere generazioni di italiani in uno stato d’ignoranza su quanto accaduto realmente nel nostro Paese nei primi decenni del dopoguerra. Lo ricorda il giornalista e storico Sergio Romano parlando della storiografìa comunista; aveva necessità di nascondere sotto un velo di pudore la storia delle proprie lealtà sovietiche e dei propri trascorsi antidemocratici, scrivendo: «Nulla di sorprendente. Quegli storici erano comunisti, credevano nella bontà dei loro ideali, si consideravano investiti di una missione, pensavano che i loro scritti non dovessero introdurre i lettori alla comprensione del passato, ma anticipare e favorire l’avvento del futuro. Non hanno scritto storie — osserverebbe Croce — ma pseudo storie; non hanno formulato giudizi, ma pseudo giudizi»(42), autolegittimandosi come titolari di «un grado di autorità morale a cui non hanno diritto» (43).
Tale rimozione o distorsione, tale negazione della memoria non sarebbero possibili senza un uso distorto, del linguaggio. Il filosofo del linguaggio bulgaro Tzvetan Todorov, nel rilevare l’importanza della memoria per combattere le ideologie, ha scritto: «La vita ha perso contro la morte, ma lamemoria vince nella lotta contro il nulla»(44). Ogni ideologia ha bisogno di distorcere e di deviare il linguaggio per corrompere così la memoria.
Su questo tema il filosofo cattolico Emanuele Samek Lodovici (1942-1981) ha scritto: «Se il linguaggio ha, come ha, un riferimento alla realtà e se ha, come ha, un rapporto con la comunicazione della realtà, ci si potrà immediatamente rendere conto che per l’uomo per il quale ci saranno meno parole (per l’uomo al quale saranno state rapinate o corrotte le parole), per quello ci saranno meno cose. Se il linguaggio ha una funzione rivelativa del mondo (e la ha), una volta che lo si impoverisca si sarà impoverito il mondo. Corrompere il linguaggio, rendere incomprensibili i significati difficili (e la cultura in senso forte è fatta tutta di significati difficili), ridurre il numero delle parole e con ciò stesso ridurre la gamma di possibilità di comprensione della realtà, tutte queste sono azioni tipiche di un progetto culturale al vertice delle cui preoccupazioni si trovano l’improrogabilecompito di impedire il “delitto di pensiero” e la necessità di addormentare le coscienze. […] Il grande scrittore ebreo J.[saac] B.[ashevis] Singer[1904-1991] ha messo in rilievo la connessione caratteristica che passa tra la seduzione più sottile e la corruzione delle parole: “II mio potere sta nella lingua”, afferma uno dei demoni dì un suo racconto (Lo Specchio, in Gimpel l’idiota) e un altro incalza mettendo in rilievo il potere che ha la lingua di portare gli uomini a compiere atti che altrimenti non compirebbero» (45).
L’ermeneuticismo ha dato un impulso e un sostegno decisivo all’affermarsi della cultura relativistica. L’ermeneutica, o scienza della interpretazione, è il pilastro centrale di questa corrente. Nata nel corso dell’Ottocento come scienza specialistica, in origine con il solo scopo di rendere comprensibili all’uomo moderno i testi biblici — scritti nell’arco di millenni e, dunque, “oscuri” per i contemporanei — si è via via estesa a tutte le manifestazioni del linguaggio umano, andando a toccare campi anche molto lontani rispetto ai testi biblici. I suoi principi e metodi, infatti, sono stati applicati nell’ambito della saggistica, della poesia e, addirittura, del diritto, “sezionando” minuziosamente i testi giuridici. Ovviamente, le sue conclusioni, non sono e, non possono essere, di natura empirica; suo campo specifico d’azione è capire, portandola alla luce, la relazione esistente tra il testo scritto e l’ambiente vitale, nel quale il testo è stato concepito. L’ermeneutica si applica a un testo, cercando di evidenziarne la cultura ambientale di riferimento, la formazione culturale dei singoli autori, la genesi del testo, lo scopo e i destinatari, il genere letterario, giungendo così, finalmente, a una ragionata, interpretazione.
