LineaTempo n. 39 dell’aprile 2025.
Sangue sulla Resistenza italiana: la vera storia dell’eccidio di Porzûs
La “Liberazione” che si festeggia ogni 25 aprile in Italia non è un monopolio di autoproclamati “gendarmi della memoria”, bensì un prisma che riflette luci e ombre del periodo 1943-45
Il 7 febbraio del 1945, un commando di partigiani comunisti dei GAP [Gruppi di Azione Patriottica] attaccò a tradimento un gruppo di partigiani della [Brigata partigiana cattolica] Osoppo stanziata alle malghe di Porzûs [Udine, Italia], a pochi chilometri in linea d’aria da quello che oggi è il confine italo-sloveno.
Gli uomini del commando, guidati da Mario Toffanin, ammazzarono immediatamente il comandante della Osoppo, il capitano Francesco De Gregori, il delegato politico della formazione Gastone Valente e una ragazza che collaborava con i partigiani, Elda Turchetti.
Quattro partigiani riuscirono a scappare, altri 16 furono presi prigionieri e trasportati alla sede della brigata GAP di Toffanin a Novacuzzo, una località isolata del comune di Prepotto, circa 13 chilometri a sud di Cividale del Friuli [Udine]. Due dei prigionieri si rifecero vivi nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, gli altri furono tutti uccisi.
Ottant’anni dopo, attraverso un imponente e accurato lavoro di archivio, che incrocia per la prima volta documenti inediti italiani e sloveni, Tommaso Piffer, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Udine, direttore scientifico e presidente della giuria scientifica del premio Friuli Storia, è riuscito a ricostruire, nel recentissimo volumeSangue sulla Resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs (Mondadori, Milano, 2025, pp. 264),non solo uno degli episodi più controversi della storia della Resistenza italiana (partigiani che uccidono altri partigiani), ma anche il contesto ideologico internazionale che ha condizionato l’intera vicenda, che getta una nuova luce sul significato storico di questo episodio, mostrando che all’origine dell’eccidio sta la rottura dell’unità dell’antifascismo italiano in nome della solidarietà ideologica con i comunisti sloveni da parte dei garibaldini della [Divisione Garibaldi] “Natisone”.
Per gentile concessione dell’autore, riproduciamo qui il testo del suo breve intervento alla cerimonia di commemorazione dell’eccidio del febbraio di quest’anno, in cui si mostra che la ricerca della verità non esclude, anzi aiuta a far germogliare il perdono per quel che è accaduto.
Giustamente, infatti, Piffer conclude il suo discorso affermando: «Ricerca della verità e perdono. Non c’è altra strada, per quanto dolorosa possa essere, per superare le fratture scavate dalla strage nella coscienza del paese e, a ottant’anni di distanza, consegnare definitivamente alla storia l’eccidio di Porzûs».
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Commemorazione dell’eccidio di Porzûs,
Canebola (Faedis, Udine), 23 febbraio 2025
Autorità civili e religiose, membri dell’Osoppo e delle Associazioni combattentistiche, signore e signori presenti.
Prendo la parola con piena consapevolezza che ricordare l’eccidio di Porzûs significa riportare alla memoria non solo il più grave scontro interno alla resistenza italiana per numero di vittime e per l’efferatezza con cui fu compiuto.
Ricordare Porzûs significa soprattutto andare con la mente a una ferita che ha sanguinato ormai per ottant’anni. Una ferità che non solo ha stentato a ricomporsi nonostante il passare del tempo e delle generazioni, ma che in alcuni frangenti storici si è andata addirittura approfondendo, avvelenando il clima politico, sociale e storiografico della regione e di tutto il paese.
La storia dei popoli e dei singoli dimostra però che non c’è ferita, per quanto profonda, che non possa ricomporsi. Il compito di chi ha a cuore che anche la ferita inflitta a Porzûs si rimargini è allora innanzitutto quello di cercare verità, senza timori e senza pregiudizi, perché senza verità non è possibile né la giustizia né la riconciliazione.
Oggi sappiamo che all’origine dell’eccidio ci fu la determinazione del IX Corpo di occupare prima dell’arrivo dagli alleati occidentali tutta l’area che il movimento di liberazione sloveno rivendicava alla Jugoslavia socialista. Si trattava di un obiettivo esplicito con una duplice componente: quella nazionale, per la creazione di una Slovenia unita all’interno dei cosiddetti confini etnici, e quella ideologica, per l’espansione del campo socialista.
Allo scopo di rimuovere tutti i potenziali ostacoli sulla strada di questo obiettivo, a partire dal settembre del 1944 il comando sloveno iniziò una massiccia campagna di propaganda verso la popolazione che viveva nelle aree che rivendicava a sé e impose alle formazioni italiane presenti nell’area contesa, la prima brigata Osoppo e la divisione Garibaldi Natisone, di passare sotto il proprio controllo.
Il comandante della prima brigata Osoppo, Francesco de Gregori, avrebbero potuto facilmente lasciare la zona contesa, lasciando che fossero gli eserciti degli alleati occidentali a costringere quello jugoslavo a desistere dai suoi propositi. Invece non solo si rifiutò di passare alle dipendenze slovene, ma decise di rimanere al suo posto anche quando tutto faceva presagire un’azione violenta da parte di chi non tollerava più la sua presenza in zona. De Gregori e i suoi uomini pagarono questa scelta con la vita e oggi ne ricordiamo il sacrifico in difesa del paese.
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone, al contrario, fece prevalere la solidarietà ideologica con l’alleato jugoslavo sull’unità dell’antifascismo italiano. Nel tentativo, avallato dalla direzione del Partito comunista italiano, di favorire l’occupazione delle zone contese da parte della Jugoslavia socialista, il comando della Natisone prima passò alle dipendenze del IX Corpo, poi scatenò una violentissima campagna diffamatoria accusando gli osovani si connivenza con il nemico.
Infine, nel dicembre del 1944, non solo accettò la richiesta slovena di cacciare con la forza gli osovani, ma pianificò un’operazione militare che prevedeva esplicitamente l’eliminazione fisica di tutti i partigiani osovani che non avessero accettato di passare nelle fila garibaldine.
Furono poi i GAP guidati da Mario Toffanin a realizzare l’operazione, che oggi ci appare in tutta la sua brutalità come una strage figlia della feroce determinazione di eliminare un ostacolo per il raggiungimento di un preciso obiettivo politico.
Senza ricerca della verità non c’è giustizia. È infatti solo sul terreno della verità che può radicarsi il reverente omaggio ai caduti, del cui sacrificio oggi possiamo riconoscere ancor più pienamente la portata.
Ed è solo sul terreno della ricerca della verità che, quasi come un miracolo, possono germogliare anche la pietà e il perdono per i carnefici, che attaccando le malghe di Porzûs non hanno stroncato solo le giovani vite delle loro vittime, ma anche la propria stessa vita.
Come ha scritto il grande romanziere russo Vasilij Grossman, «uno è il castigo del carnefice: lui, che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice».
Ricerca della verità e perdono. Non c’è altra strada, per quanto dolorosa possa essere, per superare le fratture scavate dalla strage nella coscienza del paese e, a ottant’anni di distanza, consegnare definitivamente alla storia l’eccidio di Porzûs.
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