Per quale motivo è stato voluto proprio in quegli anni? E come mai la sua interpretazione è diventata un campo di battaglia? L’11 ottobre 1962 si apriva un evento che ha segnato la vita della Chiesa, ribadendo la centralità di Cristo. Lo storico Fidel Gonzalez ne spiega l’attualità.
di Luca Fiore
IL SOFFIO DELLO SPIRITO. Erano le 10.30 del 25 gennaio 1959, quando il servizio stampa vaticano diffonde una nota in cui si annunciava la convocazione da parte di papa Giovanni XXIII del ventunesimo Concilio ecumenico, che si aprirà solennemente l’11 ottobre 1962.
Sono passati 17 anni dalla fine della Guerra mondiale, la Guerra Fredda è al suo apice. «Già agli inizi degli anni Venti, Romano Guardini parlava della fine dell’epoca moderna. Quell’epoca inaugurata dalla Rivoluzione Francese e che si conclude tragicamente con l’ecatombe della Prima Guerra mondiale di fronte alla quale va in pezzi tutta l’ideologia positivista e la fede nel progresso.
Da quel momento si apre un periodo molto triste e, in fondo, disperato. Dentro la Chiesa progressivamente, soprattutto tra le persone più vive, ci si chiede: “Qua! è la nostra missione in un mondo così disperato?”». Può apparire strano che la Chiesa si metta in discussione.
Fu un evento singolare? «Niente affatto. È una costante che percorre tutta la storia della Chiesa», continua padre Gonzàlez: «Nei momenti di confusione, la comunità dei cristiani sente il bisogno di fermarsi e rimettere a fuoco il proprio compito. Accadde a Nicea nell’VIII secolo. Accadde a Trento dopo lo scisma protestante nel XVI secolo, e a Roma col Concilio Vaticano I nel 1870. Eppure, in tutti questi casi, la decisione di convocare un’assemblea di questo genere non nasce dall’intuizione di un momento ma da «una coscienza progressiva del bisogno, in un mondo smarrito, di ricominciare dall’Uno. che è cristo».
Era un’esigenza solo della gerarchia o anche del popolo? «Questa coscienza era presente certamente, ma in misura differente, nella gran parte dei Vescovi», continua padre Gonzàlez: «Ma anche in grandi teologi: da Henri de Lubac a Hans Urs Von Balthasar, passando dal giovane Joseph Ratzinger. Anche tra gli intellettuali, scrittori e giornalisti cattolici, era iniziato a maturare questo bisogno. Ma certamente anche la gente comune percepiva che, in tanti casi, la fede era vissuta come distante dalle esigenze della vita».
Insomma, il Concilio Vaticano II non si innesta come protesi su un corpo esanime. «Tutt’altro. Alla vigilia di questo grande evento, è successo quello che è capitato prima di tutti gli altri Concili: lo Spirito Santo dona alla Chiesa nuovi carismi che corrispondono in modo speciale a ciascun momento storico. Pensiamo al monachesimo nei primi secoli, ai francescani e domenicani nel Medioevo, ai gesuiti dopo la Riforma protestante.
Così prima del ’59 erano già nati: la Milizia dell’Immacolata fondata da Massimiliano Maria Kolbe nel 1917; il movimento Luce e Vita a Katowice, in Polonia, nel 1942; il Movimento dei Focolari a Trento, nel 1943; Comunione e Liberazione a Milano, nel 1954. Poi, dopo la chiusura dei lavori del Concilio, lo Spirito continua a soffiare ed è la volta del Cammino Neocatecumenale in Spagna, nel 1964; nello stesso anno, la Communauté de L’Arche in Francia; il Rinnovamento dello Spirito negli Stati Uniti, nel 1967, e molti altri.
Queste esperienze mostrano che il cristianesimo non è un’astrazione, ma passa attraverso volti concreti che generano realtà di comunione che, prendendo sul serio l’incontro con Gesù, a loro volta sono capaci di rendere percepibile la presenza di Cristo per tutti».
Nel 1965, al termine del Concilio, la Chiesa ottiene in eredità quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni. Le costituzioni, in particolare, sono il punto più alto del lavoro dei padri conciliari. Dopo la Sacrosanctum Concilium (1963), che mette a punto la riforma liturgica, vengono pubblicate la Lumen Gentium (1964) sulla natura della Chiesa, la Dei Verbum (1965) sulla Parola di Dio e la Gaudium et Spes (1965) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
A chiudere i lavori fu Paolo VI, quale fu il suo ruolo? «Fu decisivo. I lavori si svolsero talvolta in modo drammatico. Nel caso di papa Montini vedo in modo chiaro l’assistenza dello Spirito Santo: riuscì infatti a superare immense difficoltà e si oppose a tendenze che apparentemente potevano sembrare predominanti.
Tendenze che portarono a forme di estremismo coloro che decisero di seguirle. Montini, invece, seppe tenere la barra dritta. Penso soprattutto al tema del rapporto tra Papa e vescovi e alle questioni che riguardano la biologia umana. Non a caso, negli anni successivi, dovette combattere per far accettare – anche a una parte dei vescovi – un testo come l’Humanae Vitae».
RIFORMA E CONTINUITÀ. Negli anni che seguirono l’interpretazione del messaggio del Concilio è diventata un campo di battaglia. Tanto che, ancora nel 2005 di fronte alla Curia romana, Benedetto XVI si domandava: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?».
Lo scontro, ricordava il Pontefice, è stato tra due visioni contrarie «che si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro»: l’ermeneutica della “discontinuità e della rottura” e quella della “riforma nella continuità”. La prima, secondo Ratzinger, ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.
«Il pensiero che il Concilio introduca una cesura netta con il passato ha dato origine a due posizioni ambigue di segno opposto», conclude padre Gonzalez: «Da una parte gli entusiasti che chiedono sempre più rinnovamento, dall’altra chi denuncia una dissoluzione dell’identità ecclesiale chiedendo un “ritorno all’ordine”. Entrambe queste posizioni fanno fuori il fatto che la Chiesa, in quell’occasione, non fece altro che ribadire quanto ha detto per tutta sua la storia. Fu un aiuto per riscoprire che la nostra missione di cristiani è quella di riproporre l’avvenimento di Gesù Cristo come corrispondente alle esigenze più profonde del cuore dell’uomo».