Da questo punto di vista l’ermeneutica è una scienza benemerita. I problemi sorgono, però, quando si applicano i processi ermeneutici all’ermeneutica stessa e si studia la cultura di riferimento, la Weltanschauung, la visione del mondo dalla quale è sorta l’ermeneutica. Essa sorge, con Wilhelm Dilthey (1833-1911), nell’ambito dell’idealismo tedesco, ed è governata da un principio-guida ferreo, teutonico: non ha senso interrogarci sulla storia, sul reale, su ciò che è; possiamo solo registrare le cose, analizzarle, utilizzarle, ma senza andare oltre. L’ermeneutica contemporanea va a “leggere” i testi mediante questa “lente”, viziata ab initìo dalla pre-comprensione filosofica, negativamente pregiudizievole verso la verità e, quindi, giungerà sempre a conclusioni monche, parziali e, in definitiva, ideologiche, perché, per definizione, non si lascerà mai interrogare dai fatti, ma, come insegna Nietzsche, unicamente dalle loro interpretazioni (46).
L’ermeneutica va criticata solo per i suoi errori, come sostiene il giovane filosofo Giacomo Samek Lodovici, riguardo a uno scritto del padre, Emanuele: «In sintonia con l’ermeneutica contemporanea, ma evitandone le derive nichilistiche, per Samek da un lato l’esistenza umana e la conoscenza sono storicamente condizionate dal linguaggio: chi non ha le parole non ha le cose che da queste parole vengono designate; dall’altro, con il linguaggio l’uomo può esprimere la verità e trascendere i condizionamenti storico-linguistici» (47).
Le “derive” delle quali parla Giacomo Samek trovano alimento nell’alveo filosofico del relativismo, che ha preteso estendere l’area di studio e interpretazione dell’ermeneutica non solo ai testi antichi, ma a tutti gli eventi storici, sociali, scientifici, in altre parole, all’intero ambito della conoscenza. Senza andare all’Ottocento, dove peraltro già vi erano i primi segnali, queste “derive” ermeneutiche sono già comprese, in nuce, nell’estremismo di Heidegger e, soprattutto, nelle tesi dell’ermeneuta tedesco Hans Georg Gadamer (1900-2002), che assegnano consistenza ontologica al linguaggio.
I due pensatori preparano il terreno alla cosiddetta “svolta linguistica”: il primo affermando che “il linguaggio è la casa dell’essere” e che, dunque, soltanto attraverso il linguaggio, l’uomo accede all’essere; il secondo, similmente, che “l’essere si manifesta nel linguaggio”. Solitamente, l’espressione “svolta linguistica” è attribuita al pragmatista americano Richard Rorty; in realtà, quest’ultimo la faceva risalire al filosofo austriaco Gustav Bergmann (1906-1987).
In sintesi, ecco il concetto di “svolta o filosofia linguistica”, nei due filosofi. Per Rorty, «con “filosofia linguistica” intendo la concezione secondo cui i problemi filosofici sono problemi che possono essere risolti (o dissolti) o riformando il linguaggio, o ampliando la conoscenza del linguaggio che usiamo» (48). Per comprendere la reale portata degli effetti di questa “svolta” nei confronti dell’indebolimento della verità e del corrispondente affermarsi risoluto del relativismo, riporto quanto scrive verso la fine della sua vita — dunque, connotandolo, quasi, come una sorta di “lascito testamentario” — Wittgenstein: «dietro le parole non c’è niente che possa chiamarsi significato» (49). Lo stesso concetto esprime la celebre espressione di Derrida: «nulla esiste fuori del testo» (50).
Naturalmente, l’applicazione forzata del metodo ermeneutico oltre ai suoi ambiti specifici di validità ha generato conseguenze disastrose nell’in-terpretazione dei fatti: siano essi storici, scientifici e, ovviamente, biblici, a tutto “vantaggio”di una relativizzazione delle verità che si possono cogliere in questi campi. La trasformazione dell’ermeneutica in un “-ismo”, infatti, come in tutte le ideologie, ha determinato la prevalenza di una “pars prò toto“, una parte per il tutto, nel caso specifico, la prevalenza della parte soggettiva, facente capo al lettore, sulla parte oggettiva, corrispondente al testo. Questo sbilanciamento si rileva di frequente nelle nostre chiese, dove fra “risonanze personali”, “libertà di adeguare il testo alla mia vita” e cose simili, si incorre talora in una vera e propria distorsione del testo sacro.
