Non dico del mondo esterno “grande”, la città, l’Italia, l’Europa, il pianeta. Quello è di per sé ‑ ci siamo abituati ‑ un mondo che va sempre avanti indipendentemente da noi. Anche nella cameretta d’ospedale, del resto, mi giungevano dalla televisione, peraltro raramente accesa, le notizie sulla borsa di Tokyo, sul cambio della lira, sulla Cecenia e sulla Somalia. Ho perfino votato, a letto, e seguito, un po’ distrattamente, l’andamento dello spoglio dei voti. E il tempo per la lettura dei giornali non mancava, anzi; mai ne avevo letti cosi tanti, e così attentamente, quasi accanitamente, come a voler mantenere, per loro mezzo, un rapporto con l’esterno, al di là dei vialetti ospedalieri panorama della mia finestra.
Sarà anche la stagione, per la quale tre settimane sono molte. Forse, fosse stata l’epoca del letargo invernale, o anche quella del sonnacchioso meriggio estivo, l’impatto sarebbe stato minore. Ora, invece, tutto è mutato rapidamente in quel giardino di cui ero solito seguire, giorno per giorno, i cambiamenti.
L’albero di Giuda, lasciato intento a ricoprirsi di fiorellini rosa sui rami nudi, è già pieno di sole foglie; le api, che lietamente vi si affollano nel pieno della fioritura, non mi hanno aspettato, ed ora saranno da qualche altra parte a compiere il loro assiduo lavoro. Le rose, delle quali amavo cogliere il primo affacciarsi dei boccioli, sono in piena fioritura, ed anzi qualcuna è già secca.
Perfino l’ippocastano, sul fondo del giardino, ha prodotto i suoi grappoli bianchi; ed il faggio rosso, che ogni anno seguivo trepidante per la sua incerta lentezza a rimettere le foglie, non è mai stato così bello come quest’anno che ha fatto tutto da sé, senza le mie quotidiane visite di affettuoso incoraggiamento.
Né solo le piante si sono comportate così. Certo, la vecchia gatta e i due cani mi hanno accolto festosamente: la gatta con la consueta dignità, appena incrinata da qualche segno più scoperto di gioia, i cani con l’abituale confusione; eppure, anche loro, sono sopravvissuti senza difficoltà, tanto che mi domando se non stessero abituandosi piano piano all’idea di una mia definitiva scomparsa.
E le persone? Ma, forse neppure per loro le cose sono troppo differenti. Ho chiesto alla mia accompagnatrice di fare un giretto in macchina per il paese prima di portarmi a casa. Al bar, delle cui conversazioni mattutine mi ritenevo un animatore indispensabile, ho intravisto i personaggi di sempre tranquillamente intenti al controllo delle schedine. Al negozio del barbiere, luogo di elezione delle chiacchiere paesane, tutto sembrava come quando mi ci fermavo lo, solo senza di me.
Perfino a casa, in fondo, se l’erano cavata benissimo. Una mia nipotina aveva fatto la prima comunione senza che ci fosse il suo zio più anziano; un”altra nipote, addirittura, mi aveva reso prozio: tutto in mia assenza. Ogni giorno le stanze erano state pulite, la posta ritirata, le bollette pagate, i pranzi e le cene preparati; qualcuno aveva risposto al telefono o chiamato l’idraulico per riparare la caldaia.
Soltanto nel mio studio libri e fogli erano più o meno nel disordine in cui li avevo lasciati, così come avevo chiesto che fosse; ma pure loro, come i cani e la gatta, si stavano forse rassegnando alla mia assenza. Anche il disco del concerto per clarinetto di Mozart ‑ che avevo voluto ascoltare prima di ricoverarmi ‑ era ancora sul piatto.
Ho accarezzato le pipe, lentamente, ad una ad una, con tristezza affettuosa. E ho pensato, sul filo dell’adagio mozartiano, con una punta (non più di una punta) di dolore, che se non fossi ritornato, poco sarebbe cambiato: qualcuno avrebbe riordinato libri e fogli, riposto il disco, inscatolato le pipe … E l’assenza mi è parsa figura della morte a venire.
Asciano Pisano, 1996
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La mia conversione è lontana nel tempo. Avevo ventitré anni e ora ne ho cinquantasei. Avevo praticamente tutto dalla vita. Sposato da pochi mesi con la mia ragazza di sempre, un posto di assistente universitario appena laureato, un grande futuro apparentemente davanti a me. Invece, in una settimana ‑ la settimana di Natale ‑ per un’influenza che fece riesplodere una malattia renale che mi aveva tenuto a letto anni da bambino, passai dalla salute al coma, da un brillante sorridente futuro alla prospettiva di vivere soltanto grazie alla continua purificazione del sangue da parte di una macchina, tre volte alla settimana (grazie alla dialisi, ma allora la parola era quasi sconosciuta e il trattamento praticamente agli inizi).
Venivo da una famiglia moderatamente cattolica e praticante, avevo una modesta cultura cattolica verso la quale non provavo avversione, avevo avuto un tranquillo allontanamento dalla pratica religiosa. Ora dovevo decidermi: alle domande sulla vita e sulla morte che un giovane tendeva a rinviare dovetti rispondere subito. Credetti, mi convertii.
Ho fede, una fede razionale e razionalmente tranquilla. Le cose che dico nel Credo non mi pongono problemi, sono facili da credere. La fede mi ha aiutato a sopportare una lunghissima e drammatica storia sanitaria che il poco spazio mi impedisce di accennare. Mi ha salvato dalla disperazione.
So di avere avuto molto dalla vita, e quindi dalla provvidenza: una moglie straordinaria, una bella famiglia, carissimi amici, tre splendide figlie adottive ruandesi, una brillante carriera accademica. Ma sarei bugiardo se non dicessi che questa fede ha vacillato e vacilla di fronte alla grande tentazione della domanda “perché a me, Signore?” ‘Tu vuoi certamente il bene, ma anche il mio bene?”
“Tu sei certamente amore, ma a me perché mi ami così?” “Quando ti chiedo sollievo nel dolori a volte insopportabili, perché non mi ascolti?” “Quando, Madonnina mia, prima di un esame clinico per sapere se devo sottopormi all’ennesima operazione (la venticinquesima o la trentesima) e ti prego intensamente, e mi pare che mi sorridi, perché poi la risposta è sconfortante?” Insomma, la mia vera conversione deve ancora venire, finché non dirò, in modo pieno, continuo, sempre: “sia fatta la tua volontà”.
Asciano Pisano, 2002