di Max Bruschi
L’idea della possibile costituzione di una società perfetta accompagna il pensiero politico occidentale sin dalla sua formazione. Dalla Repubblica di Platone, passando attraverso alcune eresie medioevali, l’Utopia di Thomas More e le elaborazioni degli illuministi settecenteschi, arriva dritta dritta nelle mani di Karl Marx e Friedrich Engels. Dove assume, sulla scia dell’idealismo hegeliano spruzzato di darwinismo, addirittura il crisma scientifico dell’ineluttabilità.
Restando, cammin facendo, sostanzialmente immutata in due tratti essenziali. Il primo, l’abolizione della proprietà privata e la comunione dei beni. I1 secondo, l’instaurazione di un regime totalitario, deputato al più stretto controllo sociale, prezzo ritenuto accettabile per la costruzione di una nuova umanità. In cosa l’applicazione pratica dei due principi si sia tradotta, è cosa nota.
Ciò nonostante, l’ideale mantiene ancor oggi il suo fascino. Lo stesso clamoroso crollo dei regimi d’oltre “cortina di ferro” non ha trascinato completamente con sé la teoria comunista che ne era la base. Per gli irriducibili, gli indiscutibili “errori umani” sono appunto solo tali, e non inficiano la bontà dei principi. Di fronte a tale pretesa, non c’è elenco di crimini e morti che tenga.
Richard Pipes, storico americano specializzato in Paesi dell’est, un palmarès invidiabile al servizio dell’amministrazione statunitense (da George Bush senior a Ronald Reagan), prende carta, penna e calamaio e dimostra che così non è, che le azioni degli uomini furono in qualche modo consequenziali ai principi.
Per farlo, squaderna la parola “comunismo” nei suoi tre aspetti: un ideale, un programma e un regime instaurato per trasformare l’ideale in realtà. Il tutto, in duecento pagine di prosa brillante che punta dritto al sodo. Comunismo. Una storia (Rizzoli, pagg. 236, euro 16) parte appunto dalla critica all’ideale. Se Karl Marx aveva impiegato 1400 pagine di ardua prosa tecnica per spiegare, nel Capitale, la sua teoria, Pipes ne impiega una trentina per demolirla.
Innanzitutto, la mitica età dell’oro cui buona parte degli utopisti si richiamano (a partire da Esiodo, cantore di un’antica società in cui nessun uomo era mosso “dal vergognoso desiderio di guadagno”), è né più né meno che una leggenda, come conferma l’archeologia. La bubbola che il comunismo sia una versione secolare e aggiornata del cristianesimo è liquidata ricorrendo ai vangeli (Gesù non ha mai insistito sulla povertà; l’ ha solamente consigliata come mezzo per facilitare la via della salvezza) e ai padri della Chiesa, unanimemente pragmatici nel considerare la proprietà “morale se usata con saggezza e per fini caritatevoli”.
Quanto alla profezia marxiana sull’inevitabile crollo del capitalismo, è bene stendervi sopra un velo. Non solo: il comunismo, ammesso e non concesso che sia una via praticabile, è di per sé disumano. Perché gli uomini, piaccia o meno, desiderano naturalmente di possedere. E perché l’instaurazione di una società comunista, prevedendo il dominio della comunità sul singolo, ne cancella gli inalienabili diritti naturali, primo fra tutti quello della libertà di pensiero, di parola, di azione.
Quanto al programma e alla sua attuazione, di fronte a Pipes si presentano solo macerie. Economie devastate, proliferazione di una nomenclatura privilegiata (alla faccia dell’uguaglianza), negazione dei diritti umani.
L’attenzione del cattedratico di Harvard non si appunta, però, esclusivamente su Josip Stalin. Ma pone in luce, ad esempio, il ruolo di Lenin nell’instaurazione del terrore sovietico e l’incondizionata approvazione di Lev Trockij. Le follie di Mao Tse-tung. 11 bagno di sangue cambogiano (come l’olocausto fu espressione della quintessenza del nazionalsocialismo, così il governo dei khmer rossi rappresenta la più pura incarnazione del comunismo).
Il sottosviluppo del terzo mondo. Persino la via democratica cilena al comunismo di Salvador Allende ne esce con le ossa rotte (inflazione al 300 per cento, produzione alimentare dimezzata…) e diventa la causa della successiva instaurazione della dittatura. Quando poi il regime, come in Cina, regge, lo fa al prezzo di pesanti concessioni al vituperato capitalismo.