Ugualmente, questo rischio di distorsione si ha nel lavoro dello storico quando questi proietta le sue categorie culturali moderne nel valutare il passato. Il già citato Jervis coglie molto bene la possibilità di incorrere in questo errore fatale. Riferendosi all’enfasi posta dall’ermeneuticismo sull’interpretazione soggettiva dei testi, acutamente scrive: «Tutto questo resta vero, anche se emerge, prepotentemente, un rischio: ed è quello di trasformare il testo in un pretesto. […]se tutti i mezzi espressivi diventano ogni volta il pretesto per le nostre fantasie e quindi per esercitare la nostra onnipotenza mentale, non solo il concetto di realtà perde di senso ma anche il concetto stesso di interpretazione ne viene svuotato. […] Né vale l’illusione che un accordo interpersonale costituisca, di per sé, fattore di verifica. […] il fatto che esista un consenso non ci fornisce alcuna prova che, quell’interprefazione sia sensata, e neppure — purtroppo — che sia minimamente intelligente» (51). Successivamente, riferendosi all’applicazione del metodo ai fatti storici e sociali afferma che «gli eventi sociali e storici possono essere interpretati in vari modi, però una loro corretta lettura dovrebbe tenere conto soprattutto di dati aggettivi: per esempio, per i piccoli eventi sociali, di registrazioni e di datisperimentali; per quelli storici di dati d’archivio»(52). E, per quelli scientifici, ovviamente, bisogna tener conto, secondo i fenomeni, e dell’osservazione e della riproducibilità dei dati quantitativi.
Il relativismo, seguendo la svolta linguistica, è penetrato in modo massiccio anche all’interno della teologia e dell’esegesi biblica, facendo sbiadire, anche in questi campi, la nozione di verità. Nel 2003, l’allora card. Ratzinger sollevava il problema, citando diversi esegeti e teologi che, in nome di una presunta infallibilità della moderna scienza storico-critica, avevano abbandonato definitivamente la causa della verità, anche in un campo, come quello religioso, dove essa è tutto: sapere che il Verbo si è veramente incarnato ed è, realmente, morto e risorto, non è la stessa cosa che sapere che ciò è avvenuto solo all’interno della coscienza dei suoi discepoli.
Scrive, dunque, Ratzinger: «L’esegeta Marius Reìser ha recentemente rimandato all’espressione di Umberto Eco nel suo romanzo di successo Il nome della rosa, in cui dice: “L’unica verità significa: liberarsi dalla morbosa passione per la verità “. Il fondamento essenziale di questo inequivocabile rifiuto della verità consiste in quello che oggi si chiama “svolta linguistica”: al di là del linguaggio e delle sue immagini non si può, secondo lui, ritornare; la ragione è condizionata linguisticamente e legata da vincoli linguistici. […] L’importante esegetaprotestante U.[lrich] Luz constata che la critica storica nell’epoca moderna ha abdicato di fronte al problema della verità. Egli si crede obbligato ad accogliere questa capitolazione e ad ammettere che oggi non si può più trovare la verità al di là dei testi, ma solo proposte ed offerte di veritàconcorrenti, che si devono presentare nel discorso pubblico sulla piazza del mercato delle Weltanschauungen»(53).
Sempre il card. Ratzinger ha descritto felicemente il vicolo cieco nel quale, volutamente, si è rinserrata l’ermeneutica contemporanea, nella sua volontaria, e non giustificata teoreticamente, chiusura alla verità: «L’uomo non è imprigionato nel salotto a specchi delle interpretazioni; egli può e deve cercare la breccia per giungere al reale, che sta dietro le parole e che gli si mostra nelle e attraverso le parole» (54)
Chiudo queste riflessioni sul rapporto fra linguaggio analitico, ermeneutica e verità, con uno degli scritti più alti, per chiarezza d’esposizione, lucidità e forza penetrativa del pensiero, di un grande pontefice, san Giovanni Paolo II, che già nel 1998, nell’enciclica Fides et ratio fa giustizia di questi presupposti errati, scrivendo: «L’importanza dell’istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. […] Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l’essenza. […] L’interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un’affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l’espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi» (55)
9, Post-moderno e pensiero “debole”: Vattimo
È impensabile in questa sede voler trattare diffusamente del “pensiero debole”, una forma particolare del post-moderno, a sua volta, una delle forme di relativismo. Mi limiterò quindi a evidenziare alcuni nodi essenziali necessari per orientarsi in questa vera e propria galassia del pensiero.
Lo studioso Antoine Compagnon a proposito di Vattimo ha scritto: «Fra tutti gli interpreti del postmoderno Vattimo è quello che sembra dargli un più alto valore filosofico»(56). Tale affermazione trova conferma in quello che può essere considerato come il manifesto programmatico del pensiero del filosofo torinese, il quale scrive: «Quanto a me e al pensiero debole, dirò molto francamente che questa mi sembra la sola filosofia cristiana praticabile dopo la dissoluzione della metafisica. Il pensiero debole è […] una forte teoria dell’indebolimento come destino dell’essere […] ciò che sappiamo del mondo è mediato dal sistema dell’informazione — non miti, non favole, ma certo non specchio di una possibile oggettività. E il mondo dei valori è anch’esso tutto permeato di storicità. […] La mia ipotesi è che tutto questo cammino del nichilismo, che rompe la schiavitù dell’uomo verso l’oggettività, sia il cammino stesso della storia della salvezza»(57).
In queste poche righe appare sovvertito tutto l’ordine filosofico costituitosi in secoli; senza giustificazione alcuna è proclamata la dissoluzione della metafisica, impedendo così alla ragione di accedere alla verità delle cose. Tuttavia, poiché Vattimo non è, certamente, uno sprovveduto e prevenendo facili obiezioni, in quella che forse è la sua opera teoretica di maggior spessore riconosce che il “pensiero debole” non è più di una metafora e non aspira a divenire una nuova forma di filosofia. Anzi rileva che: «è un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio»(58). Capisce che in sede teoretica non si può negare la verità, tuttavia, dichiarando dissolta la metafisica — sulla scorta di Kant —, ne impedisce l’accesso alla ragione umana: ecco perché lo chiama pensiero “debole”. La verità non c’è o, se c’è, è inattingibile dal pensiero umano e, dunque, ai fini pratici, è come se non ci fosse. Nega così ogni verità assoluta, non tanto perché non c’è il reale, ma perché questo reale è chiuso a noi e si disperde nella ridda delle mille interpretazioni. Vattimo, che in Italia è uno dei migliori studiosi di Nietzsche e di Heidegger, ripete spesso anch’egli, con il primo, che «non ci sono fatti, solo interpretazioni», tuttavia “decostruisce”, coerentemente, subito dopo anche questo enunciato, dichiarandolo come “metafisicamente non oggettivo”. Insomma, per Vattimo si rimane chiusi, prigionieri, del circolo ermeneutico.
Se vogliamo cogliere, in sintesi, il nocciolo del pensiero di Vattimo e, dunque, del relativismo contemporaneo, dobbiamo considerare questo suo commento a Heidegger: «L’essere non è altro che il logos (pensiero) interpretato come dialogo, il Gesprach [la conversazione] inteso come discussione che si svolge effettivamente tra le persone. La realtà […] ha ancora un significato in Heidegger, ma è solo il risultato del dialogo storico tra le persone, non siamo d’accordo perché abbiamo trovato l’essenza della realtà, ma diciamo che abbiamo trovato l’essenza della realtà quando siamo d’accordo» (59). L’essere si risolve quindi nel linguaggio e, in particolare, nel linguaggio che storicamente s’impone in una determinata epoca, perché l’essere «[…] è evento, qualcosa che accade»(60).
Almeno sul piano teoretico, diversamente da quanto accade sul piano psicologico, è facile controbattere a queste tesi. La maggior parte delle persone, infatti, seppur in maniera irriflessa, si trova, non a caso, in questa epoca “debolista”, d’accordo con Vattimo. Questo accade, perché accettare l’esistenza della verità, che è indipendente dal mio volere, è un atto intrinsecamente difficile per l’uomo post peccatum: in qualche modo appare come un arrendersi di fronte all’Altro, accettando in maniera inequivocabile una dipendenza, una insufficienza. Chiaramente, il fomite — così, una volta, la teologia chiamava la nostra tendenza al peccato, presente anche dopo il battesimo — dell’orgoglio luciferino, che segna ognuno per tutta la vita, ci porta verso questo rifiuto. Per “controllarlo”, senza, tuttavia, riuscire mai a eliminarlo, occorrono tanta umiltà e tanto uso di retta ragione.
Teoreticamente, invece, è molto più facile dimostrare a Vattimo e ai “debolisti” come lui, che la metafisica non si è dissolta e che la nostra ragione può attingere il vero. All’inizio abbiamo già visto come sia impossibile negare il vero. Sul resto, Laura Bocccnti scrive: «II secondo luogo comune riguarda la pretesa dissoluzione della metafisica. La metafisica non s’identifica con un sistema filosofico particolare; essa si costituisce quando la ragione, muovendo dall’esperienza dei sensi, perviene al fondamento invisibile dell’esperienza sensibile. La scoperta della metafisica è esposta da Platone [428/427-348/347 a.C.] nel Fedone [61]» (62).
Il grande filosofo greco spiega che la vera ragione, per la quale Socrate (470/469-399 a.C.) va in prigione, non è di natura meccanica — cioè muovendo gambe, muscoli e articolazioni —, come vorrebbero i filosofi naturalisti: quello è il “come” ci va. Platone scopre, invece, la vera causa della condanna di Socrate, cioè il suo “perché”, che è il nucleo essenziale della filosofia, poiché esprime il legame tra soggetto e predicato. «La causa vera e reale è la volontà di bene di Socrate; tale causa non può essere toccata, vista, odorata, tuttavia esiste, il pensiero la può cogliere come motivo reale della prigionia. […] La capacità metafisica consiste nella capacità costitutiva (cioè originaria, trovata insieme alla natura) della ragione di passare dalla dimensione visibile a quella invisibile, dal piano sensibile a quello trascendente» (63).
Questa possibilità di attingere il trascendente, fondando un “pensiero forte”, consente fra l’altro di sottrarre la legislazione positiva delle varie società umane all’arbitrio di un pensiero “debole”, sempre cangiante, pronto a negoziare anche il contenuto di valori, che per loro natura, sono, invece, indisponibili alla volontà dell’uomo: il Vero, il Bene e il Giusto. Il pensiero debole, rifiutando la legge naturale, ci espone tutti all’avvento del peggior totalitarismo.
Se Vattimo avesse ragione nel sostenere che «il valore universale di un’affermazione si costruisce costruendo il consenso nel dialogo, non pretendendo di avere il diritto al consenso perché abbiamo la verità assoluta»(64), allora tutto sarebbe possibile. Senza una legge naturale, trascendente e immutabile, chi o che cosa e in nome di che cosa, potrebbe impedire a parlamenti legittimamente eletti, che avessero costruito legalmente un consenso, tramite il dialogo, senza alcuna pretesa di verità assoluta, di legiferare circa l’uccisione immediata e senza appello di tutte le opposizioni? O riguardo a qualsiasi bruttura vi venga in mente, perché, tanto, in epoca relativistica non potreste, per coerenza, neanche chiamarla così? Nulla: e, infatti, nella storia del mondo è già successo più volte e potrebbe ripetersi di nuovo. Da qui la necessità di disancorare il diritto dalla volontà umana: altrimenti, attraverso corrette procedure formali, si può legiferare su tutto con qualsiasi contenuto, anche i più abietti.
Già nel 1998, il cardinale segretario di Stato di san Giovanni Paolo II, Angelo Sodano, ha ricordato ai politici e ai legislatori d’Europa, di tener conto nella loro azione politica e legislativa della legge naturale, perché senza di essa tutto è possibile. Egli ha detto: «I timori di autori molto profondi non sono senza ragione. La vita sociale con il suo apparato giuridico esige un fondamento ultimo. Se non esiste altra legge oltre la legge civile, dobbiamo ammettere allora che qualsiasi valore, perfino quelli per i quali gli uomini hanno lottato e considerato passi avanti cruciali nella lunga marcia verso la libertà, possano essere cancellati da una semplice maggioranza di voti. Quelli che criticano la legge naturale non debbono chiudere gli occhi di fronte a questa possibilità, e quando promuovono leggi — in contrasto con il bene comune nelle sue esigenze fondamentali — debbono tenere conto di tutte le conseguenze delle proprie, azioni perché possono sospingere la società verso una direzione pericolosa. E anche quando si volessero limitare gli effetti di una legge, bisognerebbe ricordare ciò che diceva Chesterton: “La legge obbedirà alla propria natura e non alla volontà dei legislatori, e ci restituirà inevitabilmente i frutti che abbiamo seminato in essa”» (65).
Che fare, dunque, in questa situazione? Come far valere, almeno, il diritto di parola, senza rischiare di essere denunciati per reati d’opinione? E il politico cattolico, che vuoi liberamente concorrere alla costruzione del bene comune, come si deve comportare?
A questi quesiti ha dato una formidabile risposta, in campo bioetico, qualche anno fa, il famoso genetista francese Jéròme Lejeune (1926-1994): «Ci vorranno delle leggi che dicano chiaramente che non si ha il diritto di approfittare, prendere, sfruttare, fare del bricolage col patrimonio ereditario dell’umanità. Saranno nominati comitati etici che in realtà sono fatti apposta per cambiare la morale. E ai cattolici sarà chiesto di non imporre la propria morale agli altri. Ebbene, ogni volta che sarà detto o rinfacciato questo, ricordatevi che è falso, che è una propaganda antidemocratica. In una democrazia moderna, che non fa nessun riferimento a una morale superiore, ma nella quale la morale pubblica viene definita dalle leggi, per ogni cittadino cercare di far passare nelle leggi del proprio paese ciò che egli considera come “la morale “, non è soltanto un diritto, ma un dovere democratico. Ilsettimo dono dello spirito si riassume in un’unica formula, in una frase latina, e cercate di ricordarvene sempre, cercate di metterla in pratica, perché è la vera libertà: “Timete Dominum et nihil aliud“; temete Dio e null’altro» (66).
10. Conclusioni
Così come ho iniziato, desidero terminare, lasciando la parola al papa. Francesco, in una delle consuete celebrazioni mattutine presso la casa di Santa Marta in Vaticano, ha fatto una diagnosi chiara, netta e inequivocabile del nostro tempo, denunciandone tutti i pericoli, ma lasciando aperta, com’è nel suo stile, la porta alla speranza cristiana, quella virtù che salva e che solo Dio può dare. Egli ha detto: «C’è un’insidia che percorre il mondo. È quella della “globalizzazione dell’uniformità egemonica “caratterizzata dal “pensiero unico”, attraverso la quale, in nome di un “progressismo adolescenziale”, non si esita a rinnegare le proprie tradizioni e la propria identità. Quello che ci deve consolare è che però davanti a, che ci aspetta, ci ama e ci protegge. Nelle sue mani andremo sicuri su ogni cammino»(61).
Nonostante — mi permetto di aggiungere — il relativismo, il pensiero “debole” e tanti falsi maestri.
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1) FRANCESCO, Discorso nel corso dell’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, dei 22 marzo 2013, inL’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-3-2013.
2) GIOVANNI JERVIS,Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 53-54.
3) CARD. JOSEPH RATZINGER,Omelia nel corso della messa prò-eligendo Romano Pontifice, del 18 aprile 2005, inL’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-4-2005
4) [ANONIMO,] Le eresie e la legislazione de’ primi imperatori cristiani, in La Civiltà Cattolica, anno LVIII, 1907, vol. 2, fasc. 1.968, 6 giugno 1907, pp. 660-672 (p. 660).
5) ROBERTO ROSSI, Le ideologie del Novecento, 2 voll., Casa Editrice Leonardo da Vinci, Santa Marinella (Roma) 2006, vol. I, Il pensiero della verità, pp. 25-26.
6) TOMMASO D’AQUINO, Le questioni disputate, trad. it., testo latino a fronte, 11 voll., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, vol. I, La verità (Questioni 1-9). La verità, la scienza di Dio, le idee divine, il Verbo, la Provvidenza, la predestinazione, il libro della vita, la conoscenza angelica, la comunicazione della scienza angelica, coordinamento e revisione generale di Roberto Coggi, O.R, q. 1, La verità, ad 3.
7) FRANCESCO CORALLUZZO, Oltre il relativismo, Casa Editrice Leonardo da Vìnci, Santa Marinella (Roma) 2013, p. 18.
8) CORNELIO FABRO, Omelia del 14 settembre 1968, registrazione audio scaricabile alla pagina <http://www.corneliofabro.org/omelie.asp>, consultata il 28-2-2014, sezione Altre Celebrazioni/Festa dell’Esaltazione della Santa Croce.
9) F. CORAI.LUZZO, Op. Cit., p. 19.
10) GILBERT KEITH CHESTERTON, Eretici, trad. it., Lindau, Torino 2010, pp. 242-243.
11)Cit. in F. CORALLUZZO, op. cit., p. 9.
12)Cit. ibìd.,p, 29.
13) JEAN JACQUES CHEVALLIER,Le grandi opere del pensiero politico, trad. it., il Mulino, Bologna 1968, p. 16.
14) C. FABRO,L’emergenza dell’atto di essere in San Tommaso e la rottura del formalismo scolastico, in Il concetto dì “sapientia” in san Bonaventura e san Tommaso. Atti della 1″Settimana Residenziale di Studi Medievali, Carini (Palermo), 18/24-10-1981, a cura di Alessandro Musco, Enchiridion, Palermo1983, pp. 16-17.
15)Cfr. MICHEL DE MONTAIGNE, Saggi, trad. it, testo francese e note a fronte a cura di André Tournon, Bompiani, Milano 2012.
16)Ibid. libro l ,cap. 38, p. 431.
17) Ibid., p. 433.
18)Cfr. SESTO EMPIRICO, Schizzipirroniani, trad. it., a cura di Antonio Russo, 3a ed., Laterza, Roma-Bari 2009.
19)A. LIVI, La Filosofia e la sua storia, 3 voll, in 4 tomi, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1997, voi. II, p. 60.
20)Cfr. RENE DESCARTES, Discorso sul metodo, trad. it., con testo francese a fronte, a cura di Emilio Mazza, introduzione di Carlo Borghero, Einaudi, Torino 2014.
21) Cit. in F. CORALLUZZO, op. cit., p. 14.
22)Cfr. IMMANUEL KANT,Crìtica detta ragion pura, trad. it., a cura di Pietro Chiodi (1915-1970), Utet. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2013.
23) IDEM, Prolegomeni a ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, trad. it, introduzione di Hansmichael Hohenegger, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 81.
24)Cfr. FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, trad. it., introduzione di Giovanni Maria Bertin (1912-2002), Newton Compton, Roma 2010.
25) Cfr. IDEM, La gaia scienza, trad. it., introduzione di Fabrizio Desideri, Newton Compton, Roma 2008, aforisma n. 125.
26) A. LIVI, La Filosofia e la sua storia, cit, vol. III, tomo 1, pp. 323-324.
27) Cfr. F. W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. it., 5a ed., Adelphi, Milano 2013.
28) Cfr. GIANNI VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 106.
29)Cfr.MARTIN HEIDEGGER,Essere e tempo, trad. it., Mondadori, Milano 2011.
30)Cit. in R. Rossi, op. cit., pp. 25-26.
31) MARCELLO PERA e J. RATZÌNGER, Senza Radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004, p.33.
32)Cit. ibid., p. 12.
33) Cfr. LUDWIG WITTGKNSTKIN, Ricerche filosofiche, trad. it., a cura di Mario Trincherò, Einaudi, Torino 2009.
34) Cit. in ANNA BONCOMPAGNI, La forma di vita come sfondo. Alle radici di un dialogo possibile tra le culture: certezza, farme di vita, multiculturalismo a partire da Wittgenstein, in Diogene. Filosofare oggi, anno VI, n. 22, Firenze marzo-maggio 2011, pp. 72-74 (pp. 71-72).
35) OSWALD SPENGLER, Il tramontao dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, trad. it. di Julius Evola (1898-1974), a cura di Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone e Furio Jesi (1941-1980), introduzione di Stefano Zecchi, n. ed., Longanesi, Milano 2008, p. 515.
36) M. PERA e J. RATZINGER, op. cit., p. 182.
37) G. JERVIS, op. cit., pp. 117-119.
38) PIERGIOROIO ODIFREDDI, Intervista a Jacques Derrida, alla pagina <http://www.piergiorgioodifreddi.it/wpcontent/uploa-ds/2010/10/derida>, consultata il 22-5-2014.
39) Voce “destrutturare“, in Vocabolario Treccani, alla pagina <http://www.treccani.it/vocabolario/tag/destrutturare/>, consultata il 28-2-2014.
40) SAN GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25 marzo 1995, alla pagina <http://www.vatican.va/holy_father/john_pauHi/encyclicals/documents/hfjpii_enc_25031995_evan-gelium-vitae_it.html>, consultata il 22-5-2014.
41) JEAN LOUIS MARGOLIN, In Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, trad. it., in Il libro nero del comunismo, a cura di Stéphane Courtois, Mondadori, Milano 1998, pp.541-595 (p. 554).
42) SERGIO ROMANO, I volti della storia. I protagonisti e le questioni aperte del nostro passato, Mondolibri, Milano 2001, p. 421.
43)Ibid., p. 458.
44) TZVHTAN TODOROV, Gli abusi della memoria, trad. it., Ipermedium libri, Napoli 2001 ; cit. in exergo ne Il libro nero del comunismo, cit., p. 3.
45) EMANUELE SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1979, pp. 109-110.
46) Cfr. «”Ci sono solo fatti”, io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni» (F. NIETZSCHE, La volontà dì potenza, trad. it., Bompiani, Milano 1992, fr. 481, p. 271).
47) GIACOMO SAMEK LODOVICI, Emanuele Samek Lodovici, in il Timone, informazione e formazione apologetica, anno VIII, n. 53, Milano maggio 2006, pp. 32-33.
48) RICHARD RORTY, La svolta linguistica, trad. it., Garzanti, Milano 1994, pp. 23-110 (p. 29).
49) Cit. in ALBERTO MARRADI, voce “lìnguistic turn”, in RENATO CAVALLARO (a cura di), Lexikòn. Lessico per l’analisi qualitativa nella ricerca sociale, CieRre, Roma 2006, pp. 302-307 (p. 304).
50) JACQUES DERRJDA, Della Grammatologia, trad. it., Jaca Book, Milano 1969, p. 220.
51) G. JERVIS, op. cit., pp. 49-50.
52) Ibid.,pp. 50-51.
53) J. RATZINGER, Fede. Verità. Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, trad. it, Cantagalli, Siena 2003, pp. 196-197.
54) lbid..p. 199.
55) SAN GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio circa i rapporti tra fede e ragione, del 14 settembre 1998, n. 84.
56) ANTOINE COMPAGNON, I cinque paradossi della modernità, trad, it., il Mulino, Bologna 1993, p. 152.
57) G. VATTIMO, Senza metafisica cristianesimo più libero, intervista ad Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, 7-2-1998.
58) IDEM e PIER ALDO ROVATTI, II pensiero debole, 5a ed., Feltrinelli, Milano 1987, p. 11.
59) G. VATTIMO, Quale futuro aspetta la religione dopo la metafisica? “Richard Rorty, Gianni Vattimo e S. Zabala discutono il futuro della religione”, in R. RORTY e IDEM, II futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a cura di Santiago de Zabala, Garzanti, Milano 2005, pp. 61-89 (p. 63-65).
60) Ibidem.
61) PLATONE, Fedone, trad. it, a cura di Franco Traballoni, Einaudi, Torino 2011.
62) LAURA BOCCENTI, “Pensiero debole” o metafisica? Nichilismo senza ragioni, in il Timone. Informazione e formazione apologetica, anno III, n. 11, Milano gennaio 2001,pp. 26-27.
63) ibidem.
64) G. VATTIMO, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano 2002, pp. 8-9.
65) CARD. ANGELO SODANO, Discorso al II incontro di politici e legislatori d’Europa, del 22-10-1998, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso. Città del Vaticano 23-10-1998.
66) JÉRÓME LEJUNE, Chi ha paura del vecchio Albert?, dal sito Meetinrimini.org
67) FRANCESCO, Omelia durante la Messa nella cappella della Domus Sanctae Marthae in Vaticano, del 18 novembre 2013; sunto in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-11-2013.